Sorelle Monastero di Bose Il fuoco interiore
Gesù è in viaggio verso Gerusalemme, verso il luogo dove si compie il suo destino e ancora una volta ai suoi discepoli di allora, e a noi discepoli e ascoltatori di oggi, vuole ricordare la meta di questo viaggio: la sua morte e la sua resurrezione.
Gesù svela in questo modo la via per l’esistenza del discepolo, la riempie di contenuto e definisce tale esistenza come un “seguirlo”, e un seguirlo nel suo amare sino alla fine. Anche questo brano dell’evangelista Luca — che troviamo scomodo, a tratti duro, forse un po’ fuori luogo e fuori tempo, che saremmo tentati di tralasciare o addolcire — anch’esso indica alcuni passi di questa sequela.
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra». Quale fuoco, possiamo chiederci? C’è un fuoco che Gesù rifiuta sdegnosamente. Quello che Gesù è venuto a portare non è un fuoco divoratore; egli prende le distanze da coloro che vogliono appiccare il fuoco della durezza e del giudizio, quello che avevano invocato Giacomo e Giovanni pochi capitoli prima, sdegnati per il rifiuto dell’ospitalità in un villaggio di samaritani (cfr. Luca, 9, 54). Il suo è un fuoco interiore, lo stesso che ardeva nel cuore dei profeti e che Geremia confessa di possedere, «un fuoco ardente chiuso nelle sue ossa, incontenibile» (cfr. Geremia, 20, 7-9): è il fuoco, la passione per la parola di Dio. È questo il fuoco che Gesù vorrebbe accendere per trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne: la passione per Dio e la passione per l’altro, per il volto di Dio e per il volto dell’altro, unico fuoco, unica passione; la passione per Dio, fuoco ardente, quello zelo per la sua casa che portò un giorno Gesù a scacciare i mercanti dal tempio. Questo sì è un fuoco che Gesù vuole: il fuoco che consuma le false immagini religiose di una fede ridotta a mercato. Fuoco è anche lo Spirito effuso dalla croce dopo la sua morte, fuoco che abita in ciascuno di noi e che cerca di farsi spazio e luce per illuminare e liberare le nostre vite. Ma proprio questo fuoco che lo divora diviene causa di divisione, di incomprensione per molti.
«Pensate che sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione». Gesù sarebbe venuto sulla terra per questo? Lui, il mite, l’umile di cuore, che si era presentato all’inizio del suo ministero come colui che era stato mandato a portare ai poveri il lieto annuncio? Gesù è venuto come uomo di pace, ma proprio il suo vivere l’amore incondizionato fino all’estremo ha provocato l’effetto opposto, facendone per molti un segno di contraddizione, una pietra d’inciampo. Con le sue parole e le sue azioni Gesù diventa uno spartiacque che mette in crisi perfino i legami familiari, i legami più naturali di ogni vita umana. L’opposizione che ha toccato l’esistenza di Gesù toccherà anche la vita dei suoi discepoli: i suoi familiari lo considerano pazzo e vanno a prenderlo perché stentano a capire (cfr. Marco, 3, 21), ma lui non scende a compromessi e con forza si oppone loro dicendo che «sua madre e i suoi fratelli sono coloro che ascoltano e mettono in pratica la parola di Dio» (cfr. Luca, 8, 20-21). La sequela è esigente, ci è chiesto di considerare, verificare e scegliere come un buon costruttore di torri o un ottimo stratega in guerra, se cominciare o meno il viaggio con lui; durante il viaggio, si tratta di lottare ogni giorno per morire a se stessi e vivere solo in Dio e per Dio, facendo della rinuncia a ciò che non è essenziale, a ciò che ci è d’intralcio e ci distoglie dalla meta, la cifra della nostra intera esistenza. La battaglia è quotidiana, però il fine di questa guerra è l’acquisizione di quella pace e di quella gioia che niente e nessuno potrà toglierci, e l’imparare il dono di sé, il vero amore. L’obiettivo, il punto di arrivo è quella carità che sola può dare la forza di realizzare finalmente la morte a se stessi per vivere in Dio; il fine è l’autentica carità, che è allo stesso tempo e indissolubilmente amore di Dio e amore del prossimo.
a cura delle sorelle di Bose