Alessandro D’Avenia "Il mondo lo salverà la gentilezza"
Il mondo non è una biglia blu mare che danza secondo le leggi della fisica alla periferia di una delle infinite galassie dell'universo. Troppo poco.
Perché mondo? Traduzione del greco kosmos (ordine/bellezza), armonia di elementi connessi tra loro; l'opposto è immondo (brutto/decomposto) come l'immondizia. E poiché salvo significava in origine unito, collegato, integro, allora il mondo è salvo quando i legami che lo costituiscono sono così forti che l'entropia (morte) non riesce a spezzarli.
Ma per essere così saldi di che cosa devono esser fatti questi legami con sé stessi, con le cose e con le persone? Se per esempio in una catastrofe mondiale sopravvivesse solo la classe in cui sto facendo lezione, quello sarebbe il mondo intero.
Che mondo sarebbe? Che cosa le permetterebbe di salvarsi e fare un mondo nuovo?
La gentilezza, che non è il morbido sentimental-moralismo di facciata a cui è spesso ridotta oggi. Ho partecipato al Festival della Gentilezza, organizzato dal Corriere la scorsa settimana, nel tentativo di rianimare questa parola. Che cosa ho scoperto?
La gentilezza nella cultura individualistica in cui siamo immersi è spesso una finzione, una forma seduttiva per avere più potere.
Siamo gentili fino a quando qualcuno non calpesta l'alluce al nostro ego, tolleranti fino a prova contraria. Quanti «gentili» in scena, dietro le quinte sono feroci, perché la loro gentilezza è manipolazione, seduzione, paternalismo, affettazione, posa, strategia... per far abbassare le difese altrui e ottenere più controllo. La gentilezza è l'opposto. Gentile viene infatti dall'antica radice del «dare vita» presente in: generoso, geniale, generare, genesi, ingegno... Anche gente viene dalla stessa radice, gens era infatti, a Roma, il clan allargato con il medesimo capostipite, e gentile era quindi chi apparteneva a quella stirpe (Cesare era della famiglia dei Cesari, della gens Iulia, e si chiamava Caio: Caio Giulio Cesare).
Nel Medioevo, grazie soprattutto ad alcuni poeti, si spezza l'identificazione gentilezza-sangue, cortesia-corte, e la gentilezza diventa qualità dello spirito, cioè del cuore. I poeti dello Stilnovo (tra cui il giovane Dante) dicono che la gentilezza è la potenza umana che si attiva quando si è «generati» dall'amore.
La donna gentile rende gentile l'innamorato, perché solo chi è già gentile rende tale chi lo è ancora solo in potenza.
Gentilezza è quindi l'effetto dell'amore che mi conferma, gratuitamente, che sono degno di esistere, sono voluto, così come sono, nella vita. È infatti il «saluto» (stessa radice di salute e salvezza) fisico e metafisico di Beatrice a Dante a farlo entrare in una Vita nuova (titolo della sua prima opera).
La gentilezza non è più nobiltà di sangue, ma di cuore. Esser nobile per questi poeti non è questione di «classe», ma di nascere a una vita che è il progressivo compimento della propria natura nel suo darsi unico e irripetibile.
Il gentile viene generato e può quindi generare. Facciamo un salto nella modernità, sempre dove la lingua è madre, cioè dà vita, come accade per lo più nella poesia. Leopardi definisce «gentile» un fiore, non per effetto di un'emozione effimera ma di una profonda verità: gentile è la ginestra che fiorisce nel deserto di lava del Vesuvio. Per il poeta la gentilezza del fiore è l'eroica fedeltà a se stesso in favore dell'altro, compimento della propria originalità (origine).
La ginestra infatti mostra all'uomo, illuso di esser padrone della vita con le sue «magnifiche sorti e progressive», dove alberga la sua reale grandezza: «tu siedi, o fior gentile, e quasi/ i danni altrui commiserando, al cielo/ di dolcissimo odor mandi un profumo,/ che il deserto consola».
La gentilezza-ginestra è fedele a sé e agli altri, e non nonostante il deserto, ma proprio nel e per il deserto, dove ha le sue radici e il suo compito: ama, dà se stessa, profuma e consola. Questa gentilezza crea la famiglia umana, che Leopardi chiama «social catena» e basa sulla lotta degli uomini contro il loro nemico comune, la natura con la sua indifferenza. Ma neanche ciò basta, perché non tutti sono capaci di questo generoso eroismo.
Dove attingere allora l'energia della gentilezza? L'unica cosa che tutti gli uomini hanno veramente in comune è essere figli, questo significa che l'esperienza della filiazione, quel radicale sentirsi e sapersi voluti nella vita, è l'unica condizione che consente di essere poi riconoscenti alla vita, cioè pronti a creare altra vita.
Chi appartiene diventa gentile, ed è poi quindi generoso, geniale, ingegnoso. È «da» e quindi «per». Oggi è eroso proprio il senso di filiazione, di appartenenza alla vita, di ri-generazione continua. Più che figli ci sentiamo orfani. Questo dipende dalla morte di Dio certificata da Nietzsche, Dio non fa più mondo, non è più la fonte dei legami.
E infatti il filosofo proponeva una via, eroica e solitaria, simile alla ginestra leopardiana. Ma chi ci riesce? Per esempio: come può essere gentile (generativa) una scuola basata sul precariato, che fa sentire orfani sia docenti che studenti. Serve uno stilnovo di gentilezza che rinnovi cuori e strutture sulla base del senso di filiazione, di appartenenza: essere generati per generare.
A dispetto di quanto si dica in giro, Dio ci manca, e per questo Chesterton a proposito di guerra diceva che sono solo due le vie per la pace: «Uno consiste nel rimedio buddista dell’eliminazione di tutti i desideri. L’altro nel rimedio cristiano di una comune religione». Non a caso è la rivelazione del Figlio, cioè la rivelazione di una relazione e non di una religione, proprio quello che ci apprestiamo a festeggiare con il Natale.
Quando Cartesio mise a fondamento della realtà il suo «Penso quindi sono», ci obbligò a «pensarci» soli e a «farci» da soli (self-made), conquistando, consumando, sottomettendo. In guerra. Invece, come dice il filosofo Emmanuel Lévinas, tornando inconsapevolmente al «saluto» di Beatrice a Dante: «Prima del cogito viene il buongiorno», prima dell'io viene il tu, prima dell'individuo la relazione, l'io è un figlio. Infatti a differenza della certezza cartesiana, la verità è di carne, ha un volto, e per questo comporta rischi e incertezze, come accade in ogni relazione.
Il gentile non teme di morire perché viene sempre ri-generato, non si esaurisce perché riceve sempre vita e nessuno gliela può togliere, anzi è lui che la dona. Per salvare il mondo il «Penso dunque sono» deve cedere il passo al ben più reale e appassionante «Mi pensi dunque sono» e «Ti penso dunque sono». Chi mi pensa? A chi penso? La somma delle risposte fanno quanto siamo «gentili».
Solo così quella classe, sopravvissuta alla catastrofe, potrà essere un mondo nuovo. Salvo. Gentile.
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