Marinella Perroni "Cara Michela Murgia, io continuo a parlare con te"
Ho regalato a un amico comune i due volumetti in cui tu hai raccolto gli articoli che per due anni hai scritto per il Messaggero di Sant’Antonio di Padova, Persone che devi conoscere: erano gli unici due che mancavano dalla sua biblioteca, gli altri libri tuoi li ha tutti. Perché ci ho tenuto a regalarglieli? Perché, credo, tanti di quei mondi a cui rimandano quel centinaio di piccole storie possono essergli familiari o possono comunque suggerirgli qualcosa. Soprattutto, però, perché lì c’è qualcosa di molto importante che non ho voluto andasse perduto come tu non hai voluto andasse perduto: quello che tu consideri il segreto della vita.
Mi ha colpito innanzitutto, Michela, la tua attenzione alla gente comune, e non certo per populismo. Nel primo volume le cinquantasette persone da conoscere sono quelle che possiamo incontrare nel nostro condominio, nel nostro quartiere, nel nostro paese. Tu dedichi loro uno sguardo attento, capace di cogliere che cosa ciascuno o ciascuna è in grado di dire e di dare in gesti e parole che appartengono al quotidiano. Non li descrivi in modo agiografico e neppure semplicemente esemplare perché: «Sono tutte storie così, semplici al punto che brillano solo se qualcuno se ne accorge e le racconta». Anche io sono sempre stata convinta che c’è uno «straordinario nell’ordinario » di cui bisogna sapersi accorgere, che non bisogna soltanto scoprire, ma anche voler ascoltare e, soprattutto, voler raccontare. Persone che «a qualunque sguardo superficiale apparirebbero del tutto prive di quella misteriosa luce di predestinazione che dovrebbe distinguere una persona speciale dalla massa di chi speciale non è».
Non faranno la Grande Storia ma intessono i fili della storia del nostro quotidiano, e sono quelli che rendono la nostra vita vivibile e la nostra terra abitabile. Ne sono convinta e per questo ho voluto che un volume della collana editoriale del Coordinamento teologhe italiane fosse dedicato a due donne, Ivana Ceresa e Marisa Bellenzier, che non hanno avuto la possibilità di studiare teologia in modo accademico come abbiamo fatto noi, perché all’epoca era precluso, ma che hanno sentito l’esigenza di una formazione teologica adeguata a quel tempo di grandi fermenti che è stato la preparazione del Concilio, e ciò ha consentito loro di seguirne, sia pure a distanza, lo svolgimento e di trasmetterne lo spirito. Noi più giovani eravamo stupite per lo spessore della loro cultura teologica. Hanno insegnato alla mia generazione che la passione per la teologia viene prima del diritto a essere ammesse nelle aule delle facoltà teologiche e che in questa passione risiede il segreto della vita, qualunque sia il tempo in cui vivi o il tuo stato sociale.
Al contrario, nel secondo volume c’è una caratteristica che connota tutte le «persone che devi conoscere», cioè il fatto che, senza enfasi, ma influendo ciascuna sulla propria realtà in modo non eclatante ma personale, riescono sempre a contribuire a quella che tu chiami la «manutenzione della felicità comune» che «è fatta di piccoli gesti pensati e scelte forse non tutte facili, ma comunque sempre alla portata di chiunque». Basterebbe quell’espressione «manutenzione della felicità comune», cara Michela, per capire che senso tu hai dato alla vita umana, la tua e quella di ciascuno, e perché l’enorme successo che hai avuto non ha fatto altro che incrementare in te il senso di responsabilità per la vita di tutti. Non a caso su Wikipedia, prima ancora che come scrittrice, drammaturga, opinionista e critica letteraria, tu vieni presentata come «attivista». Perché è vero: per te, il modo che hanno gli umani per contribuire alla «manutenzione della felicità comune » può essere solo quello di sentirsi liberi e responsabili di fronte alla realtà, propria e degli altri.
Lo hai detto a una platea immensa di giovani:«Pagate il prezzo di essere impopolari, di sentirvi dare delle stronze, di sentirvi dare delle streghe. Perché quello che si guadagna è infinitamente di maggior valore. E dovete piacervi, non compiacere ». È stato il motto delle tue Morgane e lo hai ribadito nell’incipit del tuo «testamento»: «Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno».
Avevo diciannove anni quando ho letto Linea della vita di Hammarskjöld, e la frase impressa sulla copertina, che rivela il segreto della sua vita e forse svela anche quello della sua morte, ha avuto su di me un effetto indelebile: «Alle mie condizioni, quelle poste da me. Vivere sotto questo segno significa comprare la conoscenza di una linea della vita al prezzo della solitudine». Per carità, nessuna mistica dell’eroe, nessuna esaltazione del fanatismo. Non tanto perché non possiamo non sapere quante e quanto pesanti sono le condizioni che la vita ci ha imposto, ma perché le «condizioni» di cui parla Hammarskjöld sono altre, toccano la profondità di ciò che senti di essere e di ciò che sai essere. Sono quelle che maturi vivendo, ma anche quelle che ti vengono dalla tua vita interiore, da quelli che Hammarskjöld chiama «i miei negoziati con me stesso e con Dio».
Soprattutto da quella spiritualità che ti insegna la stratigrafia della realtà. L’abbiamo imparata dalla Bibbia, che è stata per noi strumento per leggere tutta la realtà, di cui cogli le molteplici dimensioni nel momento in cui vai oltre il piano che vedono tutti e arrivi al piano dell’osservazione profonda, «che vedono solo quei pervertiti che praticano la teologia in modo professionale» e che ti consente di vedere oltre i moduli iniziali e di chiederti cose che gli altri non stavano vedendo.
Fonte: La Repubblica