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Sabino Chialà "Il significato delle parole"

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L’uso invalso di utilizzare in italiano la semplice trascrizione di un termine greco, “parresia”, denota la difficoltà di trovarne nel nostro lessico un esatto corrispondente. Tale sostantivo greco è composto da pan (“tutto”) e rése (“detto”, “massima”, “discorso”) o réma (“parola”). Si traduce dunque letteralmente con “ogni parola”, intendendo la facoltà, la possibilità o la libertà di “dire tutto”. Così il verbo corrispondente parrhesiázomai significa “parlare con libertà” e quindi “con fiducia”. 
Come ho già precisato in precedenza, normalmente sia il sostantivo sia il verbo hanno un valore positivo, vi è tuttavia un uso in cui il termine può indicare un atteggiamento riprovato perché eccessivo, quale “sfrontatezza” o “familiarità smodata” e dunque “dannosa”. Il latino classico ha tradotto normalmente il sostantivo greco con libertas o licentia, quest’ultimo termine nel senso etimologico di “facoltà”, mentre nel latino cristiano esso è reso anche con constantia e fiducia (1). 
Curiosamente in ebraico non abbiamo un termine corrispondente. Peraltro si nota facilmente che nell’at greco, nella versione dei lxx, sia il sostantivo parrhesía sia il verbo corrispondente parrhesiázomai sono molto rari. Si contano solo dodici ricorrenze del sostantivo e quattro del verbo, quasi tutte negli scritti più recenti, vale a dire: Sapienza, Maccabei, Ester, Siracide, Proverbi, Giobbe e nel salmo 12 (11),6. L’unica eccezione è costituita da un passo del Levitico dove nel testo ebraico Dio dice: “Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatti uscire dalla terra d’Egitto, perché non foste più loro schiavi. Ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatti camminare a testa alta (qomemijjut)” (Lv 26,13); e il greco dei lxx traduce: “Vi ho fatti camminare con parresia (metà parrhesías)”, vale a dire “con fiducia” e “liberamente”. 
L’osservazione dell’at induce a una considerazione importante, che cioè la parresia risponde a una sensibilità tipicamente greca. Non che tale atteggiamento non sia attestato nella Bibbia ebraica, basti pensare alla franchezza dimostrata dai profeti nelle loro invettive contro i potenti di turno o nei confronti di un popolo che deviava dalla retta via, ma si tratta di un concetto non così chiaramente individuato e tematizzato come in altri contesti culturali e religiosi. 
Per contro esso costituisce un tratto caratteristico del mondo greco classico (2), dove si accorda una grande importanza alle parole e dunque al come esse debbano essere dette. Ricordo l’elogio della parola del sofista Gorgia riportato nell’Encomio di Elena

La parola è un signore potente: essa con un corpo piccolissimo e del tutto invisibile compie opere quanto mai divine: è in grado, infatti, di far cessare la paura, di togliere via il dolore, di far nascere gioia, di accrescere compassione (3). 

Ho voluto ricordare questo passo, tra tanti, perché si accorda con alcune espressioni della Lettera di Giacomo: 

Se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. Se mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche tutto il loro corpo. Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e spinte da venti gagliardi, con un piccolissimo timone vengono guidate là dove vuole il pilota. Così anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di grandi cose. Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è inserita nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla geenna. Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dall’uomo, ma la lingua nessuno la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio (Gc 3,2-9). 

Gorgia riconosce che la parola “è in grado di persuadere e anche di ingannare la mente” (4). 
Di qui la necessità che si comunichi con parresia, cioè con libertà e franchezza. Saggio, per i greci, è colui che lascia che gli altri gli parlino con franchezza e non per adularlo. Stolto invece è colui che impedisce a chi gli sta vicino di dirgli ciò che davvero pensa. Questo si applica soprattutto ai capi, che il più delle volte preferiscono circondarsi di sudditi e consiglieri compiacenti, che li confermino nei loro pensieri piuttosto che metterli a parte dei propri. Così si rivolge Isocrate a Nicocle, re di Salamina: 

Giudica fedeli non quelli che lodano tutto ciò che dici o fai, ma quelli che condannano i tuoi errori. Concedi la parrhesía a coloro che sono saggi affinché, quando hai dei dubbi, ci sia chi possa giudicare insieme a te (5). 

Tra le più grandi tentazioni di chi ha responsabilità di governo vi è infatti quella di impedire la parresia a quanti pure ha lui stesso voluto accanto a sé come consiglieri, privandoli di fatto della libertà di dire ciò che davvero pensano. In tal modo, dice Isocrate, costoro si privano di un aiuto di capitale importanza, principio nefasto di ogni abuso di autorità e principio della sua degenerazione. 
Ho voluto dedicare queste brevi considerazioni all’eredità classica per contestualizzare quanto vedremo emergere nel nt, dove, a differenza dell’at, il concetto assume una rilevanza inaspettata, attestata già a livello lessicale, con trentuno occorrenze del sostantivo parrhesía e nove del verbo parrhesiázomai. Tenuto conto dell’esiguità del nt rispetto all’at, l’incremento è significativo. Inoltre vi si osserva un ampliamento di significati, in quanto la parresia non interessa più solo le relazioni interpersonali, ma anche il rapporto con Dio, come atteggiamento di fiducia in lui, e con sé stessi, quale esigenza di autenticità. 

NOTE:

1 Cf. E. Cattaneo, “‘Parrhesia’: la libertà di parola nel primo cristianesimo”, p. 16. 

2 Cf. I. Lana, “La parrhesía nel mondo greco”, in Servitium III s. 28 (1983), pp. 16-22. 

3 Citato ibid., p. 16. 

4 Ibid. 

5 Citato ibid., p. 19. 


AUTORE Sabino Chialà (Locorotondo 1968) è monaco e priore di Bose dal 2022 a oggi. Studioso di ebraico e siriaco, si è dedicato in particolare allo studio della figura e dell’opera di Isacco di Ninive, di cui ha recentemente pubblicato la prima traduzione italiana completa della prima collezione dei suoi scritti.


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