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Mariapia Veladiano "Le streghe"

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15 luglio 2024 
Le streghe

Sei storie, ci sono. Sei storie terribili, scrive l’autore Giuseppe Faggin nel titolo che ha dato all’ultima parte del libro (Le streghe, Neri Pozza, Milano 1995) dove le ricostruisce, a partire dalle fonti processuali, in forma di racconto. Prima, per oltre 100 pagine, ha messo in campo le competenze di una vita. Di storia della filosofia, innanzi tutto, e poi di storia dell’occultismo, dell’arte, della mistica tedesca, competenze che ha allineato a ricostruire i fondamenti dottrinali della stregoneria che appartiene sì alla storia dell’umanità ma ha avuto in Europa la sua «epoca classica» (7) fra il Cinquecento e il Seicento, i secoli di Leonardo, Cartesio e Galileo. Com’è possibile?

Il lavoro una risposta la dà, perché «intende mostrare come i dubbi e le incertezze dottrinali, che pur ci furono, non hanno mai contribuito ad alleviare la sorte di tante infelici, ma che le peggiori stravaganze metafisiche, l’ignoranza scientifica, il fanatismo religioso, la malvagità morale hanno sempre portato, e spesso, ciò che più conturba, in buona fede, alle condanne e ai roghi» (7). 

E in ogni pagina Faggin afferma la sua fiducia in quella che con una bella espressione chiama «l’azione esorcizzante della cultura» (205) e insieme mostra come in molti momenti della storia del cristianesimo esistesse sufficiente dottrina da poter prendere strade diverse rispetto a quella che ha portato alla caccia alle streghe. 

Perché se è vero che la stregoneria appartiene alla storia dell’umanità, bisogna chiedersi perché mai la lunga notte in cui la caccia alle streghe ha avuto carattere diffuso e sistematico abbia interessato proprio l’Europa cristiana. 

La questione è teologica in senso pieno. Quando i primi scrittori ecclesiastici devono confrontarsi con le credenze pagane sul potere dei demoni e degli stregoni, la domanda è se sia possibile pensare a una potenza diabolica dopo la morte e risurrezione di Gesù. La liberazione che il Messia ha operato ha un limite nell’azione di potenze maligne ancora operanti? 

«Una volta – scrive con fiducioso ottimismo Atanasio (De incarnatione, 47) – i diavoli ingannavano con varie larve le menti degli uomini, servendosi di fiumi e di fonti, di pietre e di legni, e facevano stupire con incantesimi i mortali stolti; ma tutti questi inganni svanirono dopo che il Verbo discese dal cielo». 

E anche san Girolamo (In Isaiam, 19) scrive che «se i magi dell’Oriente vennero a Bethleem è perché vollero mostrare che la loro arte aveva perduto ormai qualsiasi efficacia» (20). Se questa dottrina avesse trionfato, osserva l’autore, la credenza nei demoni indubbiamente non sarebbe sparita, ma non avrebbe imperversato come invece è accaduto. Nonostante ci sia stato chi, con sufficiente dottrina e fede, avrebbe potuto stroncare al principio la presunta «sovrumana potenza del maligno» (21) le cose andarono diversamente. Faggin descrive il percorso che porta il cristianesimo a inglobare nei molti nomi di Satana la ricca demonologia pagana e poi ad aver bisogno della strega, perché «se la strega non esistesse, verrebbe meno tutta la costruzione metafisica che pretende di congiungere Satana alla natura e all’umanità» (45). La strega appartiene al paganesimo ma serve al cristianesimo: «Giudici, teologi, inquisitori dell’età rinascimentale e moderna si accaniscono contro la strega con l’ostinazione dello scienziato che abbisogna del suo experimentum crucis: la sorte della strega è vincolata, a loro giudizio, alla realtà sostanziale di Satana, e l’esistenza di Satana è legata alla causa stessa di Dio» (46). 

Tutto questo s’intreccia con «l’avversione alla donna e alla sessualità, considerati strumenti di perdizione. (...) C’è un ordine naturale nella trasmissione della sapienza: da Dio essa scende a Cristo, da Cristo nell’uomo, dall’uomo nella donna (Paolo, 1Cor 2): ben diverso è l’ordine della dottrina diabolica: da Satana essa trapassa direttamente alla donna e dalla donna all’uomo» (50). 

La coorte di dotte dimostrazioni che i padri inanellano a dimostrare questa verità è grottesca e sconfortante. I domenicani Jacob Sprenger nel Malleus maleficarum, che fu il breviario quotidiano degli inquisitori, scrive che foemina (donna in latino) viene da fe e minus perché ha poca fede e non la sa conservare, è animale imperfetto, pronta all’inganno, e ha caratteristiche fisiche e psicologiche che la accusano. È credulona, spergiura, maligna eccetera eccetera, e se il mondo potesse mantenersi in vita senza la donna potremmo conversare direttamente con Dio (cf. 51). Ecco. 

E alla fine le storie. L’ultima sezione del libro è introdotta da una citazione di Bernardo di Chiaravalle: «Habet mundus iste noctes suas et non paucas» (questo mondo ha le sue notti e non sono poche). E le donne ne conoscono molte, potremmo aggiungere. Le sei storie ricostruite da Faggin hanno qualcosa di tremendo in comune. Le donne, ovviamente, sospette per il solo fatto di esistere. Poi una violenta componente erotica e insieme di potere. Mandare al rogo le streghe dimostrava lo zelo religioso dei persecutori. E poi l’accettazione e la manipolazione, da parte degli inquisitori, di un sistema di delazioni pettegole e feroci, proprie degli ambienti segnati dall’ignoranza e dall’estrema povertà. 

Alla fine «cacciati dai paesi di campagna e dalle vallate solitarie per opera di una legislazione più illuminata e di una civiltà criticamente più matura, i demoni si rifugiarono nei conventi femminili, dove la clausura religiosa era anche clausura di costume e di vita (...) Il convento fu l’ultimo rifugio del demonio, cioè della pazzia, dell’isterismo e della cattiveria umana» (205). 

Oggi la stregoneria non ci spaventa più, scrive Faggin, ma la sua storia «ci ammonisce a essere vigili di fronte alla minaccia che l’irrazionalità perennemente esercita contro l’equilibrio e la sanità del pensiero e che il desiderio di potenza può scatenare, ormai non più in buona fede, nel mondo delle relazioni umane» (7).


Mariapia Veladiano

Mariapia Veladiano, scrittrice, laureata in filosofia e teologia, ha lavorato per più di trent’anni nella scuola, come insegnante e poi come preside. Collabora con la Repubblica e con la rivista Il Regno.


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