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Rosanna Virgili «Dio mandò suo Figlio, nato da donna». Smaschilizzare chiede una conversione

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14 Maggio 2024


La fede di Israele fonda la maschilizzazione sulla circoncisione. Ma Paolo ribalta questa tradizione: ciò che conta è essere una nuova creatura. E così fa anche l’evangelista Luca.

Se il thémelion (il “fondamento”) della Chiesa è Gesù Cristo, allora la Chiesa nasce da una donna poiché in Lei è la cava, la sua cascata divina alla vita incarnata. Paolo non dice: “nato da uomo” ma: «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» ( Gal 4,4). Ciò nonostante nell'XI Concilio di Toledo si stabilì che il Figlio fosse generato e messo al mondo de utero patris pur di evitarne l’origine femminile. Del resto la maschilizzazione della nascita è presente prima del cristianesimo nel mondo antico del Mediterraneo. Un caso eclatante è quello della dea greca «dagli occhi verde azzurri», Atena, che, forse proprio per la sua sapienza, nacque direttamente dalla testa di Zeus, il dio padre che la partorì dopo aver inghiottito Metis, la sua prima moglie. 

Anche Paolo, pertanto, che conosceva la cultura greca avrebbe potuto postulare che il Figlio fosse nato dalla mente – o dall’utero - del Padre. E un uomo come lui che vantava la piena identità ebraica (2Cor 11,22: «Sono Ebrei? Anch'io! Sono Israeliti? Anch'io! Sono stirpe di Abramo? Anch'io!») avrebbe potuto difendere – come facevano i cosiddetti “giudaizzanti” – la necessità di far circoncidere quelli che, tra i gentili, venivano alla fede cristiana. È, infatti, proprio sulla circoncisione che si fonda la “maschilizzazione” della fede di Israele. Innanzitutto perché è un taglio che spetta, giocoforza, solo ai maschi, e poi per il suo valore teologico biblico: chi è circonciso appartiene al popolo eletto dei figli di Abramo. 

La circoncisione è un segno escludente che preclude non solo ai gentili ma prima ancora alle donne ebree un rapporto immediato con Dio. Ed è sulla circoncisione di Abramo e dei suoi figli che si impianta il patriarcato biblico. Al punto che non importa se siano o meno ebree le madri dei figli di Abramo ma che tutti siano usciti dal seme del suo membro circonciso, segnato, cioè, dall’alleanza con Dio. Se Paolo avesse voluto maschilizzare le chiese cristiane avrebbe potuto semplicemente imporre la circoncisione. Ma ciò non accadde, al contrario, Paolo la contrastò fortemente, poiché diceva: «Non è infatti la circoncisione che conta, né il prepuzio, ma l'essere nuova creatura» (Gal 6,15). Preparava, così, quanto si sarebbe compiuto nel battesimo cristiano: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» ( Gal 3,26-28). 

Basterebbe questo per documentare la smaschilizzazione della Chiesa sin dalle origini. Ed anche Pietro e Giacomo, “colonne” della Chiesa di Gerusalemme, ispirati dallo Spirito e dalla Scrittura, in occasione del primo Concilio, furono d’accordo con Paolo nel negare la necessità della circoncisione per i gentili prima del battesimo (cf. At 15). E che dire del capovolgimento che Gesù porta nell’esercizio del governo? Ai suoi discepoli che gli chiedevano ansiosamente chi fosse tra loro il più grande, il Maestro rispondeva: «Io sono tra voi come un diacono» ( Lc 22,7). Una rinuncia al potere e al dominio di cui solo le donne, a quel tempo, si dimostravano capaci. Basti pensare alla diaconia della suocera di Pietro, di Marta, di Maria di Magdala, Giovanna moglie di Cusa e Susanna (cf. Mc 1,31; Lc 10,40; Lc 8,1-3). 

Nel rapporto tra Paolo e le donne famoso è il verso in cui l’apostolo impone loro il velo durante le assemblee poiché: «né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo. Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli». Peccato che pochi leggano il prosieguo: «Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l'uomo, né l'uomo è senza la donna. Come infatti la donna deriva dall'uomo, così l'uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio» (1Cor 11,9-12). Ma c’è di più. Se Paolo è un teologo Luca è un narratore. Scrive un’opera – Vangelo e Atti degli Apostoli – che si può dire: «un racconto di racconti» (Lidia Maggi) realizzato in forma scenica, con dettagli altamente simbolici. Si chiama tecnica di showing, quella di esprimere un messaggio attraverso fotogrammi e drammatizzazioni. Ed ecco il dispiegarsi della proiezione lucana come una progressiva smaschilizzazione del rapporto religioso: nella prima scena vediamo il Tempio di Gerusalemme e, al suo interno, il sacerdote Zaccaria che officia l’offerta dell’incenso (cf. Lc 1,5-25), nella seconda vediamo la casa di una donna laica e promessa sposa in un paesino delle campagne di Galilea (cf. Lc 1,26-35). 

L’intreccio è questo: se la Giudea aveva una religione sacerdotale interpretata dal maschile – Zaccaria – questa però fallisce perché non riesce a mediare tra il popolo – che aspetta e prega fuori dal Tempio – e Dio, che ivi risiede. Il sacerdote accede e presiede le istituzioni del culto, ha le competenze del mestiere, osserva pedantemente la Legge, ma è solo e non ha la fede! La maschilizzazione della religione del Tempio ha prodotto e difeso un apparato che ha reso muto non solo sé stesso ma anche Dio! Per mancanza di fede e assenza di testimonianza. Quanto rendeva quel sacerdozio sterile e insignificante e lo vedeva ridursi da canale di misericordia a un muro di separazione tra Dio e il suo popolo. Ragione per cui Dio va a cercare la fede a casa di Maria e sulle ali dell’angelo Gabriele esoda dalle aule del Tempio per adombrare l’Altissimo nel suo ventre di terra. Dal Tempio alla casa: da un luogo tutto maschile ad un ambito affatto femminile che sarà sede delle chiese cristiane. 

Alcuni dicono che il vizio di Adamo – del maschile – sia di parlare al posto degli altri, mentre la donna ha il vizio di tacere, di farsi dire. Motivo che ha portato le donne ad essere, nella Chiesa, solo ascoltatrici ed esecutrici della parola dei maschi. Non così nel Vangelo di Luca ma il contrario: mentre Zaccaria esce dal Tempio chiuso nel suo mutismo, Maria scioglie il suo “eccomi” in un Magnificat, un fiume di parole che inonda il mondo per dare voce al grido dei poveri e ricolmare la terra di giustizia, di pace e di speranza. E se Paolo dice alle donne di tacere (1Cor 14,34) lo fa dopo aver detto che, nelle assemblee, profetizzano anch’esse (1Cor 11,5). 

Paolo smaschilizza sé stesso smettendo di andare a prendere dai sacerdoti del Tempio decreti di censura e repressione per chi non osserva la Legge. Quando presenta Giunia – insieme a suo marito Andronico – come «insigni tra gli apostoli che erano in Cristo già prima di me» e Febe come diacona di Cencre, ed Aquila e Priscilla: «miei collaboratori in Cristo Gesù» e Maria, Trifena e Trifosa: «che hanno faticato per il Signore» e Perside: «l’amata»! Tutti anelli preziosi della comunione ecclesiale (cf. Rm 16,1-16). Purtroppo “Giunia” divenne, secoli dopo, “Giunio” perché era inaccettabile che una donna fosse chiamata apostolo, mentre ancor oggi a Febe si riserva il compito di un generico essere: «a servizio». 

L’opera lucana inizia con Zaccaria e finisce con Paolo il quale abbandona il potere del Tempio per farsi diacono in una casa che non è sua (cf. At 28,30). Proprio come le donne che, nel mondo biblico, non ereditando dai loro padri, erano econome, al servizio della casa, mai proprietarie. E non erano neanche proprietarie dei figli ma li mettevano al mondo perché garantissero la discendenza e la memoria del nome dei padri. Così fa Paolo col suo celibato: non genera figli per sé ma si rivolge ai Galati dicendo: «figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (Gal 4,19). L’apostolo considerato a torto misogino non ha proprietà ma vive di gratuità, si pone nelle condizioni materiali e morali in cui vivevano le donne: va ad abitare in un monolocale preso in affitto a Roma e lì condivide una mensa d’accoglienza, di parola e di agape fraterna. Di pane eucaristico. 

Smaschilizzare la Chiesa, oggi, non vuol dire, pertanto, semplicemente dare accesso alle donne, in virtù della loro pari dignità battesimale, ai ruoli istituzionali che restano ancora appannaggio dei maschi ma rispondere all’esigenza di un’autentica testimonianza cristiana. Quella che Luce Irigaray indica come: «una relazione che non è mai propria di qualcuno, non è mai appropriabile da uno solo» (All’inizio Lei era, p.14). Smaschilizzare comporta una conversione, un cambiamento di linguaggio, di stile, di modi e di mentalità, un nuovo volto di Chiesa che oggi appare in tutta la sua urgenza. Per essere non solo credenti ma anche credibili, come diceva il giudice Livatino.


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