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Femminismo e nonviolenza

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Bruna Bianchi, docente di Storia delle donne e del pensiero politico contemporaneo all’Università di Venezia, approfondisce il tema delle donne nelle differenti articolazioni e ripercorre, attraverso i movimenti per la pace e le protagoniste, la storia del pensiero femminile sulla nonviolenza, opposto al pensiero patriarcale.

In una prospettiva femminista la nonviolenza è la combinazione della nostra collera intransigente per la distruttività brutale del patriarcato con il rifiuto di cedere alla disperazione o all’odio o di escludere gli uomini dalle loro responsabilità considerandoli l’“Altro”, come loro hanno fatto con chi temono (McAllister 1982, p. iii). 


Che rapporto c’è tra femminismo e nonviolenza? Quali sono state le interpretazioni femministe delle opere dei “maestri della nonviolenza” e quali le critiche ai movimenti diretti dagli uomini? Con quali argomentazioni le femministe hanno criticato la teoria della guerra giusta? E ancora, perché il pensiero femminista sulla nonviolenza è stato sottovalutato o taciuto? 

Le pagine che seguono ripercorrono a grandi linee solo alcune delle fasi cruciali della riflessione femminista sulla nonviolenza, un patrimonio di idee e di esperienze da cui trarre ispirazione nel nostro presente in cui guerre efferate stanno stroncando centinaia di migliaia di vite umane e distruggendo la natura, in cui la minaccia nucleare non è mai stata tanto reale; il militarismo estende la sua influenza in ogni aspetto della vita e la retorica della guerra giusta è pervasiva e divide profondamente anche il mondo femminista. Il principio dell’uccisione difensiva, infatti, è stato sostenuto dalle femministe ucraine e da coloro che le sostengono, come le stesse femministe russe che, pur essendo state le protagoniste indiscusse della protesta contro la guerra, hanno rivendicato il diritto dell’Ucraina alla difesa armata e nelle loro dichiarazioni hanno screditato il pacifismo come “non consapevole”, “astratto” e “irresponsabile” (1) . 


Dare vita storica al contributo femminista alla nonviolenza 


L’attivismo delle donne nelle proteste nonviolente, così come il loro contributo teorico, sono stati a lungo invisibili. I testi classici su questi temi hanno privilegiato gli attori maschili e le azioni dei leader carismatici trascurando o menzionando di sfuggita il contributo delle donne (2) . Nei movimenti per la pace e la nonviolenza la leadership femminile è stata scoraggiata e le donne, considerate prive dell’esperienza e dell’autorità necessaria per guidare un movimento, hanno dovuto lottare costantemente per ottenere rispetto e riconoscimento. Il noto manifesto del 1968 per l’obiezione alla guerra del Vietnam in cui appariva lo slogan: “Le ragazze dicono sì agli uomini che dicono no” ben esemplifica il clima sessista che regnava in quei movimenti. 

A partire dagli anni Settanta e Ottanta sono state le studiose femministe a portare alla luce episodi di disobbedienza civile e di protesta nonviolenta promossi e guidati dalle donne e a tracciare profili di pensatrici e attiviste. “C’è potere in queste storie e c’è potere nel ricordarle”, ha scritto Pam McAllister, curatrice di due antologie apparse rispettivamente nel 1982 e nel 1988: Reweaving the Web of Life e You Can’t Kill the Spirit. In quest’ultima opera McAllister illustrava 150 casi di azioni nonviolente in cui le donne erano state le protagoniste indiscusse in varie parti del mondo, attiviste “che hanno creato un laboratorio globale in cui la teoria della nonviolenza è stata costantemente messa alla prova e trasformata” (McAllister 1988, p. 11). Tra i testi raccolti alcuni risalivano alle radici di questo laboratorio. 


Radici 


Benché le connessioni tra femminismo e nonviolenza abbiano origini antiche, solo nel XIX secolo si espressero in forme di attivismo sociale. Il movimento abolizionista americano, sorto all’inizio degli anni Trenta, fu uno dei primi movimenti ad adottare tattiche di lotta nonviolenta; le donne, in particolare quacchere, furono le più attive e le più radicali (Ginzburg Migliorino 2002). L’etica universalistica del credo quacchero, fondata sull’idea della sacralità e dell’unità della vita e del valore della nonviolenza, considerava la guerra una sciagura per l’umanità e per la Terra. 

Lucretia Mott (1793-1880), che nel 1833 fondò la Philadelphia Female antislavery Society, la prima organizzazione politica femminile basata sulla connessione tra femminismo, pace e nonviolenza, spinse per l’azione diretta più di ogni altro aderente alle società abolizioniste; le donne bianche, suggeriva, avrebbero dovuto rifiutarsi di pagare le tasse e apparire in pubblico al braccio di una donna nera. Con il loro attivismo le abolizioniste (Lydia Maria Child, Abby Kelley, Elizabeth Cady Stanton) intendevano diffondere la consapevolezza che le strutture oppressive della società erano la causa e la conseguenza dell’esclusione delle donne dalla sfera politica e della loro emarginazione sociale e che schiavitù e condizione femminile erano questioni inseparabili. Una tale impostazione non suscitava unanimi consensi tra gli abolizionisti. Il mancato riconoscimento della violenza strutturale e sociale che colpiva le donne fu la motivazione principale che condusse alla scissione del movimento nel 1840 e avrebbe rappresentato a lungo un ostacolo alla partecipazione femminile nei movimenti per la pace e la nonviolenza. 

Negli stessi anni anche in Europa suffragio, impegno per le riforme sociali, pace e rispetto della natura si intrecciarono nella riflessione e nell’attivismo femminista. Fu Frederika Bremer (1801-1865), la “Jane Austen di Svezia”, a coniugare nella sua visione femminismo, pacifismo, rispetto per tutte le forme di vita e a mettere in discussione le strutture patriarcali della società e del cristianesimo. Nel 1854, nel corso della guerra di Crimea, Bremer pubblicò un progetto di associazione internazionale delle donne per la pace (Appeal to the Women of the World to Form a Peace Alliance), un appello rivolto alle donne cristiane affinché formassero un’organizzazione mondiale e si prendessero cura della Terra, circondandola di energie guaritrici, ”abbracciandola come se fosse un bambino” (Bremer 1915), parole che ancora negli anni Ottanta e Novanta del Novecento sarebbero risuonate nei titoli delle antologie ecofemministe: Reweaving the Web of Life, Reclaim the Earth, Healing the Wounds, Reweaving the World. 

A lungo ignorato, lo scritto di Bremer fu ripubblicato nell’imminenza del Congresso internazionale per la pace delle donne all’Aia nella primavera del 1915, l’evento di maggior rilievo del pacifismo a livello internazionale durante la Grande guerra. Organizzato da Jane Addams (1869-1935), femminista, pacifista, fondatrice del più importante social settlement (3)  d’America (Hull House, Chicago) e premio Nobel per la pace nel 1931, il convegno gettò le basi della prima organizzazione internazionale pacifista femminile, la Women International League for Peace and Freedom (WILPF) il cui principio fondamentale era l’opposizione a tutte le guerre, offensive e difensive, il disarmo e il nesso tra nonviolenza, pace, femminismo e giustizia sociale. Le 1136 donne di 22 paesi che si riunirono all’Aia in piena guerra affermarono che i valori della cura, della conciliazione e l’impulso a conservare la vita, che nelle donne era più vivo rispetto agli uomini, avrebbero dovuto riversarsi nel mondo devastato e creare nuove forme di convivenza. 


Jane Addams lettrice di Tolstoj e Gandhi 


Guida spirituale della WILPF, Jane Addams era stata profondamente influenzata dal pensiero di Tolstoj e in seguito da quello di Gandhi. Con lo scrittore russo si incontrò nel 1896 a Jasnaja Poljana e con Gandhi ebbe un breve scambio epistolare. Ai due “maestri della nonviolenza” nel 1931 dedicò lo scritto Tolstoj and Gandhi in cui metteva in rilievo le affinità del loro pensiero. La sua profonda ammirazione per i due “maestri della nonviolenza”, da cui trasse la propria fiducia nella nonresistenza, tuttavia, non fece di lei una loro discepola; la sua visione della nonresistenza, si ispirava al femminismo e al lavoro sociale praticato al settlement ed era più flessibile, era un atteggiamento mentale, non una norma. 

Nel pacifismo e nel principio della nonviolenza così come erano stati espressi dallo scrittore russo vedeva la persistenza di ideali statici, basati su un credo e su appelli al dogma. All’ingiunzione a cessare di compiere il male, opponeva la necessità di ideali “più aggressivi”; “al consiglio della perfezione” opponeva l’idea di un continuo “aggiustamento” di ideali e di prassi fondati sull’esperienza. Democrazia, pace e nonviolenza dovevano diventare un modo di vita, risultato del “dispiegamento di quei processi vitali che conducono allo sviluppo collettivo” e che era ben riconoscibile nella esperienza dei settlement che avevano ricevuto un forte impulso dall’azione femminile. Dopo la tragedia della guerra e la diffusione del militarismo e del nazionalismo si rafforzò in Jane Addams la convinzione che le strutture oppressive potessero essere smantellate solo dal basso, dalle donne, dalle persone semplici che dedicavano la vita a soddisfare i bisogni quotidiani, al “lavoro del pane”, il fondamento dell’esistenza, la vera antitesi della guerra e della violenza. Solo la paziente composizione dei punti di vista avrebbe potuto abbattere i rapporti di dominio, solo la cooperazione avrebbe potuto sradicare i conflitti (Bianchi 2023). 

Jane Addams seguì sempre con attenzione gli esperimenti di Gandhi, ma non mancavano le dissonanze tra le loro visioni e metodi. Addams interpretò il concetto di satyagraha in termini di “energia morale”, una definizione che enfatizzava la trasformazione sociale attraverso la cooperazione, la condivisione, l’intreccio delle relazioni sulla base della comprensione empatica, non già la sofferenza volontaria (Agnew 2020). Il processo morale prefigurato da Jane Addams mal si conciliava con la retorica gandhiana del “soldato di pace”, del sacrificio, della sfida della morte, delle “nobili qualità del soldato”. Quella retorica, che suonava troppo simile a quella che aveva mandato milioni di uomini alla morte in guerra, doveva essere superata e la sofferenza non poteva essere un processo di redenzione. 


“Siamo tutti e tutte parte l’uno dell’altra” 


Nel 1926 Jane Addams aveva auspicato, riferendosi a Gandhi, che “quel grande maestro che più di ogni altro uomo vivente si [era] risolutamente votato alla tipica avventura cristiana non ancora esplorata della nonresistenza” (Fisher 2003, p. 265), potesse davvero realizzarla. 

Negli Stati Uniti la nonviolenza iniziò a essere praticata su vasta scala tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta come metodo per abolire la segregazione. Nel movimento per i diritti civili, a cui si sarebbero ispirati anche i movimenti femminili, come Women Strike for Peace nato nel 1961 contro le sperimentazioni nucleari, l’attivismo femminile ebbe un ruolo centrale nel pianificare le strategie, coordinare le tattiche e le azioni del movimento, ma rimase in gran parte invisibile. Ne è un esempio la grande marcia di Washington del 28 agosto 1963 quando le attiviste furono messe ai margini dell’organizzazione. 

Qualche mese prima era stata incarcerata a Birmingham Barbara Deming (1917-1984) per aver partecipato a una manifestazione per i diritti civili. Poetessa, scrittrice e attivista contro la segregazione e contro il nucleare, influenzata da Gandhi a partire dal suo viaggio in India nel 1959, negli anni Sessanta e Settanta Deming offrì un quadro teorico e un modello per i movimenti femministi che si andavano sviluppando in varie parti del mondo. 

Nello scritto del 1977 Remembering Who We Are, risalendo all’origine del patriarcato, Deming affermò che il genere è l’opposizione originaria; la costruzione dell’”Altro” è stata la fonte e il modello di tutte le forme di violenza. 

Per eliminare la violenza tra gli esseri umani e contro la natura occorreva sfidare la menzogna fondamentale del patriarcato, ovvero che le donne e gli uomini sono diversi per natura, che le donne non appartengono a sé stesse, ma agli uomini. Se il movimento pacifista non avesse maturato la consapevolezza della connessione tra tutte le oppressioni e non avesse rinunciato alla gerarchia degli obiettivi, avrebbe conservato una incongruenza di fondo e la sua azione sarebbe stata inefficace. 

A parere di Deming, la strategia nonviolenta femminista è rivoluzionaria, coraggiosa, inflessibile, anti-patriarcale; essa fa ricorso alla forza morale, sfida la struttura del potere, ma rifiuta il concetto e il termine di nemico. È una forza che si basa sul potere della verità, una pressione che costringe l’avversario a fare i conti con la propria coscienza; essa va oltre l’appello morale e le petizioni; al potere non fa richieste, ma dice: “accetta questa situazione che noi abbiamo creato”. A questa forma di pressione se ne accompagna un’altra, ovvero la rassicurazione dell’avversario attraverso il riconoscimento della comune umanità, della comune capacità di pensiero, azione e cambiamento. La nonviolenza femminista quindi è un equilibrio tra autoaffermazione e rispetto degli altri. 

L’opposizione nonviolenta, inoltre, è l’unica che consente di affrontare la complessità del reale e di liberarsi dalle distinzioni nette che fanno parte delle illusioni su cui si fonda il patriarcato. Impossibile, ad esempio, tracciare una linea netta tra oppressi e oppressori; anche gli oppressi sono molto spesso a loro volta oppressori. Riconoscere questa complessità rende impossibile rispondere alla violenza con la ritorsione o all’aggressione con l’uccisione difensiva. Non si trattava di passività, tutt’altro: 


[...] io direi che può essere molto più passiva, molto più disperata l’azione che risponde con le stesse modalità e accetta la visione del nostro oppressore, ovvero che non c’è nulla che ci impedisca di cercare di distruggerci l’un l’altro (Deming 1984, p. 289). 


Rispetto dell’avversario e nello stesso tempo inflessibilità, affermazione del proprio potere furono i principi che animarono i movimenti femminili che si sarebbero sviluppati di lì a poco. 


La nonviolenza è celebrazione della vita. I campi delle donne per la pace 


Negli anni Settanta emerse un movimento transnazionale femminista che elaborò in modo nuovo i valori della nonviolenza, del femminismo e dell’ecologia. In Francia, le donne riunite al Centro di incontro del movimento nonviolento Les Circauds, presso Lione, organizzarono convegni e seminari a livello internazionale e pubblicarono i risultati della loro elaborazione collettiva sul rapporto tra femminismo e nonviolenza nell’opuscolo Piecing it Together: Feminism and Nonviolence. Entrambe le correnti di pensiero, sostennero, erano strutturate attorno al concetto e alla logica del dominio e su questo punto potevano incontrarsi. 

In quegli anni in molte parti del mondo, in Giappone, in Australia, in Germania, si moltiplicarono le proteste contro il nucleare in cui le donne furono le protagoniste indiscusse. Fu Petra Kelly, pacifista influenzata da Gandhi, Martin Luther King e Rosa Luxemburg, a fare opera di collegamento tra questi movimenti e a darne risonanza a livello internazionale (4) . 

Nel 1980 e nel 1981 negli Stati Uniti le donne circondarono il Pentagono, “il luogo del potere imperialista che ci minaccia tutti-e”, e nella Dichiarazione collettiva analizzarono da un punto di vista femminista le relazioni tra ecologia, patriarcato, militarismo e razzismo. 

In Gran Bretagna nel settembre 1981 un gruppo di attiviste si accampò di fronte alla base militare di Greenham Common per impedire l’arrivo dei missili Pershing II; negli anni successivi in quel luogo si sarebbero avvicendate decine di migliaia di donne. 

Ricordando l’esperienza di Greenham, un modello per altri numerosi campi, Gwyn Kyrk, attivista e studiosa ecofemminista, ha scritto: “La nonviolenza femminista è forte, divertente e conferisce potere”; è una celebrazione della vita attraverso la creatività. Essa si articola in sei principi: l’assertività, la gioia, la franchezza, il sostegno e la preparazione, la flessibilità delle tattiche e la resistenza. Lo stato d’animo delle donne di Greenham, come quelle di altri campi, è stato ben espresso dalle parole di Petra Kelly: “Se non facciamo l’impossibile, dovremo affrontare l’impensabile”. 

Era importante, continua Kirk, che ogni donna sentisse che quello che stava facendo era giusto per lei, non perché qualcuno aveva stabilito che era la cosa giusta da fare, come accadeva nei movimenti guidati dagli uomini. 

La capacità di vivere per anni all’esterno della base, impedendo che i missili vi fossero introdotti di nascosto, ha colpito al cuore il principio alla base del militarismo, il segreto, all’ombra del quale si commette l’opera di distruzione; le attiviste hanno portato questo processo di morte e distruttività al centro dell’attenzione pubblica e hanno affermato i valori della vita. Esse hanno lasciato la loro vita normale, hanno vissuto in tende, hanno dormito sulla nuda terra, ma l’enfasi non fu mai sul sacrificio di sé, bensì sul riconnettere i legami con la vita. “Ritessere la ragnatela della vita”, riparare, rigenerare, guarire sono le frasi e termini che ricorrono nelle canzoni, nelle poesie, negli opuscoli, nei titoli delle antologie prodotte in quegli anni (Kyrk 1989, pp. 115-132). Le attiviste di Greenham volevano andare oltre la resistenza, trasformare la collera in energia per l’azione, una creatività rigeneratrice non basata sull’odio, ma sull’amore e riaffermare con forza il diritto di tutte le creature alla vita. E hanno vinto. Il campo fu definitivamente chiuso nel 2000 e ora Greenham Common è una zona di rifugio per la fauna selvatica. 


Il rifiuto dell’uccisione difensiva 


Il principio della nonviolenza, fondato sull’impossibilità di fare una distinzione di valore tra tutte le forme di vita, non può consentire eccezioni. Ha scritto recentemente la femminista americana Judith Butler in la forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico: 


Se ammettiamo un’eccezione al principio della nonviolenza, significa che ci sentiamo pronti a combattere e a infliggere un danno ad altri, forse anche a ucciderli, e siamo in grado di supportare tutto ciò con argomentazioni morali. Secondo questa logica si compie un’operazione in nome dell’autodifesa, o della difesa di coloro che appartengono al più ampio regime del sé - coloro con cui è possibile identificarsi (Butler 2020, p. 81). 


La violenza, infatti, sostiene Butler, si riproduce sotto forma di logica difensiva “intrisa di paranoia e di odio” (ivi, p. 41). Molte altre autrici hanno criticato la teoria della guerra giusta in cui l’uccisione difensiva è presentata come un atto morale che produce giustizia; chi non la esercita perde la sua dignità umana (Poe 2008; Chae 2018). Tuttavia, ha ricordato Elaine Scarry, in La sofferenza del corpo, il dolore, la morte, le ferite, la distruzione di tutto ciò che sostiene la vita - l’unica vera essenza della guerra e l’unico obiettivo di tutta l’attività militare - non potranno mai trasformarsi in democrazia, libertà o giustizia. La loro realtà incontestabile non può essere trasferita ad alcuna ideologia o astrazione. Solo ciò che è intrinseco alla guerra ne può determinare gli esiti e le conseguenze sul piano sociale, umano e politico. Non libertà, bensì dispotismo; non democrazia, bensì rafforzamento del militarismo; non pacificazione, bensì incremento della violenza nei rapporti sociali, di genere e di classe e contro la natura. La forza della nonviolenza è l’unica via per arrestare queste illusioni e menzogne che hanno origine nel pensiero patriarcale. 


Bruna Bianchi 


Note 


1) Si vedano il manifesto Femministe russe contro la guerra nei primissimi giorni del conflitto: https://jacobinitalia.it/contro-laggressione-militare-di-putin/ e soprattutto l’aggiunta programmatica al manifesto del 24 agosto 2022: https://teletype.in/@femantiwarresistance/manifesto_addition in cui si risponde ad un manifesto delle femministe europee e delle Americhe del 17 marzo 2022 contro la spirale della violenza e l’invio di armi. 

Per quanto riguarda le femministe ucraine si veda il manifesto Il diritto di resistere: https://ytali.com/2022/07/08/il-diritto-a-resistereil-manifesto-delle-femministe-ucraine/


2) Valga per tutti l’esempio dell’opera del 1973 di Gene Sharp, a tutt’oggi punto di riferimento degli studi, Politics of Nonviolent Action. Tra le 196 tattiche e i relativi casi documentati l’azione delle donne è sottorappresentata. Significativi i casi delle petizioni di gruppo, di rifiuto di pagare le tasse, dei raduni di protesta, tattiche tradizionalmente praticate dalle donne, in cui non è menzionata alcuna azione da loro promossa (Sharp 1986, pp. 21-22; 62-64; 123-126). 


3) Uno spazio interculturale e un centro di ricerca e di riforma sociale. 


4) Su questa importante ecopacifista femminista rimando a un recente saggio (Alfonsi 2021). 


Bibliografia 


Agnew Elizabeth, Jane Addams, Mohandas Gandhi, and the Promise of Soul Force, in “Peace & Change”, Vol. 45, n. 4, 2020, pp. 481-512. 

Alfonsi Silvia, Petra Kelly. Vivere e pensare oltre i confini, in Bruna Bianchi-Francesca Casafina (a cura di), Oltre i confini. Ecologia e pacifismo nella riflessione e nell’attivismo femminista, Milano 2021, pp. 187-218. 

Bianchi Bruna, Jane Addams lettrice di Tolstoj, in Eadem, “non resistere al male con il male” Obiezione di coscienza e pacifismo nel pensiero di Tolstoj, Milano 2023, pp. 129-152. 

Bremer Frederika, Frederika Bremer’s Appeal to the Women of the World to Form a Peace Alliance, Reprinted and Issued by the Swedish national Council of Women, Stockholm 1915. 

Butler Judith, La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico, Milano 2020. 

Chae Lee-Ann, Pacifisc Resistance: A Moral Alternative to Defensive War, in “Social Theory and Practice”, vol. 44, n. 1, 2018, pp. 1-20. 

Deming Barbara, We Are All Part of One Another. A Barbara Deming Reader, edited by Jane Meyerding, Philadelphia 1984. 

Fisher Marilyn, Addams Essays and Speeches on Peace, Bristol 2003. 

Ginzburg Migliorino Ellen, Donne contro la schiavitù. Le abilizioniste americane prima della guerra civile, Manduria - Bari - Roma 2002. 

Kirk Gwyn, Our Greenham Common: Feminism and Nonviolence, in Adrienne Harris and Ynestra King (eds.), Rocking the Ship of State. Toward a Feminist Peace Politics, Boulder-San Francisco - London 1989. 

McAllister Pam, Reweaving the Web of Life. Feminism and Nonviolence, Philadelphia 1982. 

McAllister Pam, You Can’t Kill the Spirit, Philadelphia 1988. 

Piecing it Together: Feminism and Nonviolence, 1983, 

https://wri-irg.org/en/story/2010/piecingit-together-feminism-and-nonviolence

Poe Danielle, Replacing Just War Theory with an Ethics of Sexual Difference. “Hypatia”, vol. 23, n. 2, 2008, pp. 33-47. 

Scarry Elaine, La sofferenza del corpo. La distruzione e la creazione del mondo (1985), Bologna 1990. 

Sharp Gene, Politica dell’azione nonviolenta. Le tecniche (1973), Torino 1986.



Esodo n° 1 gennaio-marzo 2024

La nonviolenza attiva la pace

contributi di

Alioti, Barbirotti, Bettera, Bianchi, Canciani, Casanova, Cavallari, Coppola, Maggi, Marcon, Munaro, Oriato, Pace, Paronetto, Peyretti, Sclavi, Valpiana, Venturelli, Vito.





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