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Roberto Repole "Di quali preti c’è bisogno? Da dove nasce il cambiamento?"

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È onestamente difficile dire di quali preti ci sia bisogno oggi.
Ancor più complesso è vedere con lucidità da dove possa nascere il cambiamento. Un po’ perché la complessità della situazione attuale non può essere approcciata con formule pseudo-risolutorie: è vero, infatti, che è comune a tutte le stagioni usare il linguaggio della crisi, ma non è meno vero che ci troviamo davvero in un «cambiamento d’epoca» che investe la chiesa e chi, al suo interno, esercita il ministero presbiterale. E un po’ perché, quando si parla di preti ci si riferisce sempre a persone uniche e irripetibili, con le loro storie, le loro vulnerabilità, le loro aspettative, le loro risorse. e ferire la singolarità di ogni prete.
Ciò che mi prefiggo di fare, perciò, in questo testo non è di dare una risposta puntuale alle domande suddette. Interpretandole più come uno “stimolo a pensare”, cercherò piuttosto di offrire qualche elemento di riflessione in ordine al cambiamento in atto che sta coinvolgendo la vita e il ministero dei preti e segnalare qualche prospettiva che potrebbe orientare il cambiamento di cui c’è bisogno affinché i preti possano vivere con rinnovata passione la loro vocazione.
Senza nessuna pretesa di esaustività, ovviamente.

1. Dentro la transizione

In primo luogo, mi pare necessario riconoscere con serietà e onestà il fatto che si è esaurito o si sta velocemente esaurendo il regime di cristianità. Ovviamente non si intende qui quella generica incarnazione del cristianesimo nel tempo (cosa dalla quale la chiesa non potrà mai esimersi). Ci si riferisce piuttosto a quello specifico modo di esistere della chiesa nella storia per cui l’appartenenza alla società civile e quella alla comunità dei credenti in Cristo finivano per coincidere.
Ciò ha riguardato anche i preti, implicando un modo specifico di essere presbiteri, che si potrebbe sintetizzare nei termini seguenti: si aveva a che fare con un numero elevato di presbiteri; essi avevano un rapporto diretto, immediato con le persone della comunità che veniva loro affidata, la quale era numericamente compatibile con un ministero di questo genere; il prete appariva come l’unico ad avere la responsabilità e, dunque, anche un potere – nel senso migliore del termine - rispetto alla comunità edere con lucidità tutto questo è di grande aiuto a prendere coscienza di un fenomeno serio che riguarda oggi i preti. Lo si potrebbe sintetizzare così: il modello della cristianità, che implicava un modo di essere preti contrassegnato dagli aspetti evidenziati, si è ormai esaurito ma, di fatto, la struttura ecclesiale non si è riformata sulla base di un modello nuovo. I preti si trovano, di conseguenza, troppo spesso “incastonati dentro” e chiamati addirittura a sostenere un modello ecclesiale che appare ormai più legato a un passato che non foriero di un futuro. Ne sono la prova la stanchezza che molti di essi avvertono rispetto alla cura amministrativa di strutture oggi esorbitanti e obsolete, così come la fuga sempre più frequente dal ministero del parroco. Tali fatti sono da leggersi come epifenomeni di questa discrasia sempre più evidente tra il modello di comunità cristiana che si tratta di mantenere e la novità del tempo presente.
Evidentemente ci sono anche altri livelli di lettura di fatti come quelli menzionati; ciò non toglie, tuttavia, che questa rimane una lettura possibile, che aiuta a cogliere qualcosa di reale. Fa pensare, a tal proposito, il grande successo riscosso dal libro del prete di Münster Thomas Frings, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché: un successo che ha travalicato i confini della Germania e ha coinvolto anche l’Italia (1).
Il riferimento a questo testo induce a rimarcare un secondo motivo di “crisi” e, dunque, di passaggio che i preti di oggi si trovano ad affrontare, strettamente connesso con quanto già messo in rilievo.
Nel contesto della cristianità il ministero del presbitero consisteva fondamentalmente nel mantenere e prendersi cura di comunità che erano, per così dire, “naturalmente” cristiane. Ciò comportava evidentemente che l’aspetto sacerdotale/sacramentale finiva con ’essere preponderante; che la dimensione della presidenza della comunità avveniva nel contesto di comunità fondamentalmente omologhe e poco complesse; che l’annuncio della Parola poteva ridursi alla catechesi di persone per le quali l’accesso alla fede non era di fatto compito del prete. Oggi si mantiene sostanzialmente lo stesso schema, ma in un contesto in cui si è interrotta la trasmissione della fede all’interno del più ampio contesto sociale. Ciò comporta, però, motivi di confusione piuttosto seri per i preti. Si pensi al fatto di dover celebrare spesso i sacramenti della fede per persone che non sono di fatto credenti e a volte neppure interessate o che mancano, in ogni caso, della grammatica per partecipare attivamente a quel che si celebra, creando nei preti spesso un profondo senso di solitudine ed estraneità; o al fatto di mancare del tutto di una preparazione
adeguata per annunciare il Vangelo ex novo a chi cristiano non è oppure lo è essendosi di fatto allontanato dalla comunità cristiana; per non parlare di quel disagio provocato dal presiedere comunità cristiane che, a loro volta, sono incapaci di un “primo annuncio” e dove, soprattutto, non se ne avverte neppure l’esigenza in nome del mantenimento di quel che “si è sempre fatto”.
Un ulteriore fenomeno con il quale occorre confrontarsi è dato dalla perdita di considerazione sociale da parte dei preti. Si sa molto bene come dietro la fine della cristianità, a cui si è accennato, ci sia infatti il processo di secolarizzazione che, nella sua sostanza, non mi pare messo in discussione neppure da quanti preferiscono oggi usare il linguaggio della post-secolarità (2). Chi conosce il tema è avvertito del fatto che esistono ovviamente diverse interpretazioni della secolarizzazione. Due di esse – non incompatibili fra loro – possono a cui vanno oggi incontro i preti.
Da un lato, quell’interpretazione della secolarizzazione che la legge in termini di differenziazione sociale. In questa prospettiva si può rimarcare come la dimensione religiosa che, in un mondo non secolarizzato, rappresentava il fattore unico di socializzazione finisca con l’essere invece solo uno degli ambiti nei quali si può strutturare la società: il che lascia il passo a un’autonomia delle diverse sfere, quali la scienza, l’arte, gli affetti, la politica, l’economia (3)… giungendo addirittura a un’indipendenza di tali sfere, che oggi può sfociare in un vero e proprio monopolio di una sfera; quanto sta avvenendo con l’economicismo imperante è a tal proposito emblematico.
Dall’altro lato vi è la lettura di chi interpreta il passaggio dalla società non secolarizzata a quella secolarizzata all’insegna del transito da una società eteronoma a un’autonoma, il cui sviluppo ultimo sarebbe rinvenibile nelle moderne democrazie occidentali (4). Marcel Gauchet mette in luce, a tal proposito, un paradosso piuttosto interessante, che ha anche un effetto sul modo in cui alcuni preti interpretano la loro missione e il loro “ruolo sociale”. Si tratta del fatto che le moderne democrazie esistono sulla base del superamento di qualunque riferimento valoriale trascendente ma, in mancanza di tale riferimento, sembrano implodere e appaiono sempre più compromesse.
In che termini tutto questo influisce sulla vita e l’identità del prete? Si potrebbe rispondere dicendo che, mentre in un tempo non secolarizzato egli svolgeva un compito che aveva un chiaro e anche un forte riconoscimento sociale e pubblico (di fatto il prete rappresentava un’autorità anche nei confronti della società civile), oggi un tale riconoscimento è sempre minore (fino quasi a scomparire) e sempre più circoscritto. A motivo di quella perdita di valori delle democrazie moderne che potrebbe portarle al collasso, può ancora accadere che il prete venga preso o coinvolto quale punto di riferimento in alcune battaglie politiche in cui si “usa” della religione e specificamente del cristianesimo: con il rischio che ciò che egli è e rappresenta venga però profondamente travisato.
In ogni caso, questi episodi sporadici non arginano di certo la sostanziale irrilevanza pubblica della chiesa. E si deve probabilmente anche ad essa e alla conseguente irrilevanza sociale della figura dei presbiteri il fatto che sempre più preti giovani siano attratti (al di là della teologia su cui si sono formati!) da modelli neo-tradizionalisti.
È del tutto evidente che non saranno tali modelli a rappresentare quel cambiamento di cui c’è bisogno e a cui allude il titolo di questo scritto. Altrettanto palese è la possibilità che essi si impongano per ragioni extra-teologiche. Rimane in ogni caso il fatto che essi rappresentano un grido, che dice la necessità di ritrovare dentro un mutato contesto sociale un modo nuovo di esistere e di avere una propria identità. Non è certo facendo ricorso a facili moralismi o a letture che risentono ancora della vicenda ecclesiale immediatamente post-conciliare – quando si parlava già di fine della cristianità e di secolarizzazione, ma si era ancora forte maggioranza e i preti venivano ancora riconosciuti socialmente – che si potrà accogliere e discernere tale “grido”.
Al fine di individuare bene il cambiamento in atto, mi pare infine indispensabile segnalare un ulteriore elemento. I preti abitano oggi un tempo che potremmo definire di “trapasso”. Essi sono ministri all’interno di una chiesa che porta ancora l’eredità della cristianità che fu, mentre non è ancora chiara, collaudata e spesso neppure pensata una nuova forma ecclesiale. Un luogo emblematico in cui è sperimentabile da parte loro l’effetto di una tale tensione è dato dalla preparazione e dalla celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. Lì i preti vivono troppo spesso un profondo disagio dato dal trovarsi davvero in mezzo al guado: molti chiedono ancora dei sacramenti a motivo della cristianità che fu, ma a tale richiesta non corrisponde poi nulla dell’appartenenza ecclesiale e cristiana che si viveva in quell’orizzonte. Questo genera una forte frustrazione in diversi preti, la cui pastorale, peraltro, si riduce spesso al solo mantenimento dello status quo. Anche a tal proposito va ammesso che ci troviamo in un profondo cambiamento d’epoca. Occorre, però, aggiungere onestamente che i preti si trovano di fatto costretti a portare il peso dell’eredità dell’epoca che è stata, pur sapendo che la forma di cristianesimo e di chiesa soggiacente a quell’eredità non dice più molto al presente e al futuro.
Non solo. Troppo spesso le stesse comunità cristiane sono restie a ogni cambiamento di forma della presenza di chiesa, volte a mantenere quel che si è sperimentato e quanto “si è sempre fatto”, anche laddove ci sono preti che con generosità si rendono disponibili a nuovi modi di essere comunità cristiana e di vivere il ministero.
Facendo in tal caso ricorso alla responsabilità pastorale che mi è dato di vivere in questi anni, devo ammettere che questo aspetto è tutt’altro che banale: c’è una certa fatica dei preti e delle comunità a immaginare modi nuovi di essere chiesa e di esercitare il ministero presbiterale. Una fatica del tutto comprensibile, dal momento che non è così immediato immaginare qualcosa che non è visibile in modelli già attuati e praticati, almeno in Chiese vicine.

2. Per orientare il cambiamento

Quali passi muovere in una situazione come questa? A quale modo di esercitare il ministero presbiterale riferirsi pensando al presente e al futuro? Chi potrà realisticamente essere il prete di domani?
Mi è evidentemente impossibile rispondere compiutamente a tali questioni. Posso provare a offrire, molto più modestamente, qualche traccia per orientarsi, qualche elemento che possa indicare come i preti possano svolgere il loro servizio con passione, senza perderne il gusto e lo slancio.
Assumendo, anzitutto, con serietà il fatto che molti aspetti del cambiamento in atto, che coinvolge la vita e il ministero dei preti, sono da ricondursi alla fine della cristianità e alla secolarizzazione incalzante, mi pare impellente che ci si orienti alla cura della fede dei preti: come dimensione che non può essere più data per scontata neppure da loro, come realtà in cui si permane a misura che ci si sente ancora in cammino, come “visione della realtà” e modo di “attraversare la vita” non più universalmente condivisa e che si deve essere attrezzati a vivere, perciò, in una solitudine sempre più evidente e in una condizione di maggiore irrilevanza sociale.
L’assunzione di un tale compito comporta alcune conseguenze, cui occorre prestare attenzione. È sempre più urgente una rivisitazione decisa di tutto il percorso formativo. Si potrebbe dire che esso è reale e riuscito se permette ai candidati al presbiterato di interiorizzare che la formazione non può essere circoscritta agli anni del seminario o, al massimo, ai primi anni di ministero. O si continua a formarsi – sul piano teologico, su quello dell’attenzione e rielaborazione dei propri vissuti personali, sul piano della qualità delle relazioni umane, su quello della vita di preghiera e spirituale… – o è illusorio immaginare di restare autenticamente credenti in un mondo come il nostro. Questo si sposa con una più serena e reale pacificazione con il fatto che il modello di comunità che presupponeva che tutti si era normalmente cristiani non esiste più e non è attualmente riproducibile. Ciò non toglie, però, che vi sia la possibilità e anche la necessità di ricercare dove, aldilà del territorio, si dia una comunità di credenti con i quali i preti possano condividere realmente ed esistenzialmente la fede. 
Mettendosi nella prospettiva di propiziare un cambiamento, un secondo aspetto potrebbe essere offerto da una chiarificazione sempre più netta, sul piano teologico come su quello pratico, della limitazione del ministero e dunque del potere e della responsabilità del prete alla garanzia del fatto che la comunità cristiana rimanga ancorata alla radice apostolica. È per questo che è indispensabile e non è rimpiazzabile da alcun altro ministero il suo servizio per l’esistenza di una comunità cristiana. Riconoscerlo e chiarificarlo al meglio è però di aiuto a cogliere che la responsabilità e il potere del prete non sono ad omnia. Molte delle difficoltà prodotte dall’attuale figura del presbitero sono infatti dovute all’idea, più o meno implicita, che a lui compete tutto ed egli ha potere su tutto. Ma ciò alla fine si rivela paralizzante e frustrante per chiunque. 
Tutto ciò si accompagna alla possibilità di dare vita, con un reale processo di istituzionalizzazione, a nuovi ministeri insieme ai quali il prete può prendersi cura della comunità cristiana. Ciò potrebbe permettere di chiarificare sempre meglio, nella pratica, quale sia il ministero del prete e quali siano altri servizi che, nella storia, si sono invece concentrati nel suo. Infatti, ritengo che quanto più si allarga una ministerialità reale e riconosciuta, tanto più sarà evidente che quello del prete non è l’unico ministero; e questo non può che fare del bene per dei preti che possono soccombere rispetto alla prospettiva che il loro servizio sia tendenzialmente infinito. 
La formalizzazione di altri ministeri potrebbe inoltre aiutare a realizzare una ministerialità partecipata nelle comunità, senza nulla togliere al ruolo di presidenza che è richiesto al prete. Questo, se richiede evidentemente dei profondi cambiamenti da parte del prete come dei cristiani laici e dei consacrati, potrebbe fare in modo che il prete non si senta sempre solo ed isolato nel servizio della Chiesa. Inoltre, l’assunzione di un tale indirizzo potrebbe ridare ai preti il gusto di presiedere una comunità aperta ed estroversa, specie laddove si riuscisse a formalizzare dei ministeri volti alla presenza della Chiesa nel mondo e alla trasfigurazione evangelica del mondo. Se poi si riuscisse – ragionando de jure condendo – a pervenire a qualche novità in ordine alla responsabilità delle strutture, perché non siano connesse come lo sono ora al ministero del prete, ciò potrebbe risultare ulteriormente liberante per molti presbiteri. 
Un ulteriore elemento prospettico potrebbe essere reperito nelle potenzialità che riveste il ministero del diacono permanente, se sensatamente ed avvertitamente rivisitato. Laddove tale ministero è stato ripristinato ha finito spesso, per una serie di motivi, di essere letto in chiave quasi esclusivamente liturgica, dando vita ad una figura che seve più a mantenere lo status quo pastorale che non ad un rinnovamento della vita delle comunità cristiane e dei preti stessi. Opportunamente incentivato, esso potrebbe invece divenire un ministero normale in qualunque reale comunità cristiana, assumendo compiti che finora sono stati appannaggio dei preti. Va accolta con intelligenza, a tal proposito, la lucidità con cui molti decenni fa Karl Rahner, in una Chiesa come quella tedesca che sperimentava in anticipo ciò che in Italia si è realizzato dopo, immaginava tale ministero. Il noto teologo tedesco diceva che la comunità parrocchiale si era costituita sulla base di comunità civili; ma queste ultime si stavano sfaldando, minacciando la vita delle stesse comunità cristiane. Rahner vedeva perciò nel diaconato quel ministero che poteva servire a tessere le relazioni perché si costituisse una comunità umana capace di diventare comunità cristiana. Se ci si orientasse in questa direzione, almeno là dove la cosa risulta praticabile, è molto probabile che ciò potrebbe aiutare a ripensare la vita delle comunità cristiane e la vita e il servizio del prete: la sua stanchezza e inadeguatezza sono infatti spesso dovute anche al fatto che si concentra nel suo ministero un grande lavoro di tessitura di relazioni, in una società peraltro sempre più dominata dal narcisismo. Il suo concreto servizio così come la sua vita potrebbero cambiare in meglio se il prete potesse contare sul fatto che, in un modo strutturale, tale compito decisivo è svolto da un’altra figura di ministro ordinato. 
Si può infine fare un cenno ad un’ultima prospettiva di cambiamento. Essa è rintracciabile nel potenziamento autentico della realtà del presbiterio presieduto dal vescovo, in forza del quale si può anzitutto ritenere che tutto ciò che deriva dal sacramento non vada ricercato nel singolo prete – cosa che non permette di differenziare il ministero dei preti e che condanna tutti all’inadeguatezza – ma nel presbiterio. La prospettiva del presbiterio potrebbe altresì rappresentare una risorsa per orientarsi a realizzare una corresponsabilità, quanto al ministero, delle scelte di fondo di una Chiesa: una potenzialità non trascurabile nel momento in cui le Chiese si trovano a operare in situazioni complesse e alle prese con questioni complicate, che richiedono il carisma di molti. Mettendosi nell’orizzonte di un soggetto collettivo come il presbiterio, si potrebbe far sì che la complessità di tali questioni non sia negata, in ragione del fatto che un vescovo si sente solo e impotente rispetto ad esse; ma non sia nemmeno percepita come qualcosa che interferisce in maniera diretta nella vita del prete, senza che questi si senta parte di un soggetto che affronta le questioni e di un processo di discernimento in cui ci si può avvalere dell’intelligenza e della fede di molti. 

Ciò che si è esposto, in un modo per di più sommario, non è che la proposta di alcuni cambiamenti possibili e, di per sé, in gran parte praticabili. Perché diventino percorsi concreti richiedono ovviamente la volontà e il coraggio di chi è chiamato a dare l’avvio a dei processi di cambiamento, oltre che la volontà di rimettersi in gioco da parte delle comunità cristiane e dei preti. Tra le une come tra gli altri ci sono di fatto molte persone avanti negli anni, per le quali non è facile né immediato mutare. 
Vedere questo e avere la pazienza che fa accogliere le lentezze rimane un modo con cui trattarsi con carità, senza la quale qualunque cambiamento – anche intelligente – sarebbe solo funzionalistico.



1 Cf. T. Frings, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché, Ancora, Milano 2018.
2 Su questi aspetti mi permetto di rimandare allo studio offerto nella prima parte di R. Repole, La chiesa e il suo dono. La missione fra teologia ed ecclesiologia, Queriniana, Brescia 2019.
3 È un’interpretazione già presente nella visione conciliare sedimentatasi in Gaudium et spes. Niklas Luhmann ne ha tracciato molto bene il profilo: cf. N. Luhmann, Funzione della religione, Morcelliana, Brescia 1991. Per un’approssimazione a tale lettura si veda: S. Belardinelli, Introduzione all’edizione italiana, in Luhmann, Funzione della religione, 1-16; G. Ferretti, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica. II. Figure, Edizioni Scientifiche, Napoli 2002, 198-199.
4 Si veda L. Ferry - M. Gauchet, Il religioso dopo la religione, Ipermedium, Santa Maria Capua Vetere (CE) 2005; M. Gauchet, Un mondo disincantato? Tra laicismo e riflusso clericale, Dedalo, Bari 2008; Id., La democrazia da una crisi all’altra, Ipermedium, Santa Maria Capua Vetere (CE) 2009. Per un’introduzione critica al pensiero del filosofo francese, cf. F. Conigliaro, «Società laica» e «assoluto terreno» in Marcel Gauchet, in L. Casula (ed.), Laicità e democrazia. Una questione per la teologia, Glossa, Milano 2011, 39-85.



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