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Massimo Recalcati "La dignità della fine"

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La Repubblica, 29 febbraio 2024 

Manca in Italia una legge sul fine vita. Non è solo un vuoto legislativo, ma soprattutto un’assenza colpevole della politica ad intraprendere una battaglia finalmente decisa e risolutiva su questo tema.

Non fu così per la legge sul divorzio né per quella sull’aborto per le quali, com’è noto, una ampia mobilitazione delle forze progressiste del nostro paese rese possibile l’acquisizione di quei diritti. 

Sul tema del fine vita, invece, un silenzio increscioso. Solo le Associazioni, come quella che porta il nome di Luca Coscioni, o l’intraprendenza coraggiosa di singoli come Marco Cappato, provano in tutti i modi ad allertare il legislatore. Ma non sarebbe compito della politica, nella sua accezione più nobile, porre con forza il problema della tutela della dignità del fine vita in una agenda dei diritti che riguardi finalmente, come accadde anche per il divorzio e per l’aborto, la vita civile di un intero paese e non quello di alcune minoranze (con la precisazione ovvia che una democrazia si valuta soprattutto da come tutela i diritti delle minoranze)? 

Freud aveva affermato, di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale, che gli esseri umani si tengono lontani dalla morte, operando una sorta di rimozione collettiva inconscia. Accade come se la dignità della vita alla sua fine dovesse restare fuori discorso, impronunciabile, senza parole possibili, senza spazio di dibattito pubblico, in un tempo maniacale, come il nostro, che vorrebbe, appunto, cancellare la morte dal suo orizzonte. Perché preoccuparsi della fine della vita, di coloro che sono caduti nell’incubo di una malattia incurabile, nello strazio della sofferenza senza speranza, nell’atrocità della mutilazione, nell’immobilità forzata, nell’umiliazione di una vita ridotta a non essere altro che una dolorosa sopravvivenza? Eppure, nella forma umana della vita, la morte non è, come diceva Heidegger, semplicemente l’ultima nota della melodia dell’esistenza, ma una “imminenza sovrastante” che ci accompagna sin dal primo respiro. Essa non è semplicemente qualcosa che attende la vita dal di fuori, ma il nostro destino più proprio. È, dunque, questo destino a renderci profondamente umani. Non dovremmo provare allora, a partire da questo comune destino, a ripensare laicamente la dimensione della fratellanza? Di fronte ad una sofferenza che non conosce possibilità di trattamento, ad una vita mantenuta viva dalle macchine della scienza, ridotta ad un respiro senza desiderio, non siamo chiamati ad un movimento collettivo di solidarietà che non significa solo assicurare le cure anche quando le possibilità terapeutiche sono esaurite, ma donare, a chi lo chiede consapevolmente, il sollievo della morte? 

All’origine dello Stato moderno, Hobbes aveva teorizzato che a fondamento della vita civile vi fosse la paura della morte, la necessità di proteggersi dalla guerra di tutti contro tutti. Se lo stato di natura è quello dell’homo homini lupus, il potere del Leviatano interviene contenendo questa spinta, arginando con la forza del diritto la violenza che spinge gli uni contro gli altri. In primo piano è qui la paura della morte che è all’origine della pulsione securitaria che istituisce la comunità umana come difesa dalla minaccia della violenza: la cessione di una quota di libertà individuale avviene in cambio della protezione della vita. Ma non dovremmo invece pensare in tutt’altro modo il nostro rapporto collettivo con la morte? Non tanto come paura dell’uno nei confronti dell’altro, ma come principio di una più profonda solidarietà umana, nel riconoscersi fratelli che condividono lo stesso destino mortale. 

Come se dovessimo sostituire il Leviatano di Hobbes con il grido di Giobbe, il quale incontra nella sua vita il dramma della caduta e della perdita, dell’ingiustizia atroce della sofferenza. Perché andrebbe ricordato che purtroppo non esiste affatto diritto alla salute, ma solo diritto alla cura. 

Nessun diritto può, infatti, garantire la vita in salute perché il male non può essere governato in modo integrale e la morte non può essere evitata. Ma proprio per questa ragione prendersi cura dovrebbe essere l’atteggiamento fondamentale dell’umano nei confronti del fratello. Siamo tutti uguali di fronte alla signoria della morte, ma esistono limiti nella sopportazione della sofferenza che non possono rispondere a criteri universali. 

Prendersi cura significa considerare questo fatto basilare: di fronte ad un dolore senza speranza e di fronte ad una vita resa disumana dalla malattia, ciascuno ha il diritto di riconoscere il limite sin dove spingere la sua capacità di resistenza, ciascuno ha diritto a riconoscere la propria resa come salvaguardia della sua dignità.


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