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Marinella Perroni "Tra vendetta e pietà"

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Nella Bibbia non troviamo le risposte, ma sentieri e fili di senso. Biblista e teologa, Marinella Perroni cerca, in racconti di figure bibliche poco note, la “lettura teologica” della violenza insita nella creazione. Si tratta di donne che impediscono la catena inarrestabile della vendetta attraverso una misericordia senza fine e senza confine.

“Se tu mostrerai pietà o bontà

verso chi è crudele 

finirai prima o poi 

con l’essere crudele 

verso chi è buono e pietoso”


Midrash, Kohelet Rabbà VII, 36



Mentre scrivo queste righe il mondo ha paura. Né posso immaginare se, quando verranno lette, all’orizzonte sarà sorto l’arcobaleno della pace. Perché in questo momento vediamo solo scene di guerra, ascoltiamo solo uno sfrontato susseguirsi di menzogne, pensiamo solo pensieri di rabbia e di morte. Sul mio tavolo è appena arrivato il bel libro che si intitola Oltre la guerra. Le vie della pace tra teologia e filosofia. Lo ho solo sfogliato e gli riconosco una funzione balsamica perché è un tentativo di argomentare che la pace è perseguibile perché ha una sua intrinseca verità, sia etica che ontologica, ma che, per diventare verità storica, chiede il coraggio della responsabilità individuale e collettiva. Infatti, «È nello spiraglio tra il difficile e l’impossibile che devono muoversi la nostra responsabilità e la nostra creatività politica».[1]   


E la Bibbia? C’è una verità biblica sulla pace? Oppure, possiamo almeno dire che la Bibbia ci aiuta a muoverci in quello spiraglio? Credo di sì, ma non bisogna barare: la Bibbia suggerisce sentimenti contrastanti e non può che far aumentare lo smarrimento. Penso sempre a un grande esegeta che molti anni fa mi insegnò che non bisogna mai prendere un tema e interpellare la Bibbia. Ci possiamo trovare di fronte a pensieri e dichiarazioni, affermazioni, implorazioni che si contraddicono platealmente tra loro. Per questo ognuno allora la tira dalla sua parte e Netanyahu può citare Isaia per sostenere l’invasione di terra a Gaza! 


Eppure, un sentiero da percorrere ce lo può suggerire proprio la Bibbia. Non per consolarci, perché è difficile negare che la Bibbia sia uno dei libri più violenti della letteratura religiosa universale. Né, d’altra parte, possiamo continuare ad avallare la millenaria convinzione che il Dio dell’Antico Testamento sia violento e crudele, mentre il Dio di Gesù Cristo sia tutto pace e amore, dato che in nome di colui la cui venuta al mondo è stata salutata da cori angelici che annunciavano la pace in terra sono state compiute le più grandi atrocità che la storia abbia conosciuto nell’era cosiddetta cristiana. 


Il sentiero biblico però c’è. Poco battuto, forse, perché non fornisce slogan ad uso delle diverse tifoserie, ma piuttosto perché mettere insieme parole o storie bibliche consente di rintracciare un filo di senso che, come quello della mitica Arianna, aiuta a non restare imprigionati nel labirinto delle convinzioni che, in tempi di guerra, diventa degli schieramenti. Sono molte le scene bibliche che potrei richiamare, ma qui vorrei limitarmi soltanto a due.


Discendenti di Lamec …


Ci sono convinzioni che si trasmettono più o meno stancamente, sedimentano, diventano pietrificate. Una è certamente quella che nella Bibbia la parte del cattivo per eccellenza sia interpretata da Caino. Non è così. Tutto sommato, per i miti originari che aprono il libro della Genesi, Caino incarna sì, la violenza, perfino la più odiosa, quella che spinge a uccidere il proprio fratello, ma si tratta di una violenza in un certo senso “naturale”, insita nella vicenda umana in quanto tale. Ne è, forse, addirittura un ingrediente inevitabile. La abita ab origine. E Caino ne è l’archetipo, immagine riassuntiva dell’esperienza umana che segue la logica secondo cui anche la stessa legge di natura, quella della fraternità, ha al suo interno la sua negazione.  


Ma al catechismo abbiamo imparato che il colpevole per eccellenza è Caino perché nessuno ci ha parlato di un Dio che predilige la pastorizia all’agricoltura, che maledice il fratricida ma, al contempo, lo protegge da ogni rischio di diventare a sua volta oggetto di violenza e addirittura minaccia una vendetta ben più cieca su chiunque alzerà la mano contro di lui. Soprattutto, al catechismo nessuno si è preoccupato di parlarci di Lamec (cfr. Gen 4,8-24) e di dirci che Lamec, discendente di Caino, è molto peggio del suo antenato. Non perché si prese due mogli, Ada e Silla, ma perché ha inventato la vendetta, cioè la risposta violenta alla violenza: la sua è una violenza “culturale”, passa per l’affermazione di sé e il gusto di poter determinare la misura smisurata, diventa un ingrediente della storia che la trascina in un baratro davanti al quale neppure Dio può nulla.


Di fronte alla violenza di Caino Dio può ancora qualcosa e infatti gli impone il segno che lo può preservare dal diventare a sua volta oggetto di violenza: 


«Ebbene, chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!» (4,15).


Dio non previene la violenza misteriosamente iscritta al cuore della creazione, è vero, ma almeno si oppone al fatto che da violenza possa nascere violenza e cerca di impedire che abbia inizio una catena inarrestabile: quel Dio che, evidentemente, non poteva impedire il fratricidio può però porsi come garante che la violenza originaria non “faccia storia”. È questa la “lettura teologica” che Israele riesce a fare del mistero del male che abita la creazione. Per la discendenza di Caino, invece, la violenza non conoscerà limiti, perché si giustificherà ormai da sé stessa: la violenza ormai si chiama vendetta. Lamec non la compie soltanto, ma se ne è fatto arbitro. Un salto di qualità devastante. Quello che va sotto il nome di canto di Lamec è forse uno dei punti più tragici dei miti biblici delle origini che ci svelano quanto in ogni tempo e sotto ogni cielo è avvenuto, avviene e avverrà:


Lamec disse alle mogli: “Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamec, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette” (4,23-24).

  

Forse, se qualcuno ci avesse letto il racconto di Lamec avremmo anche capito perché, più tardi, colui che ha preteso di rivelare le regole del regno di Dio ha chiesto a Pietro di rispondere alle offese perdonando fino a «settanta volte sette» (Mt 18,22). 


Il mito della genealogia di Caino ci dice però anche ben altro. Le mogli di Lamec non vengono infatti soltanto menzionate per nome, ma a entrambe viene attribuito un ruolo di grande rilievo nella genealogia originaria: i nomi di Ada e Silla sono collegati a svolte culturali a cui Israele ha guardato con grande interesse perché hanno segnato tappe decisive del suo sviluppo. E questo sembra avvenire al di fuori del raggio d’azione di Lamec: a loro si deve il passaggio della stirpe di Caino dall’agricoltura alla pastorizia (v. 20: «Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame»), la nascita della musica (v. 21: «Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto») e lo sviluppo dell’artigianato (v. 22: «Silla a sua volta partorì Tubal-Kain, il fabbro, padre di quanti lavorano il bronzo e il ferro»). 


Il progresso culturale, insomma, avviene solo se regna la pace, solo al di fuori della spirale della violenza, potremmo dire addirittura che è ad essa estraneo, come i figli di Ada e Silla sembrano essere del tutto estranei alla volontà di morte paterna che impone alla genealogia di Caino il marchio di quell’indiscriminata amplificazione della violenza che si chiama vendetta. Lamec però c’è stato e il suo canto ha impresso un punto di non ritorno alla genealogia della violenza che è andata ben al di là del fratricidio e ha perseguito vendetta dopo vendetta fino a postulare, come unica reale possibilità di porvi fine, lo sterminio.


Se nasciamo figli di Caino perché la violenza fa parte della nostra natura, figli di Lamec ci diventiamo nel momento in cui, autocentrati e ormai estranei a quei processi di sviluppo che hanno consentito all’umanità di progredire, la nostra autoesaltazione arriva a postulare la vendetta come degna apoteosi della violenza e a perseguire “soluzioni finali”.


… e figli di Rispa


Nello scrigno biblico è però possibile trovare anche ben altro. Rispa è personaggio sicuramente meno noto. Eppure è donna che accende nelle pagine bibliche un fuoco inestinguibile. Se la forza del mito ci avverte del fatto che il desiderio di vendetta è impresso in modo inesorabile nella storia di tutti i figli di Lamec, Rispa che appartiene alle pagine della narrativa storica ci ricorda invece che ben altro è possibile. Come scelta, perché la storia non è un destino ineluttabile, ma quello che uomini e donne, per decisione, vogliono che sia. Forse per questo di Rispa nessuno ha parlato o parla benché potrebbe essere una delle pagine più serie del catechismo della vita.


Il racconto biblico ci obbliga a fare i conti con questa donna che, come concubina di Saul sarà madre senza essere moglie e, una volta rimasta vedova, sarà preda di Abner, il comandante dell’esercito (2Sam 3,7). Nonostante tutto questo, Rispa resta capace di vivere totalmente al di fuori delle regole che definivano l’assetto sociale e religioso, soprattutto quelle dettate dalla violenza e dalla guerra:


Il re (Davide) prese i due figli che Rispa, figlia di Aià, aveva partoriti a Saul, Armonì e Merib-Baal, e i cinque figli che Merab, figlia di Saul, aveva partoriti ad Adrièl di Mecolà, figlio di Barzillài. Li consegnò nelle mani dei Gabaoniti, che li impiccarono sul monte, davanti al Signore. Tutti e sette caddero insieme. Furono messi a morte nei primi giorni della mietitura, quando si cominciava a mietere l'orzo.

Allora Rispa, figlia di Aià, prese il sacco e lo stese sulla roccia, dal principio della mietitura fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia. Essa non permise agli uccelli del cielo di posarsi su di loro di giorno e alle bestie selvatiche di accostarsi di notte. Fu riferito a Davide quello che Rispa, figlia di Aià, concubina di Saul, aveva fatto. Davide andò a prendere le ossa di Saul e quelle di Giònata, suo figlio, presso i signori di Iabes di Gàlaad, i quali le avevano sottratte furtivamente dalla piazza di Bet-Sean, dove i Filistei li avevano appesi quando avevano colpito Saul sul Gèlboe. Egli riportò le ossa di Saul e quelle di Giònata, suo figlio; poi si raccolsero anche le ossa di quelli che erano stati impiccati. Le ossa di Saul e di Giònata, suo figlio, furono sepolte nel territorio di Beniamino a Sela, nel sepolcro di Kis, padre di Saul. Fu fatto quanto il re aveva ordinato e, dopo questo, Dio si mostrò placato verso la terra (2Sam 21,8-14).


In una storia in cui la vendetta è ormai ineluttabile perché accettata come garanzia della pace, Rispa fa entrare una corrente di misericordia senza fine e senza confine che abbraccia i due figli che ella stessa aveva dato a Saul, ma anche altri cinque nipoti del grande re e che arriva a proteggere per mesi dalle fiere selvatiche e dalle intemperie i loro corpi giustiziati solo come pegno della vendetta. C’è di più. Con la sua lunga veglia funebre Rispa insegna a Davide che la forma di rispetto più assoluta, perché più disinteressata, che gli esseri umani possono arrivare a tributarsi, quella per i morti redime la guerra dalla logica della vendetta che, sempre, la accompagna. Non si tratta quindi soltanto della misericordia dovuta ai morti. Il gesto di Rispa si inserisce dentro una trama a dir poco feroce, perché fatta di guerre e stermini, di vendette e uccisioni, una storia in cui senza soluzione di continuità sui figli ricade la colpa dei padri e afferma in modo potente che questa storia non è ineluttabile né le sue regole sono inviolabili. Rispa non ha il potere di fare la storia, la sua decisione di rispondere alla vendetta con la misericordia è del tutto personale, ma farà capire al grande re Davide che solo quando la misericordia redime la storia dalla sua insita violenza, Dio stesso si mostra placato. 


Una “conclusione”


Due racconti della Bibbia tra i tanti, due figure tra le tante. Lamec è un progenitore e sembra condannare tutti i discendenti di Adamo a un crescendo di violenza che trova il suo culmine solo nell’esaltazione della vendetta. Rispa è personaggio esemplare che entra nella storia della violenza che incatena i figli di Lamec alla loro logica di vendetta, ma che, con la forza della sua decisione, non lascia alla violenza l’ultima parola e questo impone che sia la pietà a ricomporre la memoria del passato. Ancora oggi, sarà solo lo smisurato dolore delle madri per l’atrocità di un’ingiustizia perpetrata sui loro figli che giudicherà i signori della guerra e i padroni della vendetta. E ci obbligherà a domandarci se per loro ci può essere perdono. 




[1] Roberto Mancini e Brunetto Salvarani, Oltre la guerra. Le vie della pace tra teologia e filosofia, Cantalupa (Effatà) 2023, 7.


Marinella Perroni

Esodo n° 4 ottobre-dicembre 2023

Guerra, pace

e diritto internazionale

contributi di

Beraldo, Bolpin, Borraccetti, Carraro, Cavallari, Costi, De Stefani,

Fraudatario, Lucarelli, Mascia, Menozzi, Pace, Perroni, Privitera,

Puleri, Savogin, Semi, Tognoni.




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