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Marinella Perroni "Spazio alle donne? Il magistero ascolti la teologia"

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«Francamente, non se ne può più: sembra che l’unica grande questione per la vita della chiesa cattolica siano le donne e, soprattutto, il loro accesso al sacerdozio!». Marinella Perroni non usa mezzi termini. Secondo la teologa, troppo spesso attorno al tema del sacerdozio femminile si sviluppa un cancan, per lo più mediatico, che pretende di interferire su processi lunghi e delicati che interessano la chiesa cattolica oggi. «Ciò non significa, però, che il tema non sia all’ordine del giorno. Ma le donne sono stanche di essere considerate una “questione” per la Chiesa. E soprattutto di distrarre l’attenzione dalla vera grande questione».

Marinella Perroni, qual è dunque la questione che interpella oggi la chiesa?
«La riforma che ormai da molte parti del mondo viene invocata è quella che il Concilio Vaticano II aveva abbozzato, chiedendo che venisse affrontata teologicamente e a tutto campo, e su cui grandi teologi del post-concilio hanno avviato un ripensamento molto serio: una riforma complessiva dell’impianto ministeriale cattolico-romano. Lo chiedono i tempi, lo chiede l’ecumenismo, lo chiede il confronto interreligioso. L’ultima grande riforma della Chiesa latina risale a Gregorio VII (XI sec.), dato che quella del XVI sec. proposta da Lutero è stata rifiutata da Roma. Forse, dopo secoli e secoli, la chiesa non dovrebbe avere problemi a ripensarsi: nel medioevo è stato necessario farlo dato che il mondo era molto cambiato e lo scisma d’Oriente aveva cambiato anche la chiesa stessa. Perché non farlo ora che il mondo è ancora una volta molto cambiato?».

Nel libro-intervista Non sei solo. Sfide, risposte, speranze, di Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, Bergoglio ribadisce che la questione del sacerdozio alle donne è teologica e che le donne non possono accedere al sacerdozio perché non spetta loro il ministero petrino. Il sacerdozio femminile è quindi una questione teologica?
«Il Papa ha assolutamente ragione: è una questione teologica e va affrontata teologicamente. Attiene infatti alla configurazione ecclesiologica che la chiesa stessa decide di darsi nelle varie epoche. Ha funzionato sempre così. Ed è vero che alle donne il sacerdozio non spetta, ma perché in realtà non spetta a nessuno. Qualsiasi ministero ecclesiastico è nato perché le prime chiese, che andavano inserendosi nei territori dell’Impero romano, avevano bisogno di stabilire il loro ordinamento. A questo si deve la progressiva esclusione delle donne che originariamente giocavano invece ruoli rilevanti nelle comunità dei credenti in Gesù. Le chiese nascenti, però, non potevano pretendere una legittimazione sociale se non accettavano di strutturarsi secondo le regole del patriarcato dominante».

Cosa significa affrontare la questione dal punto di vista teologico?
«Significa tante cose. Mi sento però di dire che per il Magistero dovrebbe significare uscire finalmente dall’ossessione che ha dominato negli interventi degli ultimi pontefici, non escluso Francesco, quella del doppio principio, mariano e petrino, come formula magica della configurazione ministeriale della chiesa. Che la chiesa abbia bisogno di vivere la doppia dimensione, quella istituzionale e quella profetica, non lo ha mai messo in discussione nessuno. Che però questo possa essere semplificato con l’attribuzione a Pietro dell’autorità e a Maria della misericordia e della cura, già comporta un pericoloso scivolone. Che poi addirittura si arrivi a dire che l’autorità compete ai maschi, perché Pietro rappresenta l’universale maschile, mentre il sentimento e la cura sono riservate alle donne, dato che Maria rappresenta l’universale femminile, va contro ogni acquisizione da parte dell’antropologia e della sociologia contemporanee. È una formula comoda solo a difendere lo status quo patriarcale, cioè la coincidenza tra potere, sacerdozio e maschilità. Il maschile comanda perché è l’unico ad avere accesso al sacro. Mi chiedo: che senso ha parlare del ministero ordinato in termini di sacralità?»

Teologia e Magistero sono quindi in contrasto…
«La discussione è aperta. Con i teologi, ma soprattutto con le teologhe. Il problema non è tanto, evidentemente, la formula in sé, ma la pretesa di farne l’impianto ministeriale secondo una visione “di genere” assolutamente inadeguata».

Può spiegare perché la sacralità del sacerdozio andrebbe superata?
«È più semplice di quanto sembri. Perché è stata un’acquisizione che si è resa necessaria in un preciso momento della storia della chiesa nascente. Sappiamo che è avvenuto molto presto perché le chiese che si andavano radicando nelle città dell’Impero hanno mutuato dal giudaismo, ma soprattutto dal paganesimo la loro prima strutturazione ministeriale. Entrambe queste religioni conoscevano la struttura portante del sacerdozio. Nel linguaggio di Gesù o in quello apostolico però, la terminologia sacerdotale non esiste e in tutto il Nuovo Testamento si parla di sacerdozio solo nella Lettera agli Ebrei proprio per spiegare la differenza tra il cristianesimo nascente e il sacerdozio del Tempio di Gerusalemme».

È anche una questione di potere?
«Certo! Ogni istituzione richiede l’esercizio del potere e sarebbe semplicemente disonesto pensare il contrario. La chiesa cattolico-romana ha deciso nel corso dei secoli di darsi una forma “monarchica”, centralistica e di vertice. Se oggi però ricerca forme, sia pure secondarie, di sinodalità oltre che di collegialità è perché i tempi cambiano e “governare” un miliardo e duecento milioni di persone sparse in tutte le culture del mondo non è semplice».

Per le donne, l’accesso negato al sacerdozio è una privazione?
«Se la pensiamo secondo la logica dei diritti, è chiaro che è una privazione. Ma, ripeto, prima ancora che sul piano dei diritti la questione va affrontata sul piano teologico: stando all’insegnamento di Gesù e alla prima missione cristiana, soprattutto quella paolina, le chiese nascenti hanno avuto leadership sia femminili che maschili, alcune donne hanno fondato comunità, sono state apostole, profetavano durante la liturgia, avevano responsabilità rispetto ai missionari. Ci sono state motivazioni sulla base delle quali la chiesa, strutturandosi sulla falsariga dell’Impero, ha sentito la necessità di un sistema garantito dalla maschilità dei suoi responsabili. Come ha fatto quel passaggio, però, non si capisce perché non possa farne oggi un altro e andare verso un ordinamento più consono a regole di giustizia valide per l’oggi».

Vede qualche possibilità di cambiamento all’orizzonte?
«Nel frattempo le donne sono sempre più attive nella vita della Chiesa, attestano la potenza di una realtà vissuta, prima ancora che legittimata. In fondo i processi di legittimazione partono sempre dal vissuto e quindi c’è di che sperare!».

Che valutazione dà allora dell’apertura del Papa ai ministeri istituiti di lettorato e accolitato alle donne, nel 2021 con motu proprio?
«In molti l’hanno giudicato un contentino anche un po’ inutile dato che nelle chiese locali molte donne esercitano già da tempo questi due ministeri. Io invece ne ho dato un giudizio positivo, nella logica dei piccoli passi. In fondo il Papa ha dimostrato che con un tratto di penna un pontefice può cancellare dal diritto canonico la preclusione ad accedere a due ministeri sulla base del sesso. E non è poco. E poi si tratta di due ministeri che ormai vanno considerati “istituiti”, che hanno cioè un loro riconoscimento ufficiale. Infine si tratta di due ministeri che possono essere esercitati da uomini e da donne. Non esiste, giustamente, un lettorato maschile e uno femminile. C’è speranza che prima o poi si capisca che non deve esistere un diaconato femminile o un presbiterato femminile. Non è di questo che si tratta. I vari ministeri sono quelli di cui la chiesa ha bisogno, e dovrebbero essere esercitati da uomini e da donne».


Laura Bellomi per Famiglia Cristiana


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