Brunetto Salvarani "Tra i perdenti che cercano Dio"
Nei ricordi maturi di Fabrizio De André affiorava un affetto sincero per il suo insegnante di religione al liceo classico, don Giacomino Piana, uno di quei preti silenziosi ma operosi che hanno tracciato un pezzo notevole della recente storia genovese, favorendo in qualche generazione di giovani locali una crescita significativa nel percorso di maturazione civile. Il presbitero, scomparso ottantasettenne nel 2003, detto dai suoi ragazzi, scherzosamente, don Birillo, fu un uomo di grande cultura, e concelebrerà i funerali di Fabrizio. Egli si rivelò decisivo nel far leggere al futuro cantautore la figura di Gesù come «il più grande rivoluzionario dell’amore», fratello, compagno di strada, ma anche e soprattutto modello di umanità. Come conferma un episodio reso noto dallo stesso don Piana, che gli rimase particolarmente impresso.
Era un mercoledì santo, ultimo giorno prima delle vacanze pasquali. Durante la lezione, il docente aveva esposto un testo del filosofo Kierkegaard (Sul concetto di ironia, sua tesi di laurea) in cui compare un parallelo tra la morte di Socrate e quella di Gesù: evidenziando che, se il pensatore ateniese muore serenamente come un intellettuale, disprezzando la vita, Gesù muore da uomo, percependo fino in fondo il distacco dai suoi e arrivando, sulla croce, a gridare tutta la propria disperazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15,34). Alla fine della lezione, quando i compagni sciamano veloci con il pensiero rivolto all’inizio delle agognate vacanze e fanno gli auguri di rito al prof., il sedicenne Fabrizio se ne sta in disparte («era un pochino misantropo...»). Prima di uscire, però, mentre don Piana sta raccogliendo i suoi libri, lui si piazza davanti alla cattedra e gli fa: «Don Giacomino, io non ti dico buona Pasqua, perché per me non ha senso (Sapevo infatti che era piuttosto tormentato dal punto di vista della fede), però quel Gesù di cui hai parlato oggi piace anche a me. È un Gesù più umano». Un episodio emblematico di una sensibilità che non avrebbe mai più abbandonato De André.
Ebbene sì, come negarlo? A questo punto, occorre ammetterlo: non possiamo non dirci “deandreiani”. E non riusciamo più a fare a meno nel nostro immaginario, pur nello scorrere rapido delle generazioni, di Marinella con il suo fascino malinconico e del pacifismo ante litteram che traspare da La guerra di Piero, della sfacciataggine solare di Bocca di rosa e dello sguardo lucido sulla realtà dei dormienti sulla collina recuperati da Spoon River di Non all’amore, non al denaro né al cielo; ma anche del ritorno alle radici di Creuza de mä e dell’inno alla dignità di tutti gli sconfitti dalla vita di Smisurata preghiera. Perché è innegabile che, nel corso del quarto di secolo dalla prematura scomparsa (avvenuta neppure sessantenne a Milano l’11 gennaio 1999), Fabrizio De André ha conseguito uno status di classico moderno.
E se per Italo Calvino i classici sono quei libri che, quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più, se letti davvero, si trovano nuovi e inattesi, la cosa vale anche per l’universo solo apparentemente leggero delle “canzonette”, e indubbiamente per Faber (il suo soprannome, datogli da ragazzo dall’amico Paolo Villaggio). La cui produzione registra tutt’ora un’ampia fioritura di iniziative (concerti live ritrovati, cover band, trasmissioni radiotelevisive, pubblicazioni e caccia ai memorabilia), a un livello senza precedenti alle nostre latitudini. Ci si dovrebbe chiedere il perché, semmai: a partire dal fatto che il cantautore ligure sta intercettando, soprattutto post-mortem, un bisogno di poesia e di legami sociali mai sopito eppure oggi particolarmente carente. Fino alla capacità di tenere assieme, nella sua poetica, in un cocktail tipicamente postmoderno e senza farli stridere troppo, echi dei menestrelli medievali, Novecento letterario yankee ed esistenzialismo francese, un background anarchico mai rinnegato e un ateismo non banale ma ragionato.
Sia come sia, non si tratta dell’effetto-nostalgia di cui si è preda approdati alla boa di “una certa età”, visto che molti protagonisti degli eventi richiamati sono giovani, che all’epoca dei suoi storici album concept — da Tutti morimmo a stento a Storia di un impiegato — forse non erano neppure nati, e hanno ben più dimestichezza con la musica immateriale di Spotify che con i “”padelloni" in vinile con cui trafficavano i loro genitori o nonni.
«Ricorda Signore questi servi disobbedienti/ alle leggi del branco/ non dimenticare il loro volto/ che dopo tanto sbandare/ è appena giusto che la fortuna li aiuti/ come una svista/ come un’anomalia/ come una distrazione/ come un dovere»: si chiudeva così, con questi versi presi a prestito dallo scrittore colombiano Alvaro Mutis, il vasto canzoniere di Fabrizio (tredici album in trent’anni di carriera).
Il brano, Smisurata preghiera, conclude l’ultimo disco, da qualcuno considerato il vertice della sua produzione, Anime salve. È curioso ripensare al fatto che il suo album d’esordio, nel 1967, dal titolo minimalista Volume primo, si apriva con Preghiera in gennaio, dedicata all’amico suicida Luigi Tenco: quasi che l’intero suo repertorio sia da leggere come una suggestiva inclusione tra due commosse orazioni, entrambe incentrate sul Dio dei perdenti, degli sconfitti, degli ultimi.
È intrigante, in effetti, il fatto che uno dei primi temi della sua produzione, addirittura un suo Leitmotiv, sia la religione cristiana, intesa come tradimento del suo significato delle origini. Come risulta evidente nella sua biografia, l’humus da cui nascono i brani iniziali di De André — sono gli anni che costeggiano il Vaticano ii e la spinta a un deciso rinnovamento ecclesiale — è impastato dal rigetto del cattolicesimo d’ordinanza, preconciliare e di matrice bigotta, da lui respirato in gioventù a pieni polmoni; mentre fra i principali obiettivi polemici di pezzi arcinoti – da La città vecchia a La ballata del Miché alla stessa Preghiera in gennaio, ad esempio — ci sono il militarismo, il formalismo, l’ipocrisia dell’istituzione religiosa, più che il messaggio evangelico in sé. Su cui, peraltro, avrà parecchio da dire, in maniera originale e per nulla depositaria. Nel suo canzoniere, del resto, Gesù — da lui più volte presentato come il più grande rivoluzionario della storia — occupa uno spazio rilevante, dagli esordi (Si chiamava Gesù, censurata dalla RAI democristiana e trasmessa senza problemi da Radio Vaticana in un programma guidato dal volontario della Pro Civitate Christiana di Assisi Paolo Scappucci che ne coglie l’afflato ideale e la ricerca sincera) alla maturità (la rilettura commossa della relazione fra Maria Maddalena e il “marinaio” nella coheniana Suzanne). Nei diari di Faber, al riguardo, si potrà leggere: «In Si chiamava Gesù cerco di umanizzare al massimo la figura di Cristo, per dimostrare come l’amore, prima di cercarlo al di là del sole e delle stelle, come potrebbe essere per un dio con entità metafisica, si può benissimo trovarlo qui da noi. Ho addirittura azzardato l’ipotesi che non sia stato un dio a venire in terra, ma un uomo che sia riuscito a divinizzarsi attraverso il suo comportamento. La Radio Vaticana mi ha capito, e di cristianesimo se ne intende più di me…». Cosa che — vale la pena di sottolinearlo, a scanso di spiacevoli equivoci sempre in agguato — non equivale a inserirlo nell’alveo di una confessione religiosa ufficiale, e tanto meno a eleggerlo, ci mancherebbe, ad ateo devoto anzitempo. Ai suoi occhi, l’istituzionalizzazione del rapporto col mistero, per cui quest’ultimo non è più considerato tale ma diventa un semplice quesito di cui si pretende di possedere la chiave, comporta il sacrificio di Dio, la sua uccisione (quella stessa fotografata dal collega Francesco Guccini nel suo classico per eccellenza, Dio è morto, non a caso pure censurata dalla rete nazionale e sdoganato da Scappucci a Radio Vaticana). Quella di Fabrizio potremmo dirla una “religiosità laica”, che, come nel cristianesimo primitivo, fa, pasolinianamente, dell’uomo vituperato e vilipeso dal potere e dai potenti l’oggetto di un amore infinito. Beninteso, non ci sono templi o preti per un simile culto dell’uomo; mentre ogni luogo, sia un bordello, un campo rom, una cella, è in grado di trasformarsi in uno spazio dove celebrare l’umanità degli scartati, in cui ogni prostituta, furfante, suicida possono divenirne gli officianti.
Senza dubbio, e al di là delle sue stesse intenzioni, De André ha rivestito una diretta influenza teologica sulla cultura italiana dell’ultimo quarantennio. Il riferimento va oltre a quello, ovvio, di quell’autentico capolavoro che resta La Buona Novella (1970), emblema di un’inquietudine generazionale alla ricerca delle ragioni di una ribellione interiore poetica e radicale, per allargarsi a tante canzoni disseminate di orme evangeliche, che ci consegnano una galleria inedita e memorabile di variopinti “santi peccatori”. Prostitute e assassini, pescatori e musicisti, bevitori e bombaroli, nativi americani e zingari, tutte “anime salve” — appunto — in quanto perdute e rifiutate dal potere, esistenze riscattate dall’unica religione da lui coerentemente praticata, quella dell’umana compagnia e della solidarietà con gli esclusi. Più che ricorrere alla classica tesi rahneriana del cristianesimo anonimo, lo si direbbe un esploratore del significato della vita e del Dio nascosto, che ai suoi occhi non era il Dio canonico ed ecclesiastico, ma una presenza misteriosa che soffia un’anima nel mondo e cui ci si rivolge quando si amano intensamente i giorni spettanti all’umanità, e si vuole penetrare nel senso delle cose e del tempo che passa.
Non è un caso che, anni dopo l’uscita de La buona novella, album ispirato, com’è noto, ai vangeli apocrifi per evitare l’incagliamento nell’“ufficio stampa” di Gesù (quelli canonici), Faber si troverà ad ammettere, pur senza velleità teologiche: «Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo».
Rileggendo tale ambizioso proposito, tornano in mente le frasi con cui Antonio Balletto, il prete concittadino che ne celebrò i funerali con don Gallo e “don Birillo”, lo salutò, davanti a una folla strabocchevole: «Non dimenticare De André ci aiuta a tirare avanti, a credere ancora all’uomo e al suo futuro. E ci aiuta a conservare un po’ d’umanità, in tempi che non sarebbero piaciuti per nulla a Fabrizio e che non piacciono neppure a noi». Il che, a conti fatti, oltre a spiegare bene il perdurare del suo mito, non appare davvero un esito dappoco.
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