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Brunetto Salvarani "Vent'anni senza Faber"

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Riprendere il dialogo con su Fabrizio De André, ancora una volta. Approfittando di una ricorrenza di quelle che ci colpiscono per la cifra tonda. Sfidando non solo mode e abitudini consolidate, ma soprattutto il rischio realissimo di santificare post-mortem un artista autentico che – va detto – da parte sua non ha mai accampato pretese di interpretare il ruolo di un guru. D’altra parte, è innegabile che, nei due decenni giusti che ci separano dalla sua scomparsa (l’11 gennaio 1999), il cantautore di Marinella e Creuza de mä abbia acquisito, piaccia o no, lo status di classico.
Secondo Italo Calvino, i classici sono quei libri che, quanto più si ritiene di conoscerli almeno per sentito dire, tanto più, se si leggono davvero, si trovano nuovi, inaspettati, inediti: cosa che, si parva licet, vale anche per l’universo solo apparentemente leggero delle canzonette . E se – ancora Calvino - di un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima, anche per La buona novella, ad esempio (album uscito quasi mezzo secolo fa, nel 1970), direi, si dà lo stesso. Poco più di mezz’ora di musica e parole il cui ascolto, magicamente, è sempre inedito e mai scontato. Provare per credere… Si direbbe che il cantautore genovese stia intercettando, soprattutto post-mortem, quel bisogno di poesia e di legami sociali mai interamente sopito eppure oggi particolarmente carente. Non si tratta, si badi, di quell’effetto-nostalgia di cui siamo preda approdati alla boa di una certa età, perché molti appassionati di De André sono giovani o addirittura giovanissimi, che all’epoca dei primi album di Faber non erano neppure nati, e hanno certo maggiore dimestichezza con la musica degli MP3 e degli iPod che con i padelloni in vinile a 33 giri con cui trafficavano semmai i loro genitori… Come mai, allora? A conti fatti, rischiando l’ovvietà, il motivo va ricercato nella capacità del Bob Dylan italiano (ma Fernanda Pivano sosteneva che bisognerebbe meglio dire che Dylan è il Fabrizio americano…) di spaziare con estremo lirismo su temi universali, eterni: fra i quali, non ultimo e non secondario appare senz’altro quello del rapporto fra cittadino e potere.

Storia di un impiegato

La prima volta che De André affronta in modo organico l’argomento, giocandolo in chiave anarchica, è con il disco Storia di un impiegato (uscito nel ’73). Già nel gennaio ’72, al settimanale Oggi, Fabrizio confidava la sua intenzione di fare “un disco sull’anarchismo”, e di essere al lavoro da tempo “per incontrare quelle persone che l’anarchismo l’hanno vissuto da vicino”, precisando che il suo sarà “un discorso essenzialmente poetico e umano: anche se è chiaro che nella dinamica degli avvenimenti ci sarà della politica e della violenza perché gli anarchici non è che gettassero caramelle, gettavano bombe” . L’esito di tale percorso sarà appunto Storia di un impiegato, per cui è evidente che, in corso d’opera, il suo intento sarebbe virato, pur mantenendo alcune connotazioni di fondo. Con Storia di un impiegato, la critica è concorde al riguardo, si apre la seconda fase della produzione di De André (1973-1978), che segna una decisa svolta sul piano dell’elaborazione dei testi. Lasciata definitivamente alle spalle la stagione degli esordi artistici, fondata su due capisaldi spaziali e autoriali (la sua Genova e il suo Brassens), Faber, da un lato, mostra un’attenzione nuova al contesto sociopolitico dell’epoca; mentre dall’altro sembra acquisire una consapevolezza maggiore – e in certa misura definitiva – del valore della parola poetica in sé. Vengono abbandonati le immagini e i personaggi immediati dei primi dischi, sconfitti e/o turlupinati tout court dalla vita, per abbracciare una strada più complessa, venata da un certo gusto ermetico e visionario. In tal senso, l’impiegato protagonista dell’album, pur nelle sue contraddizioni del resto così umane, può essere visto come il primo spirito solitario, l’originaria anima salva, esempio di un’umanità finalmente risolta, guarita, liberata. In sintesi, se alla base dell’opera di De André si possono riconoscere due intenti opposti e complementari – un intento critico, decostruttivo e uno propositivo-costruttivo – a partire da Storia di un impiegato il secondo dei due elementi risulta acquisire un’importanza crescente: qui la critica sociale e la denuncia dell’insensatezza dei modi di vita borghesi lasciano gradualmente il posto alla proposta, peraltro sfumata e indiretta, di modelli altri di esistenza . Mentre la marginalità sociale, finora cantata con accenti poetici e persino nostalgici, assume ora un carattere più preciso in chiave economica e politica.

Anime salve

“Ricorda Signore questi servi disobbedienti/ alle leggi del branco/ non dimenticare il loro volto/ che dopo tanto sbandare/ è appena giusto che la fortuna li aiuti/ come una svista/ come un’anomalia/ come una distrazione/ come un dovere”: si chiudeva così, molti anni dopo Storia di un impiegato, con questi versi rubati allo scrittore colombiano Alvaro Mutis, il vasto canzoniere di Faber. Il brano, Smisurata preghiera, conclude infatti l’ultimo disco, da molti considerato il vertice della sua produzione, Anime salve. Difficile non pensare a una sorta di autoidentikit di un artista che, al di là delle sue stesse intenzioni, ha rivestito una diretta influenza teologica sulla cultura italiana dell’ultimo quarantennio. Il riferimento va oltre a quello, ovvio, di quell’autentico capolavoro che resta La buona novella, emblema di un’inquietudine generazionale alla ricerca delle ragioni di una ribellione interiore poetica e radicale, per allargarsi a tante canzoni disseminate di orme evangeliche, che ci consegnano una galleria inedita e memorabile di variopinti santi peccatori.
Prostitute e assassini, pescatori e musicisti, bevitori e bombaroli, nativi americani e zingari, tutte anime salve - appunto - in quanto perdute e rifiutate dal potere, esistenze riscattate dall’unica religione da lui coerentemente praticata, quella dell’umana compagnia e della solidarietà con gli esclusi.
L’anima salva, per De André, è l’individuo capace di attraversare il disagio per provare a somigliare a se stesso, senza cedere al conformismo o ricorrere all’uso della forza; risultando così pericoloso per il potere, perché funge da esempio di un altro modo d’intendere il mondo e le relazioni sociali.
Il potere, infatti, ha bisogno d’inquadrare gli uomini in un sistema di leggi, tenendoli nell’illusione di vivere nel migliore dei mondi possibili, come canta Faber in Un blasfemo (“È proprio qui sulla terra la mela proibita/ e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato/ ci costringe a sognare in un giardino incantato”). In tal modo gli esseri umani si omologano in una classe, quella piccola borghesia narrata in Canzone per l’estate (“Com’è che non riesci più a volare?”), indifferente al prossimo (“Lo sa che io ho perduto due figli?/ Signora, lei è una donna piuttosto distratta”, da Amico fragile), che vive perlopiù nella fobia degli altri e dei cambiamenti al suo rassicurante trantran (“Senza la mia paura mi fido poco”, in La bomba in testa). È illuminante, a proposito, quel che dice De André dà del suo penultimo disco, datato 1990: “Le nuvole [sono un’]allegoria del potere, di quei potenti che ci tolgono, metaforicamente, la luce del sole e gettano nell’ombra la nostra libertà, le nostre utopie e la nostra dignità” .
Come il potere incida sulle relazioni sociali e affettive, e quindi sulla sfera più intima e autentica dell’uomo, lo raccontano diversi episodi del canzoniere deandreiano, da Verranno a chiederti del nostro amore, dove il bombarolo in carcere scrive alla fidanzata: “Sono riusciti a cambiarci/ ci sono riusciti, lo sai”, a Se ti tagliassero a pezzetti, la cui protagonista si consegna ai riti del conformismo (“T’ho incrociata alla stazione/ che inseguivi il tuo profumo/ presa in trappola da un tailleur grigio fumo/ i giornali in una mano e nell’altra il tuo destino/ camminavi fianco a fianco al tuo assassino), a Dolcenera, che vede un innamorato eliminare gli impedimenti posti tra sé e l’oggetto del proprio desiderio: persino l’assenza dell’amata, bloccata da un’alluvione che sta flagellando Genova, immaginando così di farci l’amore. “Questo sogno paranoico – chiosa Faber – è del tutto simile a quello del tiranno che tende a rimuovere ogni ostacolo tra sé e il potere assoluto” .

Anarchia e cristianesimo

Per ribaltare il rapporto tra individui e società De André auspica il rifiuto delle ideologie assolutistiche come il socialismo, il capitalismo e lo Stato, e la nascita di “un’altra grande società di persone apparentemente emarginate che troveranno, attraverso il mutuo scambio gratuito, la maniera di sopravvivere dando luogo ad una maggiore crescita spirituale… L’uomo, spogliatosi delle pulsioni economiche, tornerà verso un mondo inevitabilmente più arcaico, ma andrà incontro a una sicura guarigione. Perché la vita non è poi così difficile da vivere, basterebbe non complicarla e riconnettersi con noi stessi. Non è fantasia, non è esoterismo: è saggezza” . Per dirla con il brano Anime salve: “Ti saluto dai paesi di domani/ che sono visioni di anime contadine/ in volo per il mondo”.
Il rifiuto dell’omologazione porta alla maturazione spirituale: non a caso per De André le radici di anarchia e cristianesimo sono comuni, tanto da trovare una connessione fra i due percorsi: “C’è chi è toccato dalla fede e chi si limita a coltivare la virtù della speranza… Il Dio in cui nutro speranza non ha mai suggerito ai suoi seguaci i sentimenti della calunnia, dell’odio, della vendetta… Il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive; un Dio che dovrebbe sostituirsi alla cosiddetta giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia, alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell’amore che donna riuscì mai a mettere al mondo” . Rileggendo queste parole, mi tornano in mente quelle scritte da don Antonio Balletto, il prete concittadino che ne celebrò i funerali, per il quale “non dimenticare De André ci aiuta a tirare avanti, a credere ancora all’uomo e al suo futuro. E ci aiuta a conservare un po’ d’umanità, in tempi che non sarebbero piaciuti per nulla a lui e che non piacciono neppure a noi”. Il che, a conti fatti, oggigiorno, vent’anni senza Faber, non appare davvero un esito dappoco.

1 Al quale il grande teologo Karl Rahner dedicò, mezzo secolo fa, un articolo ancor oggi illuminante sulla forza popolare della canzonetta… (K. RAHNER, “Una canzone da nulla”, in ID., La fede che ama la terra. Meditazioni per i cristiani impegnati nel mondo, Francavilla a Mare [CH], Paoline 1968, pp. 251-254).
2 L. BIANCO, “Ho imparato a cantare ma non mostrerò mai i denti come Massimo Ranieri”, in Oggi (gennaio 1972).
3 Cfr. F. PREMI, Fabrizio De André, un’ombra inquieta, Il Margine, Trento 2009, p.73.
4 C.G. ROMANA, Smisurate preghiere, Fazi, Roma 2005, p. 133
5 G. HARARI, a cura di, Fabrizio De André. Una goccia di splendore, Rizzoli, Milano 2007, p. 246




Ascolta l'intervista a Brunetto sul libro "La Bibbia di De Andrè"
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