Alessandro D’Avenia "Quali parole diventano destino? Lo decidiamo noi?"
Nel primo appello dell’anno 2024 ho invitato ciascuno dei miei studenti di quinta al consueto gioco di scegliere una parola per l’anno nuovo.
Bruce Chatwin racconta nel libro «In Patagonia» che il missionario anglicano Thomas Bridges per spiegare il vangelo agli aborigeni della Terra del Fuoco compilò un dizionario della lingua Yaghan, popolo di pescatori di quei fiordi. Si rese presto conto che mancavano i concetti astratti di cui aveva bisogno, perché in quella lingua tutto era concreto: la monotonia si indicava con l’assenza di amici maschi; la depressione con la fase vulnerabile del granchio che, perso il guscio, aspetta che cresca il nuovo; pigro deriva da un tipo di pinguino; adultero da un falchetto che svolazza qua e là per scagliarsi poi sulla vittima; il singhiozzo è un groviglio di alberi caduti; la vecchiaia è come le cozze (il loro cibo base) fuori stagione. Fu proprio Bridges a chiamarli «Yaghan» dal nome di un luogo, ma loro si riferivano a se stessi come Yámana che, come verbo, significa «vivere, respirare, essere felice, guarire o essere sano» e, come nome, «persone» in contrapposizione ad animali. Concludeva Chatwin, per spiegare l’assurdità di sottrarli ai luoghi natii: «le associazioni metaforiche che formavano il loro terreno mentale incatenavano gli indios alla loro terra natale con legami che non potevano essere spezzati. Un territorio della tribù, per quanto scomodo, era sempre un paradiso». Lingua e parole che usiamo ci ancorano a una terra simbolica che è la nostra patria. Come è la terra delle nostre parole? Che patria abbiamo? Mi è tornato in mente l’articolo in cui Lera Boroditsky, professoressa di scienze cognitive a Stanford, mostra come la lingua modella il pensiero: «Sono accanto a una bambina di cinque anni a Pormpuraaw, comunità aborigena nel nord dell’Australia. Quando le chiedo di indicare il nord lo fa con precisione e senza esitare: la mia bussola conferma. Tornata in un’aula alla Stanford University, faccio la stessa richiesta a un pubblico di eminenti studiosi: chiudere gli occhi e indicare il nord. Molti si rifiutano o non sanno rispondere. Coloro che lo fanno ci pensano a lungo e poi puntano il dito in tutte le direzioni possibili. Ho ripetuto l’esperimento a Harvard e Princeton, a Mosca, Londra e Pechino, ottenendo sempre lo stesso risultato. Una bambina di cinque anni in una cultura può fare con facilità ciò che eminenti scienziati faticano a fare in altre. È una gran differenza nelle abilità cognitive. Come si spiega?». La risposta sembra essere la lingua: «A differenza dell’inglese, la lingua parlata a Pormpuraaw non utilizza termini spaziali relativi come sinistra e destra. Ci si esprime in termini di punti cardinali assoluti (nord, sud, est, ovest). Anche in inglese li utilizziamo ma solo per scale spaziali più vaste. Non diremmo, ad esempio: ”Hanno messo le forchette per l’insalata a sudest di quelle da cena!”, ma in Kuuk Thaayorre i punti cardinali si usano in tutte le scale. Si dirà ”la tazza è a sudest del piatto»” o ”il ragazzo in piedi a sud di Mary è mio fratello”. A Pormpuraaw è necessario rimanere sempre orientati» (Scientific American, febbraio 2011).
Questo perché la comunità abita in un territorio dove perdersi è fatale e bisogna sapersi orientare in ogni istante e circostanza. Fuor di metafora, le parole che usiamo ci permettono di abitare il mondo e orientarci nella vita? Già anni fa Italo Calvino si scagliava contro l’anti-lingua, che non dice le cose con precisione rifugiandosi in perifrasi e approssimazioni che rendono le parole prive di energia e sostanza (avete presente il politichese, o quello che chiamo il «temese»: quando allungavamo i temi per fingere di aver qualcosa da dire?). Scriveva in «Esattezza»: «Mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze... la letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio» (Lezioni americane). Più abbiamo parole precise più mondo vediamo e meno siamo manipolabili. Credo sia fondamentale allenare l’uso preciso e concreto della parola, ed è quello che chiedo ai ragazzi nella scelta di quella annuale: ne va del loro destino. Ecco alcune delle loro parole: vivere non sopravvivere, resilienza, ambizione, squilibrio, mietitura, fioritura, accettazione, evoluzione, luce, spensieratezza, fuori, paraocchi, avocado... Sono sicuro che quelle che incuriosiscono di più sono le più concrete, per questo ho usato la più strana per titolare l’articolo! Io ho scelto «creazione» che, in una mia personale lingua Yagan, suonerebbe «fare come le api, nutrirsi da buone fonti per fare un buon miele» e se parlassi la lingua di Pormpuraaw starebbe a est, dove sorge il Sole. Avendo sperimentato che nella mia vita c’è tanta gioia quanta creazione, spero che questa sia la parola a incarnarsi, portandone con sé altre come studio, silenzio, pazienza, meraviglia, ascolto, verità, attenzione, cura, bellezza... proteggendomi da altre ancora come fretta, rumore, approssimazione, pigrizia, invidia, distrazione... E voi a che parola/e vi affidate? Potremmo dedicare qualche minuto a scegliere le cinque più significative e ripeterle ad alta voce. Quella sarà la nostra patria, la nostra bussola, la nostra carne.
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