Clicca

Aggiungici su FacebookSegui il profilo InstagramSegui il Canale di YoutubeSeguici su Twitter   Novità su Instagram

Lidia Maggi "La stanza di Nazaret"

stampa la pagina
organo di informazione delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia
22 dicembre 2023

Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città di Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine fidanzata a un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide; e il nome della vergine era Maria. L’angelo, entrato da lei, disse: «Ti saluto, o favorita dalla grazia; il Signore è con te» (Lc1,26-28)

 

La stanza di Nazaret è un covo di rivoluzionari, anzi di rivoluzionarie, visto che è la stanza di una donna. La stanza tutta per sé, nella quale Maria sperimenta l’irruzione di Dio, non ha nulla della cella, dei nostri luoghi intimi, al riparo dal mondo. Quella stanza è un rifugio per viaggiatrici e viaggiatori. Riparo momentaneo per rimettersi in cammino. Con decisione, “in tutta fretta”. Da quella stanza partono i camminatori e camminatrici che affrontano le montagne, che non temono le fatiche delle vette, la rarefazione dell’aria delle cime, che non hanno nostalgia del tepore domestico. 

In quella stanza si parte da sé ma per andare oltre sé. C’è tutto, in quella stanza: il cielo e la terra, la voce divina e le urgenze umane, la mappa del viaggio e le scarpe per compierlo. 

Quella stanza è un’aula scolastica, dove si apprende a sentire in grande. A puntare in alto. Fino a scorgere la presenza di Dio nel ventre di un’altra donna. Fino a scorgerla in una storia che ne proclama l’assenza, la morte. Quelle parole di esultanza, che ancora oggi ripetiamo stupiti – «l’anima mia magnifica il Signore» – Maria le ha dette in casa di Elisabetta, dopo essere stata riconosciuta dalla parente come una donna abitata dal divino. 

Ma la grammatica di quel discorso l’ha appresa nella stanza di Nazaret, in quella sperduta classe. 

Perché non s’improvvisa quel “sentire in grande” che consente non di osservare la realtà, come notai che prendono atto dell’esistente, ma di “magnificarla”, di guardarla con gli occhiali della “realtà aumentata”, che ne mostrano le radici e i frutti, lo Spirito e il mondo nuovo, corrispondente al sogno di Dio. A Nazaret, come in ogni villaggio della terra, gli umili non sono oggetto di sguardi particolari, a differenza dei superbi. A Nazaret vige l’ordine consueto del mondo, di chi è al potere. 

Eppure in quella stanza si possono coltivare sogni sovversivi, sostenuti da una fede incapace di restare chiusa nei luoghi dell’anima. 

C’è un cielo in quella stanza; c’è un oltre che non consente l’autocompiacersi o l’autocommiserarsi. 

In quella stanza ascoltiamo una Parola che mette in cammino, prestiamo ascolto ad una storia che domanda di essere abitata e non soltanto conosciuta. 

Nella stanza di Nazaret si apprende l’arte del farsi prossime, dell’andare in fretta, superando pur ragionevoli remore. Si impara l’arte del fare visita e, insieme al bisogno che domanda gesti di cura, si matura quel difficile saper riconoscere la generatività delle situazioni giudicate insignificanti, quelle che non forano gli schermi e non portano prestigio a chi le frequenta. Nella stanza di Nazaret ci si educa a essere “piene di grazia”: quella divina, certo, che domanda di riconoscere la presenza di Dio nei suoi doni gratuiti, immeritati; ma anche la nostra, per quanto povera e insufficiente, una grazia che fa muovere pensieri e passi senza il calcolo dei risultati, con l’unico desiderio di far fiorire le vite donando gratuitamente. 

La stanza del parto. Come con le matriarche sterili di Israele, di nuovo Dio interviene a rendere feconda una storia bloccata, priva di futuro. La stanza di Nazaret è la stanza del parto, luogo generativo, che rimette in moto la storia della salvezza. Quel parto che l’evangelista narra a Betlemme è già qui, a Nazaret, in un presente che anticipa il futuro, che lo annuncia “già” avvenuto, come quei verbi del Magnificat, dove il “non ancora” del Regno di Dio, che mette sottosopra la storia dei potenti, sono espressi nella lingua del “già”. È paradossale lo sguardo evangelico: nel buio della storia intravvede la luminosità del Regno; nel chiuso di una stanza allarga l’orizzonte al mondo intero. Sguardo di mistiche dagli occhi aperti, di casalinghe che governano il mondo a cui Dio rivela il suo sogno. 

Con Maria, Dio ha cambiato indirizzo. Ha lasciato il tempio muto per dialogare con una piccola, una tapina, una ragazzina di Nazaret, alla periferia dell’impero, lontano dal centro della vita religiosa di Israele. 

E da quella stanza prende piede un altro modo di abitare la terra. L’evangelo del Natale, presenza di un Dio che si fa trovare, povero tra i poveri, è già anticipato in quella stanza, nel buio di una storia che, nonostante tutto, risulta feconda, nella quale i frutti del grembo possono esultare di gioia e riaprire il futuro. 


nel grembo si era fatto spazio 

La voce del messaggero era arrivata insieme a un colpo d’aria. Mi ero alzata per chiudere le imposte e appena in piedi sono stata coperta da un vento, da una polvere celeste, da chiudere gli occhi. Il vento di marzo in Galilea viene da nord, dai monti del Libano e dal Golan. Porta bel tempo, fa sbattere le porte e gonfia la stuoia degli ingressi, che sembra incinta. In braccio a quel vento la voce e la figura di un uomo stavano davanti a me. Nella nostra storia sacra gli angeli hanno un normale corpo umano, non li distingui. Si sa che sono loro quando se ne vanno. Lasciano un dono e pure una mancanza. Neanche Abramo li ha riconosciuti alle querce di Mamre, li ha presi per viandanti. Lasciano parole che sono semi, trasformano un corpo di donna in zolla di terra. Ero in piedi e l’ho visto contro luce davanti alla finestra. Ho abbassato gli occhi che avevo riaperto. Sono sposa promessa e non devo guardare in faccia gli uomini. Le sue prime parole sul mio spavento sono state: “Shalòm Miriàm”, quelle con cui Iosef si era rivolto a me nel giorno del fidanzamento. Shalòm lekhà, avevo risposto allora. Ma oggi no, oggi non ho potuto staccare una sillaba dal labbro. Sono rimasta muta. Era tutta l’accoglienza che gli serviva, mi ha annunciato il figlio. Destinato a grandi cose, a salvezze, ma ho badato poco alle promesse. In corpo, nel mio grembo si era fatto spazio. Una piccola anfora di argilla ancora fresca si è posata nell’incavo del ventre. 

(Erri De Luca, In nome della madre, Feltrinelli, 2019)


«Ti è piaciuto questo articolo? Per non perderti i prossimi iscriviti alla newsletter»
stampa la pagina


Gli ultimi 20 articoli