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Solitudine e disagio del prete: un problema strutturale?

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                                              Giovanni Cucci 
17 Giugno 2023 
QUADERNO 4152 
pag. 535 - 548 Volume II 

Solitudine o solitudini? 

La solitudine non è di per sé un male. Essa infatti mostra la verità dell’essere umano come creatura bisognosa di Assoluto; la sofferenza che questo comporta, se accolta come la verità di sé stessi e non come una maledizione, può consentire di vivere relazioni solide e profonde: anzitutto la relazione con il Signore, perché si è giunti a riconoscere che senza di Lui la vita diventa insopportabile e senza senso.

C’è infatti una dimensione di solitudine in ogni stato di vita, come ben sanno le persone sposate, un vuoto ontologico, che niente e nessuno può colmare; questa impossibilità, qualora non venga accettata, può portare a investimenti illusori sull’altro, a pretese irrealizzabili e al fallimento della relazione. È significativo che la crisi del celibato e la crisi del matrimonio siano comparse insieme.

La solitudine mette a disagio quando trova la persona distante dal suo io più profondo, priva di relazioni significative, perdendosi nelle cose da fare, nel pettegolezzo del momento, nel vizio…, sperando che questo possa riempire il vuoto che tormenta. Tutto ciò vale anche per chi, come il presbitero, è chiamato a una vita di celibato. La solitudine presenta aspetti molteplici, che possono renderla desiderata o temuta. Da qui l’importanza di capire come e quando essa, da condizione di verità, possa diventare tossica.

Alcuni cambiamenti epocali

Vi sono anzitutto motivi strutturali: la rarefazione dei punti di riferimento, dei possibili luoghi e tempi di ristoro, l’assottigliamento e invecchiamento delle comunità.

Papa Francesco, in occasione di un discorso alla Curia, ha detto che siamo in una situazione di post-cristianità, di cui forse non si è ancora sufficientemente preso consapevolezza: «Non siamo nella cristianità, non più! […]. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata».

Alla dissoluzione del tessuto sociale si accompagna la mancanza di figure adulte di riferimento e un senso di isolamento accentuato dalla recente pandemia di Covid-19. Da qui una aumentata fragilità nelle persone, a tutti i livelli. Un altro motivo strutturale alla base del disagio è la crescente burocratizzazione e complessità della vita.

A tutto questo si aggiunge la rivoluzione digitale e l’avvento dei social network, soprattutto per le giovani generazioni, dove all’abilità nell’utilizzo delle nuove tecnologie spesso non corrisponde un adeguato senso critico, specialmente quando si vorrebbe cercare in esse un rimedio alla solitudine. Internet infatti, insieme all’offerta di possibilità enormi, a vari livelli – informazioni, dati, velocità di contatto e indubbie opportunità pastorali –, ripropone problematiche antiche del mondo offline (solitudine, mancanza di senso, sofferenza, depressione), ma su scala qualitativamente differente.

E così, come nel racconto La metamorfosi di Kafka, anche per il prete può accadere di svegliarsi un giorno e scoprire di essere diventato qualcosa di completamente diverso da come si era immaginato: un operatore sociale, un erogatore di servizi e beni materiali di vario genere, o vittima di derive che ha studiato sui libri di teologia, ma da cui non ha saputo proteggersi. Con esiti anche tragici.

Alcuni dati

Da qualche tempo si assiste a un impressionante aumento dei suicidi fra i sacerdoti in Brasile. Nel corso dell’anno 2018 si sono tolti la vita 17 presbiteri e altri 10 nel 2021.

Già nel 2008 una ricerca realizzata dall’organizzazione Isma Brasil, raccogliendo le interviste a 1.600 sacerdoti, religiosi e religiose, aveva notato che la principale causa di stress della vita religiosa era l’assenza di privacy, di tempi e spazi adeguati per la cura di sé. Anche la Conferenza episcopale del Brasile ha avviato delle indagini.

Gli esperti consultati indicano l’eccesso di lavorola mancanza di svago, la solitudine e la perdita di motivazione tra i possibili fattori che portano alcuni religiosi al suicidio. E anche l’accusa di abusi. Dai colloqui svolti emerge però che il problema più comune è la depressione: «Un sacerdote giovane in un Paese come il Brasile, in cui può trovarsi di fronte a molto – troppo – lavoro pastorale, può arrivare a un atteggiamento diciamo iper-responsabile, che sfocia facilmente nell’attivismo, che a sua volta si trasforma in stress, e questo in ansia e depressione. E spesso è solo e non sa curarsi».

La mancanza di privacy sembra essere una delle caratteristiche più diffuse del disagio dei preti. In Francia, il 25 novembre 2020 è stata presentata una ricerca finanziata dalla Conferenza episcopale francese (Cef) e dalla Mutualità Saint Martin sulla salute dei 6.400 preti diocesani con meno di 75 anni di età che lavorano nelle 105 diocesi.

L’ultima ricerca risaliva agli anni Ottanta, anche se questa è la prima volta che si realizza uno studio di questo tipo in Francia. L’adesione è stata notevole: più del 50% ha risposto (3.593), segno che la ricerca è stata vista dai preti come un motivo di interessamento da parte dei vescovi.

La gran parte dei preti (70%) opera in città, e il rimanente (30%) in ambito rurale, il che comporta un carico di lavoro molto diverso. Il 14% ha una chiesa o cappellania da officiare; il 40% almeno cinque; il 20% più di 20; il 7,5% arriva a 40. La media del lavoro è di 9,4 ore al giorno, ma il 25% dei preti, per essere presenti nei vari luoghi, deve fare 1.200 chilometri al mese; un altro 17% ne fa tra i 2.000 e i 5.000. Uno di loro confessava di non essere il pastore con l’odore delle pecore, ma con l’odore di benzina… Per molti non ci sono giorni di riposo. Anche se la situazione non è drammatica come in Brasile, in Francia ci sono stati sette suicidi di preti nel corso di quattro anni.

Ma emerge soprattutto una situazione di isolamento. Il 54% dei preti è solo, anche se può avere qualche aiuto per la casa o la chiesa. Il 20% manifesta sintomi depressivi, contro il 15% tra coloro che vivono in una comunità sacerdotale. Il 9% ha una depressione moderata, e il 3% da moderatamente severa a severa; il che significa un numero di 240 preti. Nei 2/3 dei casi i presbiteri affermano di partecipare a gruppi di sostegno e di farsi accompagnare dal punto di vista spirituale. Forte è l’aiuto percepito da parte di amici e parenti, un po’ meno da parte della gerarchia.

Alla domanda generale su come si sentono, la stragrande maggioranza risponde «bene» o «abbastanza bene» (93,3%), eppure il 40% avverte un basso grado di realizzazione personale e malessere rispetto alla gerarchia ecclesiastica, spesso per problemi di tipo gestionale; due preti su cinque hanno problemi di alcolismo e l’8% è dipendente. Tuttavia, ciò che più preoccupa i vescovi è che il 2% dei loro preti soffre gravemente di burnout: il 7% avverte «affaticamento in forma elevata» e il 76% debolmente; solo il 15% ne sembra esente.

E l’Italia?

Anche nel nostro Paese sono stati compiuti studi sul disagio tra i preti. Una ricerca condotta nel 2005 a Padova (una delle diocesi dove i preti sono più numerosi, 806 al momento della ricerca) mostra risultati molto simili a quanto rilevato in Francia.

Dalle interviste emergono 2 gruppi numerosi (124 preti ciascuno) antitetici: per il primo gruppo «va tutto bene», mentre il secondo si sente «bruciato», con alti livelli di depressione, mancanza di coinvolgimento e bassa realizzazione personale. Ci sono altre categorie, meno numerose ma che avvertono una situazione abbastanza simile a quella dei «bruciati».

La coabitazione con altri preti non sembra influire sulla situazione. Sia il gruppo di preti soddisfatti sia gran parte di quelli scontenti (58%) vivono soli, e vive con altri sacerdoti gran parte di coloro che hanno un ritmo pastorale intenso, ma sperimentato con sofferenza. Per quanto riguarda l’età, le fasce più a rischio sono quelle dei più giovani (meno di 30 anni) e dei più anziani (oltre i 70 anni); per i primi gioca forse la scarsa esperienza e un’affettività fragile; per i secondi la difficoltà a invecchiare, a lasciare incarichi e ruoli che in qualche modo conferivano loro una identità sacerdotale.

Un grado di istruzione superiore – dottorato, vita universitaria – sembra fornire una maggiore protezione nei confronti delle problematiche della vita, incrementa gli interessi e la curiosità di conoscere. Il senso di realizzazione personale caratterizza soprattutto coloro che esercitano un ministero incentrato sull’aiuto e sull’ascolto, come i cappellani di ospedali, i confessori e gli assistenti di seminario.

Leggi l'articolo completo su La Civiltà Cattolica 

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