Il biblista Jean Louis Ska, mostra che, a differenza dei popoli vicini, Israele sopravvive all’esilio trovando la sua identità non nella monarchia, ma nell’autorità e la responsabilità collettive: la consacrazione sacerdotale è del popolo tutto. La Chiesa primitiva eredita questa tendenza democratica alla decisione “sinodale” e comunitaria.
Nel mondo antico, e quindi anche nell’antico Israele, tutti i poteri erano nelle mani del re: il potere legislativo, amministrativo, giuridico, esecutivo, militare, e persino religioso. Il re prende tutte le decisioni importanti, promulga le leggi, è il giudice supremo e anche il sommo sacerdote. Il paese è in realtà di sua proprietà. Come diceva Luigi XIV, re di Francia: “Lo Stato sono io”.
Davide è capo dell’esercito - anche quando delega il comando a Gioab -, Salomone è famoso per il suo giudizio (1Re 3,16-28), ed è lui che consacra il tempio e offre sacrifici, non un sommo sacerdote (1Re 8,1-66). La legge è proclamata dal re Giosia, anche se è la legge di Mosè, ed è lui che conclude l’alleanza fra Dio e tutto il popolo (2Re 23,1-3). La felicità e la prosperità del paese dipendono quasi interamente dal re.
Vi è tuttavia un altro lato della medaglia, ossia che il re è altrettanto responsabile di tutte le disgrazie che colpiscono il paese: le sconfitte militari, le crisi economiche, anche le catastrofi naturali, ad esempio le carestie. Il re Acab è ritenuto responsabile della siccità che dura tre anni al tempo di Elia (1Re 17,1; 18,18). In termini più teologici, se il re ha il favore divino, tutto il paese ne beneficia. Al contrario, se il re cade in disgrazia, tutto il paese ne paga le conseguenze.
Sappiamo che la storia d’Israele finisce male. Il regno del Nord e il regno del Sud sono entrambi scomparsi, il primo conquistato dagli Assiri nel 722 a.C. e il secondo conquistato dai Babilonesi nel 586 a.C. Secondo la teologia deuteronomistica dei libri dei Re - e il ragionamento non fa o non dovrebbe fare una piega – la colpa è, in primo luogo, colpa dei re. Sorge allora un serio problema: se l’esistenza del paese dipende in tal modo dal re, qual è il futuro del popolo dopo la scomparsa della monarchia? Come sappiamo, “Israele”, il popolo eletto, è sopravvissuto all’esilio e alla deportazione. La sua esistenza, quindi, non dipendeva totalmente dall’istituzione della monarchia. Il popolo in esilio è riuscito a trovare nella sua tradizione abbastanza risorse per ricostruire una sua identità senza la monarchia. Dove sono gli elementi che hanno permesso al popolo della Bibbia di sopravvivere senza il canale privilegiato della benedizione fra Dio e il popolo?
Un primo elemento proviene da alcune istituzioni tradizionali, più antiche della monarchia e che non sono sparite con essa. Si tratta, in primo luogo, dell’istituzione degli anziani, istituzione presente in tutte le società conosciute e quindi anche in Israele. Gli anziani sono i capifamiglia o i capostipiti che si radunano per discutere i problemi del piccolo gruppo, del villaggio o della comunità, e prendono insieme le decisioni rese necessarie dalle circostanze: la sopravvivenza del gruppo, i conflitti interni, i conflitti con altri gruppi. L’etnologia ci ha fatto conoscere tale istituzione e il suo funzionamento in diverse parti del mondo.
Ritroviamo gli anziani sin dall’inizio della storia d’Israele. Ad esempio, quando Dio chiama Mosè e gli affida la missione di liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù in Egitto, lo manda per primo agli anziani d’Israele per comunicarli il suo piano di salvezza (Es 3,16). Per questo testo, va da sé che esistesse, sin dai tempi più antichi, un’istituzione di “anziani” in Israele.
Sappiamo poco sulla sua struttura e le sue funzioni, però rimane vero che, per il libro dell’Esodo, gli anziani devono essere informati di ogni decisione importante sulla sorte del popolo.
Per prendere un altro esempio, sono gli anziani d’Israele che prendono l’iniziativa di chiedere a Samuele di istituire la monarchia (1Sam 8,4). Gli anziani d’Israele propongono in seguito la regalità a Davide e lo ungono come re a Ebron (2Sam 5,3). Notiamo che, secondo 2Sam 2,4, sono “gli uomini di Giuda” che ungono Davide sulla “casa di Giuda”. Non si parla degli anziani di Giuda (si veda però 2Sam 19,12). Per alcuni, “gli uomini di Giuda” è un sinonimo degli anziani di Giuda. In ogni modo, si intuisce che la monarchia - secondo questi testi - è stata introdotta dagli anziani, almeno nel Nord. Esiste quindi una sorta di precedenza dell’istituzione degli anziani sulla monarchia. Non sorprende, allora, che la stessa istituzione possa anche sopravvivere alla stessa monarchia.
Un’altra istituzione antica, in Israele così come in altre società simili, è una forma di sacerdozio. Conosciamo il sacerdote Eli legato al santuario di Silo (1Sam 1,3.12-18; 3,1; 4,1; 4,12-18). Nella storia di Davide appaiono diversi sacerdoti, ad esempio Achimèlec, sacerdote di un santuario di Nob (1 Sam 21,2); Ebiatàr, figlio di Achimèlec (1Sam 22,20) che accompagnerà Davide per lungo tempo; il sacerdote Sadoc, che sembra legato alla città di Gerusalemme e all’arca (2Sam 15,24.27.29.35; 17,15 e 19,12 - con Ebiatàr). Lo stesso Sadoc interverrà nella successione di Davide (1Re 1,38-39.44-45) e Salomone lo nominerà sacerdote del suo regno al posto di Ebiatàr (1Re 2,35). Anche in questo caso possiamo indovinare che esiste un’istituzione antica, e più antica della monarchia, un sacerdozio legato a santuari locali quali Silo, Nob e Gerusalemme.
Nell’Antico Testamento, il sacerdozio è legato alla figura di Aronne, fratello di Mosè (cf. Es 4,14-16.27-31). Non stupisce, perciò, di ritrovare Aronne implicato sin dall’inizio nella missione di Mosè, e con gli anziani d’Israele. In effetti, quando Mosè torna in Egitto, incontra suo fratello Aronne e, con Aronne, raduna gli anziani d’Israele (Es 4,29). Il sacerdozio e gli anziani sono associati sin dai primi momenti alla missione di Mosè e, pertanto, all’esodo e alla nascita del popolo d’Israele come popolo libero.
Possiamo trarre una prima conclusione dalla nostra indagine: l’istituzione degli anziani, così come quella del sacerdozio, appaino già agli inizi della storia d’Israele, e possiamo considerarle entrambe come più antiche della monarchia.
In un secondo passo, vorrei mostrare che le ritroviamo entrambi dopo la scomparsa della monarchia. Alcuni testi basteranno a dimostrare la bontà di tale affermazione. In esilio, in Babilonia, e dunque dopo la fine della monarchia, il profeta Ezechiele si rivolge più volte agli anziani (Ez 14,1; 20,1.3). Nel libro di Ezra, fra i primi esuli che tornano a Gerusalemme, troviamo “capi di famiglie di Giuda e di Beniamino”, un sinonimo di “anziani”, e un gruppo di “sacerdoti e leviti” (Ezra 1,5; cf. 2,68.70).
La prova più convincente, tuttavia, viene dal Nuovo Testamento. Il sinedrio, la più alta istanza giuridica della comunità ebraica nel Nuovo Testamento, è composto da diversi gruppi, gli anziani e i sacerdoti, con gli scribi (Mt 26,57.59; 27,1; Mc 14,53; 15,1; Lc 22,66). Non conosciamo quale fosse la composizione esatta del Sinedrio, però possiamo notare la presenza dei due gruppi importanti, i sacerdoti e gli anziani. Si tratta di un’assemblea, ed è l’elemento importante per la nostra discussione, composta da sacerdoti e da anziani, vale a dire laici, oltre agli scribi, membri di una classe di esperti nel campo giuridico. Alcuni membri lo sono in virtù del loro statuto o della loro nascita, ossia i sacerdoti e gli anziani, e altri in virtù della loro competenza, ossia gli scribi.
Di solito, nel mondo antico, si cerca di giustificare istituzioni recenti facendole risalire a un’epoca antica. Abbiamo già visto che anziani e sacerdoti sono presenti nei racconti sull’origine del popolo d’Israele come popolo di Dio nei primi capitoli del libro dell’Esodo. Sono anche presenti agli inizi della monarchia. Esistono, inoltre, due testi importanti che fanno degli anziani e dei sacerdoti i legittimi eredi e rappresentanti di Mosè.
Nel primo testo si trova una sezione fondamentale dell’Esodo, la teofania del Sinai. Si tratta di Es 24,9-11 ove si descrive una scena di investitura. Dopo la promulgazione della legge e la conclusione dell’alleanza fra Dio e il suo popolo (Es 24,3-8), alcune persone salgono sulla montagna sotto la guida di Mosè: Aronne, suo fratello e due dei suoi figli, Nadab e Abiu, e sessanta fra gli anziani d’Israele (cf. 24,1-2.11). Il passo descrive una visione e un pasto, due elementi simbolici essenziali nel rituale di investitura nel mondo biblico.
Secondo Es 24,10-11, “Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di zaffìro, limpido come il cielo. Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e poi mangiarono e bevvero”.
Vedere Dio e poter mangiare in sua presenza significa essere ben accetti da Dio, far parte della sua cerchia più vicina e, quindi, godere di una autorità stabile. Ricordiamo, ad esempio, che il re di Giuda, Ioiachin, che era in esilio a Babilonia, fu graziato e “mangiò sempre alla tavola del re” babilonese (2Re 25,27/30). Oppure, nel Nuovo Testamento, i discepoli che hanno mangiato e bevuto con il risorto possono essere i legittimi testimoni degli eventi della salvezza (Atti 10,41). La visione e il pasto di Es 24,10-11 hanno quindi una funzione ben precisa: legittimare l’autorità degli anziani e dei sacerdoti agli occhi di tutto il popolo - e dei lettori del libro dell’Esodo.
Notiamo un particolare essenziale, tuttavia: fra le istituzioni presenti nella scena sulla cima del monte Sinai manca la monarchia. Abbiamo un’assemblea, non abbiamo alcun monarca. L’autorità è collettiva, non è individuale o personale.
Un altro testo permette di suffragare quanto scoperto finora: Numeri 11.
Il racconto, abbastanza lungo, contiene due episodi intrecciati. Nell’episodio principale si narra una delle tante lamentele del popolo che ha fame e vorrebbe un cibo diverso dalla manna. Dio acconsente alla richiesta del popolo e manda enormi quantità di quaglie. Molti, però, ne mangiano troppo e muoiono. L’altro filo narrativo ci interessa di più: Mosè si lagna perché la responsabilità di tutto il popolo è troppo pesante e “non ce la fa più”.
Dio risponde in modo inaspettato: sceglie settanta fra gli anziani del popolo e impartisce loro parte dello spirito di Mosè (Nm 11,24-25). Nuovamente, si tratta di una scena che ratifica l’autorità dell’istituzione degli anziani - settanta per essere preciso - poiché sono animati dallo spirito di Mosè. In altre parole, se si vuol cercare un erede di Mosè nel popolo d’Israele, occorre rivolgersi a un’assemblea e non a un individuo. Mosè non fonda alcuna dinastia, non ha alcun vero successore. Gli succede invece una collettività, l’assemblea dei settanta anziani. Chiaramente, i testi del Pentateuco preparano e convalidano un’organizzazione che permette di fare a meno della monarchia e si tratta di un’autorità collegiale.
Una breve scena susseguente al nostro racconto permette di aggiungere una sfumatura importante a quanto precede (Nm 11,26-30). Due persone, che non facevano parte del gruppo dei settanta anziani scelti, sembrano aver ricevuto parte dello spirito di Mosè perché profetizzano nel campo. Giosuè, aiutante di Mosè, vuol porre fine alla faccenda. Mosè, invece, reagisce in senso opposto: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!” (Nm 11,29).
Il brano si presta probabilmente a più di una interpretazione. Mi sembra, tuttavia, che lo spirito abbia come prima funzione, in questo brano, di confermare l’autorità e l’incarico di un gruppo di persone che deve aiutare Mosè nel guidare il popolo. Mosè, quindi, si augura che tutti siano responsabili e capaci di prendere le decisioni giuste nel momento giusto. Concretamente, ciò significa che tutti sanno come comportarsi individualmente e collettivamente. È ovviamente un ideale, forse irraggiungibile, però rimane vero che il dovere di ogni membro del popolo sia proprio di camminare sulle vie che conducono a una tale responsabilità personale e collettiva.
Arriviamo a conclusioni simili se interroghiamo altri testi collocati in posti strategici del nostro Antico Testamento. All’inizio della lunga sezione del Sinai (Esodo 19-24), Dio fa una proposta al popolo: se quest’ultimo ascolta la sua voce e custodisce la sua alleanza, sarà per lui “una proprietà particolare [...], un regno sacerdotale e una nazione santa” (Es 19,5-6).
“Proprietà particolare” è un termine che designa il demanio personale del sovrano, contraddistinto dal resto del suo regno. Israele avrà quindi uno statuto che lo distingue dal resto delle nazioni. “Regno sacerdotale” è un’espressione che è stata molto discussa. In poche parole, e sulla base di alcuni paralleli (cf. Is 61,6), possiamo dire che occorre interpretare insieme i due termini, “regno sacerdotale” e “nazione santa”. Secondo questo parallelismo, tutto il popolo d’Israele diventerà una “nazione sacerdotale”, vale a dire che tutto il popolo sarà al servizio esclusivo del suo Signore. Così come i sacerdoti sono al servizio della divinità nel tempio per tutto il resto del popolo, Israele sarà scelta fra tutti i popoli per essere al servizio del suo Signore, che è anche Signore di tutte le nazioni. Notiamo, per il nostro scopo, che la dignità sacerdotale è di tutti, non solo di una frazione del popolo.
La consacrazione sacerdotale del popolo avrà luogo durante la scena della conclusione dell’alleanza in Es 24,3-8. Fra i diversi rituali di una scena molto densa, Mosè fa sacrificare tori, raccoglie il sangue in catini, versa una metà sull’altare che rappresenta Dio, legge il libro ove ha consegnato tutti i precetti della legge e, quando il popolo ha promesso di osservare tutte le parole della legge, lo asperge con la seconda metà del sangue. Si tratta chiaramente di un rito di consacrazione e, in questo momento, tutto il popolo diventa un popolo sacerdotale.
Inoltre, ed è l’elemento da evidenziare nella nostra discussione, tutto il popolo, senza distinzione, entra nell’alleanza e accetta di osservare la legge di Dio proclamata da Mosè (Es 24,7-8). La legge entra in vigore dopo il consenso del popolo, e non prima. Di nuovo, non si parla del re, benché la legge, nel Vicino Oriente antico, sia sempre proclamata dal re. Nel caso d’Israele, la legge è proclamata da Dio in persona, trasmessa da Mosè e accettata da tutto il popolo. Siamo in una dinamica democratica ante litteram. Ciò significa, concretamente, che tutti sono responsabili dell’osservanza della legge e, quindi, del bene comune. I primi responsabili dell’andamento giusto delle cose non sono i dirigenti o una classe della popolazione. Il popolo intero è responsabile del suo destino di fronte al suo Dio. Le sue istituzioni avranno come scopo di mettere in atto questa responsabilità collettiva.
Possiamo chiederci, a questo punto, come conciliare la struttura di stampo molto democratico del popolo d’Israele dopo l’esilio, con l’idea di messianismo. Il popolo aspettava un restauro della monarchia di Davide? E il Nuovo Testamento non proclama la venuta del Figlio di Davide, Gesù di Nazareth? Riappare, nella Chiesa primitiva, una struttura verticale e un potere personale? Vi sono alcune ragioni per pensare che non sia così. Al contrario, la Chiesa primitiva ha ereditato dalla tradizione una tendenza democratica già presente nell’Antico Testamento.
Troviamo conferma di tale idea nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli.
Ad esempio, Gesù di Nazaret, figlio di Davide e Messia, afferma chiaramente: “Non sono venuto per essere servito, bensì per servire” (Mc 10,45 e paralleli). Leggiamo inoltre nel Vangelo di Luca un passo molto significativo: “Fra di loro nacque anche una contesa: chi di essi fosse considerato il più grande. Ma egli disse loro: «I re delle nazioni le signoreggiano, e quelli che le sottomettono al loro dominio sono chiamati benefattori. Ma per voi non dev’essere così; anzi il più grande tra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve. Perché, chi è più grande, colui che è a tavola oppure colui che serve? Non è forse colui che è a tavola? Ma io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,24-27). “Fra di voi non sarà così”: chiaramente, autorità e potere all’interno della comunità cristiana sono vissuti in un modo nuovo.
Per questo motivo, negli Atti degli Apostoli, le grandi decisioni sono prese non da un capo al di sopra di tutti, che sia Pietro o Paolo. Sono sempre il frutto di un dialogo, di una concertazione e di una decisione comunitaria. Ad esempio, dopo la discussione sull’opportunità di imporre la circoncisione e l’osservanza di tutta la legge ai cristiani di origine nonebraica, la decisione finale è di tutta la comunità. Alcune espressioni del capitolo rivelano lo spirito della prima Chiesa. Nessun riferimento a un capo, bensì a tutta la comunità: “Allora parve bene agli apostoli e agli anziani con tutta la Chiesa [...]” (15,22); “i fratelli apostoli e anziani [...]” (15,23); “È parso bene a noi, riuniti di comune accordo [...]” (15,25). La grave decisione di integrare non-ebrei nella comunità cristiana senza imporre a loro di diventare prima ebrei avrà conseguenze incredibili sull’avvenire del cristianesimo. La decisione, tuttavia, è una decisione “sinodale” e comunitaria. Vi sono diverse forme di organizzazione e di organi decisionali nel libro degli Atti. Vale la pena, tuttavia, notare che la decisione è collegiale quando si tratta di un problema che riguarda tutta la comunitàecclesiale e il suo futuro. La cosa avrà anche un valore paradigmatico per la nostra Chiesa odierna?