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Cettina Militello "L’esclusione delle donne in una Chiesa clericale"

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Cettina Militello, teologa e filosofa, mostra la relazione tra l’assetto delle Chiese clericale e sessista, e il rifiuto del protagonismo profetico e ministeriale delle donne nelle prime comunità. Si contrappongono uomini/donne e chierici/laici.
Sinodalità è vuota parola se non si torna alla famiglia dei discepoli.

La cospicua ricerca delle donne, ma non soltanto, essendosi moltiplicati in numero e in qualità gli approcci socio-antropologici alla comunità gesuanica
e poi alle comunità delle origini, ci consente, secondo la felicissima espressione di Elisabeth Schüssler Fiorenza, di ipotizzare un “discepolato di eguali”. La stessa Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II ha dovuto far tesoro di queste ricerche, pur mantenendo intatte non poche e dirimenti pregiudiziali relative al ruolo delle donne nella Chiesa.
Davvero per troppo tempo si è minimizzata la presenza delle donne al seguito di Gesù. E d’altra parte, non a caso, a commento del suo incontro con la donna samaritana, l’autore annota che i discepoli “si meravigliavano che parlasse con una donna” (Gv 4,27). Il che è spia del pregiudizio sessista neppur tanto nascosto, che attraversa gran parte della Scrittura...
Ciò nonostante nelle maglie della narrazione relativa al rapporto tra Gesù e le donne qualcosa non torna, culturalmente parlando. Gesù ignora il pregiudizio, anzi lo risana, come provano alcuni suoi miracoli: guarisce la donna che ha perdite di sangue; guarisce la donna curva; rimanda indietro l’adultera senza condannarla... E soprattutto sta a conversare con loro. Se Maria di Betania sta ai piedi del maestro vuol dire che può e sa ascoltarlo (Lc 10,39). Se Gesù interloquisce con la donna Samaritana - ed è una interlocuzione profondamente densa e inusitata (Gv 4,5-30) - vuol dire che anche le donne possono intervenire alla pari nell’ambito religioso...
Il paradosso dei paradossi sta nel comando che esse ricevono d’annunciarlo “risorto”. E nelle narrazioni diversificate emerge la figura di Maria Maddalena (cf. Gv 20,1-18), anch’essa oggi studiata a tutto campo, nell’accesso alle fonti canoniche e apocrife e nell’articolarsi del mito che la vuole evangelizzatrice al pari degli apostoli... La scelta di elevarne a solennità la ricorrenza liturgica e di avvalersi per lei di un prefazio titolato “apostola degli apostoli” tradisce la necessità di riconoscere il protagonismo delle donne, anche se, alla fin fine, le incongruenze non mancano. Perché, ad esempio, non inserire nella liturgia del 22 luglio la sequenza pasquale? Perché ridurre la valenza testimoniale della apostola apostolorum iscrivendola nella misericordia che le avrebbe usato il Signore asciugandone le lacrime?
Una affermazione, comunque, è legittima e pacifica: le donne sono state al seguito di Gesù. Sedotte dal suo messaggio e/o guarite dalle loro infermità, in qualità di discepole lo hanno accompagnato, lo hanno aiutato, sono salite con lui a Gerusalemme e, soprattutto, gli sono rimaste fedeli nel momento della passione. Hanno sostato quanto più possibile in prossimità del patibolo e hanno prestato al suo corpo le cure tradizionali, così come hanno potuto.
Proprio per completare quest’opera si sono imbattute nella tomba vuota e lo hanno sperimentato “vivente”, anzi hanno ricevuto il compito di annunciarlo “risorto” (cf. Mt 28,1-10; Mc 16,1-11; Lc 24,1-11).
Non voglio dedicare più tempo del necessario a temi che tante colleghe bibliste hanno trattato con competente sensibilità. Aggiungo che le donne sono state presenti nella comunità orante in attesa del compiersi del promesso dono dello Spirito. Non ce ne sono stati trasmessi i nomi, fatta eccezione per la madre di Gesù (cf. At 1,14), attestata anch’essa nel circolo discepolare sia nel vangelo di Luca che in quello di Giovanni, anzi da entrambi, benché diversamente, additata come modello del discepolato.
I sommari degli Atti ci descrivono una comunità “unanime” di fratelli e sorelle. Certo l’incidenza numerica del termine “fratello” è molto molto più rilevante rispetto al termine “sorella”. Ciò malgrado, sia a partire da regole grammaticali da poco messe in discussione, sia a partire dal vissuto, le donne ci sono e contano. Ne ho scritto anche di recente, mostrando come sia indubbia, nella prima generazione cristiana, una forte e qualificata presenza femminile.
Non troveremo al femminile nel Nuovo Testamento né il termine presbyteros né il termine episkopos. Troveremo invece, riferito a donna, il termine “apostolo” e il termine “profeta”.
Di più - e ce lo attesta il capitolo 16 della Lettera ai Romani - termini relativi al farsi carico della comunità, anche nel senso del guidarla, accomunano uomini e donne. Ed è la pregiudiziale ideologica a dare a questi termini valenza ministeriale se riferiti a maschi e valenza generica se riferiti a donne.
Il caso emblematico è quello di Febe. He diaconos e prostatis la dicono i versetti 1-2 del capitolo 16, e bisognava arrivare all’ultima traduzione della CEI per toglierle il titolo di “diacona”. Certo è improbabile che il lessico ministeriale fosse già codificato all’epoca della Lettera ai Romani, ma non è questa la ragione per la parafrasi con cui è stato reso il termine. Certo non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere a questo espediente se si fosse trattato di Febo diacono! Per non dire del termine prostatis (capo, responsabile), di fatto ridimensionato.
Il fatto è che la comunità d’eguali nel suo dilatarsi in un orizzonte sovra locale e nell’acquisire una articolazione territoriale, farà propria la misoginia culturale in un crescendo di patriarcalismo clericale fortemente segnato in senso gerarchico.
Nella sostanza si preferisce offrire un’immagine delle comunità allineata al pregiudizio culturale, facendo proprio il modello della famiglia patriarcale, quello, per intenderci, in cui il pater familias è assimilato a Dio stesso ed esercita, di conseguenza, il suo potere dispotico su moglie, figli, figlie, schiavi, schiave, famigli. Probabilmente è una scelta vincente, ma quanto pesante per le donne. L’attestano i codici familiari (Ef 5,21-33; Col 3,18-25; 1Pt 3,1-12) e poi le istruzioni delle Lettere pastorali (cf. 1Tm 2,8-15). In tutto questo però viene quasi cancellato il protagonismo delle donne nel cristianesimo nascente, il loro impegno all’interno delle Chiese domestiche, il supporto da esse reso all’evangelizzazione. Cose tutte che oggi recuperiamo non senza fatica…
Ad esempio, non va dimenticato che la legislazione imperiale e il costume lasciano, nei primi secoli dell’era cristiana, una certa libertà alle donne.
Possono divorziare e soprattutto ereditare e gestire in autonomia i propri beni. Nella famiglia allargata del tempo, almeno nelle classi più agiate, le donne si fanno carico della prima istruzione dei figli e delle figlie e di quanti, minori, vivono all’interno della loro casa. Ma soprattutto, in ciò eredi di una istituzione giudaica, le donne cristiane tengono in piedi quella struttura di supporto che è il “patronato”, e con esso svolgono un ruolo sociale venendo incontro alle necessità dei meno abbienti, praticando l’ospitalità verso i correligionari in difficoltà o i missionari itineranti... Quest’ampia rete che corre lungo le coste del Mediterraneo e le città tutte dell’impero supporta le Chiese nascenti...
Una letteratura a metà tra l’apocrifo e il romanzesco ci dice di Tecla, discepola di Paolo, desiderosa d’imitarne il ministero. Ma ci giunge notizia anche di Mariamne, sorella dell’apostolo Tommaso. E senza ricorrere agli apocrifi delle quattro figlie di Filippo, tutte profetesse, di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli...
Considerata la visione unilaterale degli agiografi, il pegno pagato alla misoginia culturale, queste testimonianze costituiscono la punta dell’iceberg; dicono, loro malgrado, che le donne ci sono state e hanno inciso sul cristianesimo nascente. Ma è prevalso il pregiudizio culturale, l’ipotesi pacificante che nelle comunità cristiane non ci fosse spazio per conventicole di donne esagitate. In esse le mogli restavano sottomesse ai loro mariti e si sarebbero salvate, malgrado per loro tramite fosse entrato il peccato nel mondo, solo mettendo al mondo figli e vivendo in maniera consona alla loro condizione.
Il testo della 1Tm 2,9-15 è in questo senso demoralizzante...
Ho più volte messo in correlazione la svolta istituzionale e la perdita di soggettualità delle donne. E, a parere non soltanto mio, è cesura che si consuma con la presa di distanza dal Montanismo. Si tratta di un movimento che fortemente appella allo Spirito e nel quale le donne partecipano ai compiti ministeriali, episcopato incluso. Il poggiarsi sulle forme più rassicuranti dell’istituzione comporta anche il rifiuto del protagonismo profetico e ministeriale delle donne. Ancora una volta la domanda è se restando informale, senza gabbie istituzionali ben individuate, il cristianesimo sarebbe stato vincente... La nostra fragilità ha bisogno di regole. Purtroppo non sempre le si elabora secondo l’Evangelo.
Insomma, la questione donna nella Chiesa si intreccia con l’assetto che si danno le Chiese, ed esso è clericale, gerarchico, sessista perché fa suoi gli schemi socio-culturali vigenti, selettivamente mantenendo residui giudaizzanti e prerogative pubbliche del sacerdozio pagano. Un cocktail perverso che ha il suo distillato princeps nel monoepiscopato o episcopato monarchico.
Comanda uno solo, e tanto basta. La gestione collegiale delle Chiese è effimera, purtroppo.
La fraternità/sororità delle prime comunità cristiane cede, nel passaggio dalla prima alla terza generazione, a uno schema dichiaratamente gerarchico.
Dà una chiave impietosa di questo passaggio la riduzione già in Ef 4,11 della rete diversificata dei carismi, a tutti e tutte elargiti per l’utilità comune, alle quattro (cinque) categorie lì elencate: apostoli, profeti, evangelisti, dottori e maestri. Riduzione che nelle Lettere pastorali farà spazio al solo carisma conferito mediante l’imposizione delle mani (cf. 1Tm 4,14; 2Tm 1,6). E poiché sulla falsa riga delle Lettere pastorali verrà elaborato l’organigramma ecclesiale, le Chiese assumeranno un tratto marcatamente gerarchico, con la perdita della originaria sinfonica e sinergica fraternità/sororità e l’irrigidimento in categorie contrapposte, la meno evangelica delle quali è la distinzione-opposizione chierici/laici.
Si tratta - lo ripeto - di un appiattirsi sulla cultura dominante. Lo schema gerarchico è quello del mondo-tardo-antico. Impossibile pensarsi uguali. La stessa democrazia ateniese, palesemente assembleare, pur riconoscendo alla pari quelli che ne partecipano avendone diritto, è decisamente selettiva. Ne sono esclusi, oltre ai “non-cittadini”, le donne e gli schiavi.
Le donne, poi, sono incapaci di cittadinanza. Diremmo oggi: non hanno diritti civili. E le comunità ecclesiali introiettano questo pregiudizio, malgrado una presenza femminile significativa, ministerialmente e non, segni le comunità in entrambi i millenni. Ma il discorso non riguarda solo le donne. Riguarda anche i non chierici, i laici. Di fatto, tranne pochissime eccezioni, esclusi dalla soggettualità ecclesiale.
Non ripeterò quanto più volte detto circa l’anomalia del termine laico, da ricondurre alla nativa appartenenza al laos, al popolo di Dio, e la altrettanto eclatante anomalia del termine cleros, che, ancora nell’Antico Testamento, indica Israele come porzione/eredità che Dio si è scelta. Ed è davvero sconcertante che categorie globalizzanti possano essere state così mortificate sino a spaccare in due la comunità credente: da una parte quelli che contano, i ministri; dall’altra quelli che non hanno voce, i semplici battezzati.
Se poi a questa radicale dicotomia aggiungiamo l’asimmetria di genere, ecco, vedremo le donne precipitare nei ranghi inferiori, costitutivamente votate al silenzio e all’obbedienza. Peggio, incapaci di ricevere ogni potere sacro a ragione della loro condizione servile (ratio servitutis). E, mi si permetta di sottolineare, come la perdita della fraternità/sororità originaria si iscrive anche nell’ipoteca sacrale che connota il ministro e il suo potere.
Insomma, sacralità, gerarchia, clericalismo, sessismo fanno delle Chiese realtà ben diverse da quella inedita e nuova famiglia dei discepoli, tale non per legami di sangue, ma a partire dalla sequela di Gesù di Nazareth riconosciuto come Messia e Signore, per la potenza dello Spirito risorto da morte.
Oggi parliamo tanto di sinodo e sinodalità e parliamo anche di riforma della Chiesa. Ma sono discorsi inutili se non svoltiamo pagina e restituiamo a tutti i battezzati e le battezzate la loro nativa autorevolezza, il carisma loro proprio che esige di essere esaminato, riconosciuto, operativamente tradotto, così che le Chiese veramente risultino di uomini e donne capaci, consapevoli, attivi, idonei ad operare per la crescita dell’intero corpo ecclesiale.
Se la peste del clericalismo, ossia la supponenza di essere una categoria a sé, privilegiata e prescelta, e in aggiunta connotata di un potere sacro, non viene espunta, non c’è futuro per le nostre Chiese che hanno invece bisogno dell’umile e consapevole concorso di tutti e tutte.
Se la peste del sessismo, ossia la pretesa irrilevanza delle donne e la connessa convinzione che debbano restare escluse dall’esercizio del ministero ecclesiale, non verrà rimossa, anche in questo caso non c’è da aspettarsi un futuro per le nostre Chiese.
Se non mettiamo mano a una riforma che rinneghi la monarchia assoluta che connota ancora il papato e apra a una sinodalità concreta per larghi e capillari circoli di competenza, anche in questo caso è illusoria l’idea che possa esserci un futuro per le nostre Chiese.
Sinodo e sinodalità sono oggi termini alla moda, ma possono e debbono essere ben altro. Possono essere la spia di un creativo e dinamico ritorno a una sinergia evangelica tra le membra tutte del corpo ecclesiale, tutto portatore del sensus fidei, tutto portatore di profezia, tutto singolarmente segnato da peculiarissimi doni dello Spirito (cf. LG 12).
Sia chiaro: non si tratta di istanze opinabili. Le Chiese devono dismettere gerarcologia, patriarcalismo, clericalismo, sacralità, sessismo. Non abbiamo più tempo. La catastrofe ecologica è anche catastrofe socio-culturale. E poiché la Chiesa vi partecipa, la catastrofe è anche ecclesiale. Vale più che mai l’appello della 1Tss 5,19s.: ”Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”.

Cettina Militello

Esodo n° 3 luglio-settembre 2023

Indice:

Editoriale Carlo Bolpin, Gianni Manziega pag. 1

La democrazia interroga le Chiese

"Democrazia" e comunità

"Fossero tutti profeti nel popolo del Signore" Jean Louis Ska pag. 4

Gesù di Nazareth: comunicazione in cammino Enrico Norelli pag. 10

Sinodi nella Chiesa antica Anna Carfora pag. 17

Da comunità a società gerarchica

L'esclusione delle donne in una Chiesa clericale Cettina Militello pag. 22

Comunità o società clericale? Andrea Grillo pag. 27

Da Costantino a Gregorio VII: la Chiesa del potere Sergio Tanzarella pag. 33

Dal primato romano alla sinodalità Giovanni Vian pag. 40

Comunicazione nelle Chiese

La religione come organizzazione Enzo Pace pag. 46

Camminare insieme con gli occhi aperti Italo De Sandre pag. 51

Sinodalità ed ecumenismo tra crisi e speranza Simone Morandini pag. 57

Echi di Esodo

Quale Dio? Paola Cavallari pag. 63

Pino Goisis Carlo Bolpin pag. 67

Alla destra di Dio Paolo Naso, Brunetto Salvarani pag. 69

L'onnipotenza sulla soglia Daniele Garota pag. 73

AAA Cercasi adultero disperatamente Laura Tagliabue pag. 77



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