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Sabino Chialà "Tra identità profonda e relazioni"

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Quest’ultima osservazione sulla necessità del confronto perché una coscienza possa elaborarsi  e svilupparsi, conduce al punto successivo del nostro itinerario, in cui, fondamentalmente, vogliamo interrogarci sull’uso della coscienza nelle nostre esistenze. Alcune delle immagini sopra evocate offrono già indicazioni chiare circa l’uso della coscienza. Così il kritérion interiore, secondo la definizione del Crisostomo, o la “guida”, secondo un’altra immagine impiegata da Origene (1). 
Secondo queste e altre definizioni, la coscienza interviene nel processo del discernimento.
L’anonimo medievale già menzionato ci offre invece un’altra suggestiva immagine: La coscienza è come un libro, e tutti gli altri libri sono stati inventati per controllare ed emendare tale libro. Quando l’anima uscirà dal corpo, non potrà portare con sé nient’altro che il libro della propria coscienza: in esso conoscerà dove debba andare e cosa debba ricevere. 
Saremo giudicati dalle cose che risulteranno scritte nei nostri libri (2).
Qui la coscienza è paragonata a un libro in cui sono annotati pensieri, parole e azioni, nella loro verità, vale a dire nel loro autentico significato, che a volte non è noto neppure a colui che li ospita e li vive in prima persona. È descritta come la “scatola nera” della nostra vita, in cui è raccolta quella verità destinata a seguire l’essere umano anche nell’aldilà, costituendone l’identità profonda, cui pensieri, parole e atti hanno concorso a formare.
Si tratta di un’immagine e di una funzione soggetta a varie letture. Mi limito a una che considero “liberante”. Può infatti accadere che in alcuni momenti della propria esistenza ci si senta incompresi e umiliati. Momenti in cui è difficile “fare la verità”, secondo un’espressione del quarto vangelo (cf. Gv 3,21). Questa immagine, allora, rassicura che non c’è da temere, poiché la verità resta custodita in quello spazio che nessuna menzogna potrà mai distruggere né adulterare. Possiamo comprendere in questo senso un brevissimo apoftegma che dice: “Custodisci la tua coscienza nei confronti del prossimo e avrai pace” (3). Cioè agisci secondo coscienza e sta’ in pace, anche nell’incomprensione, che è quanto Dio aveva suggerito a Caino rivolgendogli la sua prima domanda (cf. Gen 4,6): se hai agito bene, non temere, anche se non comprendi o se ti sembra di non essere compreso.
Pensiamo a quanto tale funzione della coscienza sia importante per chi vive situazioni di oppressione, in cui non intravede alcuna via d’uscita. Ne sono testimonianza quanti hanno fatto esperienza dell’estrema violenza dei regimi totalitari e che hanno trovato nella propria coscienza l’estremo luogo di rifugio in cui poter dimorare, pur in un dolore immane che rischiava di annientarli, custodendo la propria umanità. Forse è possibile interpretare in tal senso quel passo della Prima lettera di Pietro che dice: “Questa è grazia: che uno sopporti afflizioni, per mezzo della coscienza (dià synéidesin) davanti a Dio, soffrendo ingiustamente” (1Pt 2,19). Si tratta di custodire coltivando non il desiderio di vendetta, ma la certezza pacificante che il male non ha l’ultima parola, e che tutto è in Dio ed è da lui accolto, anche i passeri che cadono o i capelli del capo (cf. Mt 10,29-31).
Tale funzione della coscienza, se esclusiva, corre tuttavia un pericoloso rischio di traviamento: ridursi a luogo di riparo dagli altri o peggio ancora a tribunale interiore da cui giudicare l’altro, forti di una pretesa verità che si crede calpestata, sottraendosi così al confronto. Sarebbe ancora un abbaglio, poiché la coscienza non è il luogo interiore in cui rifugiarsi per evitare l’altro, ma al contrario è il luogo di un dialogo e di un incontro in profondità. Essa dunque non solo si forma grazie all’incontro, ma è anche orientata all’incontro. È al contempo centro della propria identità, criterio di discernimento del bene e del male, custode della verità delle proprie azioni e luogo di incontro con l’altro e con il totalmente Altro. Spazio in cui ospitare, e dunque elaborare, nutrire e a volte guarire, le proprie relazioni, perché non restino in superficie.
La coscienza è dunque anche strumento di relazione, con Dio e con gli altri. Con un Dio inaccessibile, che si rende prossimo nelle profondità dell’essere, nel luogo più remoto e intimo, laddove è possibile essere sé stessi senza infingimenti, presentandosi e accogliendosi nell’autenticità di ciò che si è. Qui lo Spirito santo si rivela, cooperando con la nostra coscienza e generandoci a figli.
Per questo la coscienza è indispensabile alla preghiera, che è autentica nella misura in cui ci si pone dinanzi a Dio con un “io” cosciente, quali che siano le emozioni e i sentimenti che fuoriescono da quell’“io”. I salmi, con il loro repertorio di sentimenti, non fanno altro che stimolare la nostra coscienza, per farne emergere ciò che ospita in verità, di luminoso o di oscuro. Provocandoci anche con parole di violenza che ci scandalizzano, ma che così scandagliano il cuore, cioè la coscienza, rivelandoci anche il desiderio di male o di vendetta che ci abita; e così ce ne fanno prendere “coscienza”, perché sia possibile intraprendere una via di conversione. Senza la partecipazione della coscienza, la preghiera sarebbe sterile culto, artificio, espressione di superficialità, riti più o meno ben rappresentati, che si riducono a teatro dell’esteriorità.
Infine la coscienza è luogo di incontro con l’altro, simile e diverso allo stesso tempo. Spesso le relazioni interpersonali hanno vita breve perché malate di superficialità, destinate a fallire perché gli esseri umani si rivelano incapaci di andare all’altro con la propria coscienza. Caino ha messo in gioco la propria coscienza solo dopo aver ucciso Abele, altrimenti non avrebbe perduto il fratello. Ogni male contro l’altro è frutto di un silenzio della coscienza. Essa, infatti, consente di scendere a quel livello in cui è possibile parlare un medesimo linguaggio, comprensibile a tutti perché comune, più profondo delle differenziazioni che pure caratterizzano gli esseri umani senza tuttavia intaccare lo spazio della propria umanità condivisa.
Più si resta in superficie, più sono evidenti gli impedimenti alla relazione, le diversità di ogni genere: di cultura, di religione, di punti di vista. Più si raggiunge quel luogo profondo dove giace il kritérion che distingue il bene dal male, o meglio ciò che “fa” bene da ciò che “fa” male, più è possibile la comunione. Una buona coscienza tende naturalmente alla comunione piuttosto che alla conflittualità. Essa allora può diventare il terreno comune in cui credenti e non credenti si incontrano, nel desiderio di bene e di bellezza che abita ogni essere creato, ritrovando quella “fratellanza universale”, che precede ogni credo, cui richiama il documento firmato ad Abu Dhabi da papa Francescodal grande imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, il 4 febbraio 2019 (4).

1 Cf. Origene, Commento alla Lettera ai romani 2,9, a cura di F. Cocchini, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 80.
2 Anonimo del xii secolo, La dimora interiore 15,24, pp. 170-171.
3 Detti dei padri, Serie sistematica 21,60, in I padri del deserto, Detti editi e inediti, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Qiqajon, Magnano 2002, p. 192.
4 Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune (Abu Dhabi, 4 febbraio 2019), in L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.

tratto da "Pensare e Dire" Edizioni Qiqajon

Pensare e dire… coscienza e parresia: due dimensioni essenziali dell’essere e del relazionarsi. Con un taglio esperienziale e pratico si indicano qui percorsi che aiutino a rivisitare il proprio vissuto: i pensieri che lasciamo abitare in noi e le parole che transitano per le nostre labbra. 

AUTORE Sabino Chialà (Locorotondo 1968) è monaco e priore di Bose dal 2022 a oggi. Studioso di ebraico e siriaco, si è dedicato in particolare allo studio della figura e dell’opera di Isacco di Ninive, di cui ha recentemente pubblicato la prima traduzione italiana completa della prima collezione dei suoi scritti.


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