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Michela Murgia: «Il tempo migliore della mia vita»

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di Simone Marchetti per “Vanity Fair


Ci sono interviste che si scrivono da sole. Non hanno bisogno di introduzioni né di frasi a effetto. Questa a Michela Murgia è una di quelle. Scrittrice, attivista, femminista. E parte di una famiglia nuova, ibrida, come la chiama lei, queer, come andrebbe definita. Ha da poco rivelato di avere un forma di tumore che non le lascia molto tempo davanti a sé. Passo quindi direttamente alle domande. Perché le risposte di Murgia sono così luminose da lasciare ogni volta accecati. E così dense da trovarti senza fiato. Ha detto: «È come se avessi vissuto dieci vite». Della sua prima vita, però, parla poco. Che bambina era? «Una bambina molto responsabilizzata. Ero la maggiore e i miei genitori lavoravano entrambi. Mio fratello minore è nato con delle fragilità: ha passato più tempo in ospedale che fuori, come ti giravi si era rotto un osso o ficcato un chiodo nella lingua. A nove anni avevo le chiavi di casa. Siamo cresciuti come delle bestioline felici». Lei parla spesso di aver avuto un padre violento. «Mio padre, ovvero la persona che avrebbe dovuto prendersi cura di me, ha tradito il suo mandato. Per molto tempo non ho capito che quello era un tradimento, perché l’unico padre che conoscevo era lui. Nella vita, hai bisogno di guardarti intorno e di vedere altri padri per capire che sei stata ingannata. Sono stata molto fortunata perché ho incontrato un altro padre, cioè mio zio, marito di mia zia Annetta. Lui e zia non hanno salvato la categoria paterna, perché ho continuato ad averne paura: nella nostra società patriarcale il modo di essere padre era quello del mio primo padre. Se fai sedere a tavola dieci donne e chiedi loro com’è stata la loro infanzia, otto ti racconteranno di un padre simile al mio. La mia esperienza che credevo eccezionale è invece molto diffusa».

C’è stato un momento preciso in cui ha detto «vado via»? «Ricordo di averlo sempre pensato, ma sapevo che, se l’avessi fatto da minorenne, mio padre avrebbe trovato il modo di riportarmi a casa. La notte in cui me ne sono andata me la ricordo molto bene. Era il 26 dicembre del 1990 e avevo 18 anni e mezzo. Non era previsto, ma c’è stata una lite molto violenta in casa e mia madre ha ritenuto di mettere in sicurezza me e mio fratello: ci ha portati così come eravamo, in pigiama, a casa di mia zia. Quella notte ho capito che non volevo tornare a casa. Mio fratello è tornato. Io mai più. Ringrazio mio padre per aver creato le condizioni di costrizione. Se ci fosse stato un limite di tollerabilità in quella situazione, io oggi sarei una persona diversa. Io sono una figlia d’anima, la famiglia queer l’ho sperimentata presto, forzatamente, e quindi ho capito che potevano esistere dei legami in grado di rispondere a logiche non del possesso tra genitori e figli. Avere avuto più madri è stata la ricchezza di vivere le “più vite” di cui le dicevo prima. Ho avuto la possibilità di essere più donne in circostanze diverse perché sono stata messa alla prova molto presto dalla diversità di queste due donne: mia madre, più rivoluzionaria ma vincolata in casa ai rapporti violenti e tossici di mio padre, e mia zia, più conservatrice, cattolica, ministro straordinario dell’eucarestia ma anche più libera rispetto al rapporto col marito e con me. Sono grata a queste due donne, a queste due madri».

Suo padre l’ha perdonato? «No, perché non si è mai pentito. Non ha mai ammesso di avermi fatto male. Ha sempre detto che avevo capito male io. Che ero io a provocarlo. Con un uomo che non accetta di fare neanche un passo verso una verità diversa dalla sua è molto difficile, e forse non necessario, dialogare. Non accetto il paternalismo di chi mi dice “ah ma è sempre tuo padre”, perché sembra una condanna a vita. Il padre è un ruolo, non è una persona. E quel ruolo, nella mia vita, l’hanno ricoperto altri uomini meglio di lui». Come dieci vite ha fatto anche dieci lavori, e forse più. C’è stato un momento buio prima di diventare scrittrice, di essere la persona che è oggi? «Sono una che si sveglia sempre di buonumore. Non ho mai pensato “sto andando a fare un lavoro schifoso”. Ci sono stati momenti bui, ma non relativi ai mestieri».

La prima parte della sua vita è segnata da fughe e cambiamenti. Quanto è stato importante andare via? «Henri Laborit ha scritto un saggio straordinario che si chiama Elogio della fuga. Vi racconta di un esperimento circa una scatola di un metro per un metro dove stanno dei topi e non ci sono vie d’uscita. Mentre i topi circolano, aumenta la tensione e quindi finiscono per ammazzarne uno. Lo stesso esperimento, fatto nello stesso spazio con lo stesso numero di topi ma con un’apertura basculante, permette al topo più aggressivo di uscire in una camera attigua che fa abbassare la tensione e garantisce la vita di tutti. La fuga salva. La fuga non è mancanza di coraggio. La fuga a volte è l’unico modo che hai di essere viva. Per me è stato questo». La prima volta che si è innamorata. «Questa è una domandaccia. Una sola volta nella vita e purtroppo di una persona che non andava bene per me. È successo dopo i 40 anni. Espressioni come “perdere la testa” per me sono come maledizioni. Ho sempre guardato con disprezzo chi si innamorava pazzo. Dicevo a me stessa: non ti succederà mai perché sei superiore. Invece mi sono presa a calci nel sedere da sola quando ho capito di essermi innamorata. Sono andata a casa di Chiara Valerio e le ho detto: “Chiara sono disperata, mi sono innamorata”. Lei, che ha dentro di sé una donna Harmony, ha detto: “Nooo, finalmente, ci speravo tanto che ti si aprisse questo chakra…”. E io: “Ma no, è un disastro, non andiamo bene insieme, io soffrirò per un anno, piangerò come un cane, dopodiché passerà e spero che come le malattie esantematiche non torni più”. Per me amare rimane un fare, non un sentire». Non si è mai più innamorata? «Cosa significa questa parola?».

Me lo dica lei. «Se intende quella fulminazione che ti fa battere il cuore, che fa diventare sfuocato tutto il resto e a fuoco quella persona, no, perché ritengo che sia una forma di psicosi. Amo molto. Ma non m’innamoro. Perché c’è una quota di perdita di controllo nell’innamoramento che ti fa fare casini. E ti fa spesso fraintendere quello che è giusto con quello che vuoi. Che non sempre sono la stessa cosa».

Lei che cosa vuole? «Essere felice. E non fare stare male le persone che amo. Sono molto fortunata perché ne amo molte e sono riamata in modi molto diversi, quindi sperimento una gradazione di amore molto più ampia di quella che si può sperimentare dentro una coppia. Ma se dovessi dire di quali di queste persone sono innamorata, per fortuna le dico di nessuna. Perché vorrebbe dire stabilire una gerarchia che automaticamente disegna livelli di potere nella relazione. Di una coppia si dice spesso: “Uno è più innamorato dell’altro”. E quando si negoziano le differenze, chi è più innamorato cede e si sottomette. Noi legittimiamo e romanticizziamo questa sottomissione, ma a lungo termine quel dislivello genera fratture, e di solito è la donna ad accettare la negoziazione, perché siamo abituate a considerare la relazione una cosa centrale, mentre per un uomo innamorarsi è una delle tante cose interessanti che gli capitano. L’educazione patriarcale ci spinge dal primo bambolotto che dobbiamo cullare alle Barbie e Ken con cui dobbiamo simulare i primi matrimoni, al fatto che quella cosa è il traguardo della vita. Tant’è che quando un matrimonio crolla, molte donne si sentono finite». Quali sono stati i suoi maestri e le sue maestre? «Tanti. E tante. All’inizio sicuramente le donne della mia famiglia, un esempio di emancipazione. La mia nonna, che è rimasta vedova da giovanissima e con quattro figli. Ne ha perso uno ma ha cresciuto i fratelli, era una famiglia allargata nel senso contadino del termine. Anche se non c’erano contadini, nonno era minatore. Il suo era un modo di esercitare il potere femminile dentro al patriarcato che per molto tempo ho scambiato per matriarcato, invece è un patriarcato 2.0 e si chiama matricentrismo, regge tutto il sistema a patto che ci sia una donna a fare il pilastro su cui si scarica tutto il peso. Mia nonna lo faceva volentieri. Diceva: le chiavi di casa le ho io. E io pensavo: sì, nonna, ma non esci mai. Esci solo per andare in chiesa. E già da piccola mi è stata maestra in questo: c’è un potere che ti imprigiona se tu accetti che quello sia l’unico potere che ti danno, e non vuoi rinunciarci perché fuori non ne vedi altri. E il modo in cui lo eserciti fa sì che tu stessa abbia le chiavi della gabbia da cui non puoi uscire. Il primo insegnamento da bambina l’ho avuto da lei: come fare a diventare potente senza essere schiava del potere. Crescendo ho avuto la fortuna di incontrare uomini e donne che mi hanno ulteriormente liberata da queste sovrastrutture. Più mondo vedi e più persone immagini di poter essere. Ricordo soprattutto due maestri nell’ambito dei miei studi teologici: don Antonio Pinna, che mi ha insegnato che la Bibbia, la gabbia più strutturata e duratura di tutte, poteva essere smontata e rimontata in modo liberatorio. L’altra è ancora una biblista, Marinella Perroni. Mi ha mostrato il femminismo dentro la fede. Sono riuscita a perdonare alla Chiesa il fatto di non essere all’altezza della parola di Dio soprattutto in relazione alle donne. La Chiesa deve fare ancora passi da gigante ma io posso starci dentro e fare in modo che magari quei passi possano andare più veloci».

Arriviamo al cuore di questo numero, la famiglia queer. Partiamo dalla sua. «Mi piace definirla ibrida, la mia famiglia. Ho scelto come anello nuziale una rana ad altorilievo perché è un animale di terra e di acqua, sempre pronto al salto, quindi al cambiamento, rappresenta bene la queerness in natura. Non voglio chiamare la mia famiglia non convenzionale, perché sono sicura che nella realtà queste famiglie siano già diffusissime: le persone hanno esigenze che gestiscono inventandosi rapporti che possano soddisfarle. Non esiste un nome per questa creatività degli affetti: il problema è togliere gli aggettivi e declinare le famiglie finalmente al plurale. Basta dire famiglia tradizionale, la famiglia composta da mamma, papà e due bambini è un’invenzione degli anni Sessanta, ha iniziato a esistere quando la migrazione dal Meridione al Settentrione d’Italia per andare nelle fabbriche ha spostato le persone in luoghi molto più piccoli, ha separato i nonni dai nipoti e ha rotto quei legami della società contadina che invece formavano una realtà allargata, una tribù, un luogo dove le responsabilità erano divise. Nei dialetti la parola cugino e fratello è spesso comune. Perché si cresceva tutti come figli. Certo, non è nemmeno quella la famiglia queer. Perché anche quella famiglia ha il sangue come fondamento. E tutte le famiglie che hanno il sangue come fondamento sono famiglie di natura patriarcale. L’idea della famiglia queer è invece quella di fondare le sue relazioni sullo Ius Voluntatis, sul diritto della volontà. Perché la volontà deve contare meno del sangue? Perché se due o tre amiche anziane rimaste sole o vedove, coi figli già andati a vivere altrove, vogliono andare a vivere insieme, condividere le spese, la casa, avere la reversibilità pensionistica, decidere l’una per l’altra se una non può più decidere. Perché non possono farlo dentro una scatola legale, un patto sociale? In Germania già esistono queste proposte di legge, noi invece stiamo ancora a discutere quale coppia è più coppia delle altre. E chi l’ha detto che debbano essere solo due genitori? Per esempio io, Claudia e suo marito e il padre di mio figlio Raphael siamo quattro ed esercitiamo una co-genitorialità diversa, mutevole, perché negli anni abbiamo dovuto cambiare. Noi cambiamo, perché non devono cambiare i modelli di riferimento? Cosa vuol dire che c’è una famiglia migliore e una peggiore? È la norma applicata alle relazioni che non regge. E genera dolore. Tutto quello che sfugge a questi legami viene considerato atipico ma è molto più tipico di quanto non lo sia».

Per spiegare la famiglia queer lei parla spesso dei nuraghes, le torri della Sardegna… «In Sardegna ci sono 7.000 nuraghes, torri di pietre diffuse come una specie di connessione neuronica. Sono costruite in modo che da una tu ne possa vedere almeno altre due, così che se uno non ti vede, almeno ti vede l’altro. Quando arrivavano le navi verso la costa, il nuraghe più vicino accendeva il fuoco in alto e dall’alto gli altri due potevano vedere nella notte il pericolo. La storia dei nuraghes restituisce l’idea che due non basta. Io l’ho sperimentato molte volte nella vita. Il modello coppia regge finché non succede un vero casino: quando uno dei due si ammala, o va in depressione, o perde il posto, o ha una crisi l’altra persona deve reggere tutto il peso di questo squilibrio. A volte può farlo, altre no. E se non c’è nessuno vicino, non esiste la possibilità di trasferire il peso su più persone. Responsabilità vuol dire questo: la matrice latina è res-pondus, porto un peso, porto cose. Se tu hai tante cose pesanti, l’altra persona potrebbe non reggerle. Ho visto mariti fuggire davanti alla malattia delle mogli. Ho visto persone crollare davanti a una depressione, davanti a un padre anziano con l’Alzheimer, davanti a bambini con problemi. E spesso questa cosa ricade sulle donne, perché su di loro ricade il peso del Welfare e da loro ci si aspetta una quota di cura nelle relazioni superiore. La queer family è un modo di gestire meglio il peso di queste cose. Non dico che funzioni sempre. I conflitti e i casini succedono».

Mi parli della sua famiglia queer. Da chi è composta? «Non voglio nominare tutti perché non tutti hanno la stessa attitudine all’esposizione. Le dirò chi sono all’interno della nostra relazione. Ci sono quattro figli. Ciascuno di loro si crede figlio unico rispetto a me. Sono entrati nella mia vita in tempi diversi. Da Raphael, il più piccolo, agli altri. Stanno con me da quasi vent’anni. Abbiamo mantenuto delle relazioni più o meno vicine in anni diversi ma nei momenti di transizione importanti erano tutti presenti in modo parentale. Dico parentale usando un termine improprio: i termini figlio, padre, madre, fratello, sorella non si adattano a queste relazioni. Io li uso per analogia, perché è difficile dire che oggi un uomo di 37 anni sposato è mio figlio, perché quella persona è entrata nella mia vita quando ne aveva 17, io c’ero il giorno del suo diploma, c’ero alla sua laurea, al suo matrimonio, c’ero nei momenti in cui tutto crollava in testa a me o a lui e non c’erano altre relazioni che potevano sorreggere una fragilità magari reciproca. Quando la differenza di età contava moltissimo, io sono stata madre. Oggi siamo più amici, più paritari. Quello con Claudia, invece, è un rapporto difficile da spiegare, perché noi ci amiamo profondamente, e questa cosa le persone la romanticizzano e la sessualizzano, infatti molti giornali a riguardo hanno titolato “Michela Murgia fa coming out, rivela la compagna”. Noi abbiamo riso, sono stata anche con donne nella vita, ma tra queste non c’è stata Claudia. Abbiamo condiviso il figlio come due donne che si passano una responsabilità. L’altro giorno piangendo lei mi ha detto: io sono stata una madre migliore perché c’eri anche tu. E io le ho risposto: io sono stata una madre perché tu me lo hai consentito. Questa cosa mi commuove profondamente. Ed è stato bello quando Claudia si è sposata con Marco. Gli ha detto: guarda che c’è questa donna con cui ho cresciuto mio figlio. Se vuoi sposarti con me, devi accettare anche lei. E lui ha detto: va bene. E anche adesso che sto male, e Claudia viene spesso qui, a Marco mando un messaggio e gli scrivo: “Scusami se te la porto via”. E lui mi risponde: “Ho la sensazione che sia stata tu fin dall’inizio a prestarmela, quindi quando viene da te io so dove sta andando, a me basta sapere che lei sa che io ci sono”. A questa cosa qui che nome gli dai? Le persone che vivono dentro una famiglia tradizionale pensano: “Ma questi vanno a letto tutti insieme!”. E invece non è così. Io posso dire anche molto di più di queste persone. E anche senza andarci a letto».

Come ha cercato una casa per questa famiglia? «Non è stato facile. Perché non puoi fare un mutuo se hai un tumore. Le banche te lo negano. Ha una sua logica. La banca ti dice: “Chi paga?”. È una domanda lecita. Il problema è che il vincolo rimane anche quando hai avuto un tumore che è andato in recessione e sei tecnicamente guarita. Anche in quel caso un soggetto rimane a rischio per dieci anni. Quindi o non te lo danno, o lo fanno se dai una garanzia come un immobile o un garante. Così quando sono andata in banca tre direttori diversi mi hanno detto di no. Tutte le persone della mia famiglia hanno quindi voluto fare una fideiussione sui loro immobili ma io non volevo che si sobbarcassero dei miei debiti. Ho chiamato la mia agenzia e ho detto: “Fatemi lavorare questi mesi per coprire almeno i due terzi della cifra, poi il resto lo troviamo”. Ho avuto fortuna, ma se fossi stata un’impiegata comune o non avessi potuto chiedere anticipi a una casa editrice, che cosa avrei fatto? È un’ingiustizia secondo me: c’è un movimento che vuole l’oblio oncologico, cioè chiede la possibilità di rendere libere le persone guarite in modo che abbiano gli stessi diritti. Altrimenti nei dieci anni non puoi accedere al credito, ai concorsi pubblici e se stipuli un’assicurazione hai un premio molto più alto». Quando ha iniziato a costruire la sua famiglia queer? «Non ho mai iniziato o pensato di farlo. È successo. È cominciato dai figli. Alessandro, che ho incontrato quando aveva 16 anni. E Francesco che ne aveva 18. Ti chiedono loro, ti dicono fammi stare. Stiamo. La questione di essere famiglia ha a che fare con lo stare. Stai nella mia vita. Il modo? Lo si trova. Quando ho conosciuto Alessandro era uno studente liceale straordinario, di quelle intelligenze fulminanti che tu dici questo ne nasce uno su un milione. E io non posso non vederlo fiorire. Ci siamo conosciuti online su una community di gioco di ruolo. Elfi, nani, un po’ tolkieniana. Si giocava con le parole, nelle chat. Non c’erano avatar. Scrivevamo e basta. È stata la mia scuola di scrittura. E anche la sua. Abbiamo giocato insieme per molti mesi e non sapevo chi c’era dall’altra parte. Io mi aspettavo un adulto molto colto. Quando ho scoperto che c’era un ragazzino, mi sono detta: se fa tali ragionamenti a 16 anni, che margini di crescita ci sono? Io devo vedere questa aurora! E quando abbiamo iniziato a scambiarci i libri ho capito che aveva letto più di me. A 18 anni ha fatto l’editor del mio libro Accabadora. E ora, a 35, insegna italianistica a Yale. E oggi, poi, Alessandro che cos’è? Mio figlio? Uno che mi consiglia i libri? Uno che curerà i miei diritti? Uno che conosce nel profondo tutti i mutamenti della mia vita? Io non so più se chiamarlo figlio. Oggi è un amico. Ma per molti versi un maestro. I rapporti cambiano e si invertono. Dentro questa famiglia tutto è cambiato, i ruoli ruotano. Nella famiglia tradizionale questo non avviene, perché è il sangue che li determina. Un padre è un padre sempre. E a volte questa cosa è un ergastolo. Sia per il padre che per i figli».

Come avviene la questione economica? «Ciascuno paga per sé. Ma se ci sono guai, tutti pagano per tutti. E non conta la fedeltà ma l’affidabilità». Come si litiga in una famiglia queer? «In modi e con intensità diverse. Tieni presente che nelle relazioni si litiga sempre per restare. Quando tu te ne vuoi andare non litighi. Non spieghi, non perdi tempo. Te ne vai. Litigare è un segno di salute. La persona con cui discuto di più è Chiara Valerio. Perché è una che fugge dal conflitto ma mi mette in discussione, mi fa resistenza e non mi subisce mai. È una donna che ho scelto anche per questo. Il nucleo primario del gruppo siamo io e Chiara». Come si fa pace? «Piangendo. Se riesco a portarla a piangere, ho vinto io. Però non vuol dire che l’ho convinta. Vuol dire che alla fine lei mi dimostra che a volte non è importante avere ragione. È più importante restare insieme. Questo è tipico della famiglia. Difficilmente due fratelli vanno d’accordo. È il sangue a tenerli insieme. Noi invece siamo riusciti a creare questo legame senza passare per il sangue. E di questo sono molto fiera. Se c’è una cosa di cui sono certa nella mia vita è che non ci sarà un giorno in cui Chiara Valerio non sarà accanto a me».

Come si entra e come si esce da una famiglia così? «Le relazioni queer sono sempre delle relazioni di soglia. La queerness è la pratica della soglia. Questa cosa ha per me un fondamento teologico. In un passaggio, Gesù parla con gli apostoli e dice: per le pecore c’è uno spazio sicuro, l’ovile, dove stanno al riparo dai ladri e dai lupi. Però se le pecore vogliono mangiare, devono uscire dal recinto dell’ovile per andare dove c’è il prato e l’acqua. E lì si corrono i rischi del lupo e dei ladri. E lui dice: io sono la porta delle pecore. Non dice, io sono il pastore. Dice sono la porta, cioè sono entrambi i due spazi mortali e sicuri. Questo attraversamento permette che tu ti salvi sia dalla fame che dal cibo. Non è uno spazio, è un’attitudine essere soglia. Quindi sì, la famiglia queer è uno spazio da cui è possibile entrare e uscire continuamente a seconda dei pericoli che corri e dei bisogni che hai. Non l’ho mai teorizzata così con loro, è più una pratica. Ma la ringrazio per questo, perché mi dà la possibilità di mettere in parole qualcosa che abbiamo sempre praticato senza doverlo troppo spiegare. Perché la famiglia queer è più facile da fare che da dire».

Qual è la cosa più bella che le hanno detto i suoi figli? «Vuole proprio farmi piangere? Quando siamo partiti io e il mio futuro marito Lorenzo per l’Orient Express, la sera prima siamo andati da mio figlio Raphael che vive a Vicenza. Raphael ha cucinato per noi e durante la cena gli ho detto: questa è la situazione, io ho le metastasi già al cervello, farò una radioterapia, ma significa che sono in uno stadio per cui è meglio predisporsi al peggio. Nel tempo che rimane, che cosa vuoi fare con me? Troviamo uno spazio per costruire dei ricordi? E lui mi ha fatto un discorso adulto serissimo. Ha detto: “Io sono il più piccolo, non faccio lavori artistici come voi e geograficamente ed economicamente non sono così libero di spostarmi. Ho paura che se tu muori io sarò il più orfano di tutti. Io ti chiedo, quando ti trasferirai nella nuova casa, trova il tempo, può essere anche questa estate, in cui stiamo tutti e quattro con te per tre settimane. Non abbiamo mai avuto tempo di stare così tanto insieme, dammi modo di conoscerti meglio, così che quando non ci sarai più io avrò ancora relazioni con la tua eredità”. Questa cosa è stata molto toccante. Infatti a luglio starò con lui. I giornali, invece, hanno titolato che mi pensano già in agonia». Com’è la casa scelta? «In realtà molto piccola. Ci sono più letti che stanze. Dormiremo tanto sul divano. Ha però un grande giardino. E quel giardino sarà il fulcro della nostra estate familiare».

Si dice che il dolore abbia cinque fasi: rifiuto, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione. Come ha vissuto la diagnosi del suo tumore? «Io sono arrivata in ospedale in fin di vita. In ambulanza, in pronto soccorso e poi subito in sala operatoria. Era il secondo lockdown, Capodanno del 2021. Ero in condizioni di semi incoscienza, convinta di morire e con i medici convinti che sarei morta. In realtà, sono sopravvissuta alla terapia intensiva per una reazione straordinaria del corpo alle prime cure di rianimazione e a due operazioni di svuotamento d’acqua dei polmoni. Quando mi sono ripresa e sono uscita, quando è arrivata la diagnosi del tumore era una buona notizia, perché avevo ancora tempo, perché non sarei morta in terapia intensiva. Non ho provato rifiuto: quella notizia non voleva dire cancro, voleva dire tempo. Non ho paura della morte. Ho paura del dolore. Naturalmente parliamo della morte mia. Se si ammalasse uno dei miei figli, non sarei così serena. In quel momento non si erano ancora presentate né metastasi ossee né cerebrali. È gestibile anche questo stadio, perché posso parlare con lei, posso vivere, posso scrivere. In questo anno e mezzo ho scritto, sono andata in America da Alessandro, mi sono goduta le sfilate, sono andata sull’Orient Express… E tuttora ogni mattina mi sveglio pensando che ci sono persone che hanno la mia malattia e che non hanno la mia qualità di vita».

La morte sarà il passaggio dal non ancora al già. L’ha detto lei. Cosa significa? 
«Significa che sono su una soglia. È il discorso che le facevo prima. Da un lato l’amore che sperimento della mia famiglia è una condizione di beatitudine forte. Io mi sveglio pensando: che culo! O meglio: ci sono dei momenti di ateismo in cui dico che culo e momenti in cui dico grazie Dio! È un dono fantastico, sto facendo le cose che volevo, sto amando le persone che ho voluto, ho scritto i libri che ho voluto. Quanti possono dire: “Tutto quello che volevo fare, l’ho fatto”?. Se oggi mi dicessero: “Cos’è che vuoi ancora fare?”. L’ultima cosa è andare in Corea del Sud a incontrare i BTS. Probabilmente non ci andrò, ma i BTS verranno a me. Non si può sapere. È l’ultimo desiderio dei desideri, come nella Storia infinita quando ti rimane l’ultimo da esprimere e non trovi più la strada per tornare a casa. È forse giusto che rimanga non soddisfatto». 

Ha detto di aver fatto testamento. Com’è? 
«Divertente. Io l’ho fatto con l’avvocata Cathy La Torre e l’ho fatto alla presenza di Claudia per decidere insieme anche le cose dei ragazzi. Dopo che hai risolto la questione immobili, che nel nostro caso era facile perché non siamo dei palazzinari, è stato divertente per le cose affettive. Tutto il mio armadio va in capo a Tagliaferri che lo distribuirà a seconda delle sue scelte. Patrizia avrà il patrimonio di gioielli e bigiotteria. Non ho mai amato l’oro e nemmeno l’argento, ma tutte le cianfrusaglie che ho accumulato nella vita peseranno circa trenta chili. La cosa buffa è stata la richiesta di Alessandro. Un elenco in cui mi ha detto: voglio i tuoi computer, le password dei tuoi account, il titolo di cavalierato francese e la pennetta usb con tutte le giocate nella community. Chiara Valerio invece non ne vuole sapere niente, lei è nella fase rifiuto, dice: “Io voglio trattarti da viva fino all’ultimo giorno, io voglio far finta che questi preparativi verso la morte non esistano”. È il suo modo di proteggersi dal pensiero della perdita».

Ultima domanda. Ha dichiarato: «Non è vero che il mondo è brutto, dipende da che mondo ti fai». Come si fa a fare un mondo più bello? 
«Ma che ne so. Io ci ho provato ogni giorno. Non mi sono mai rassegnata a pensare che non mi spettasse la felicità. Quando mi dicevano: “Tu che cosa vuoi fare nella vita”, rispondevo non lo so, ma voglio essere felice. Questo mi ha permesso di fare dieci lavori e di non smettere mai di essere felice. Io avrei potuto insegnare tutta la vita. Sarei stata comunque la persona che sono. Una cosa resta importante: riconoscere la felicità è una forma di intelligenza. Perché molte volte la felicità ti passa accanto e tu non capisci che quello è un momento felice. Perché sei troppo presa o stanca. Ho avuto fortuna perché il mio tipo di lavoro mi permette un’introspezione e delle pause in cui posso guardare me stessa dall’esterno e in cui capisco che il tempo che sto vivendo è probabilmente il tempo migliore della mia vita. Io oggi le dico: questo è il tempo migliore della mia vita. Visto da fuori non lo è: ho il cancro, ho il tempo contato, come tutti del resto, ma io ho il conto più breve. Dovrebbero essere elementi di non felicità. Ma invece non conta il cosa, conta il come. E in questo momento io posso scegliere il come».

 


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