Alessandro D’Avenia "Compiti per le vacanze"
Vivere è sperare di nascere del tutto, ciò che in ciascuno di noi è abbozzato chiede pieno compimento: per questo usiamo la metafora della chiamata o vocazione, la vita ci interpella, rispondere è il nostro compito. Ma che cosa ci chiede esattamente la vita?
Mentre un animale è guidato dal suo istinto, bussola infallibile per «venire al mondo», nel caso degli umani l’istinto è povero: per «venire al mondo» abbiamo bisogno di «fare esperienza». Ma oggi il mondo viene a noi attraverso gli schermi, e quindi l’esplorazione e l’esperienza sono in qualche modo rappresentate più che presenti. Questa perdita di «realtà», che ha i suoi estremi nei casi di cronaca degli ultimi tempi, non è indolore: se non tocco il mondo e non ne sono toccato, ma mi intrattengo con le sue immagini, non mi sentirò chiamato da nulla e rimarrò privo di destino, il modo di venire al mondo unico e originale di ciascuno.
Per questo per le vacanze, noi educatori, potremmo inventare qualche «esercizio di destino», allenamento a venire al mondo, cioè permettere alla vita di chiamarci a nascere di più. Le vacanze servono a questo, ad affinare il lavoro che si fa a casa e a scuola, che è trovare risposta alla domanda: «Perché sei venuto al mondo?».
Dalla risposta dipende poi ogni possibile successiva «incarnazione»: esistenziale, relazionale, professionale. I cosiddetti «compiti delle vacanze» dovrebbero essere modi di facilitare l’incontro tra noi e il mondo. Come?
Il tempo è la carne che abbiamo a disposizione per nascere del tutto, per portare a compimento ciò che possiamo essere e fare solo noi, e l’estate ce ne offre molto. Estate viene da una radice che indica l’ardere, che vorrei tradurre qui in termini di ardore interiore: mettere a fuoco e trovare coraggio.
Non basta per esempio dare libri da leggere, infatti la lettura come è vissuta oggi, per quanto possa essere di libri «canonici», non porta ad assimilarsi al libro (diventare simili a ciò che si legge), ma ad assimilare il libro (renderlo simile a sé): l’espressione «l’ho divorato» tradisce questo rapporto consumistico. La lettura per diventare esperienza del mondo (venire al mondo, andargli incontro rischiando) necessita di un altro rapporto con la pagina, non solo passivo ma attivo e creativo. Questo non vuol dire assegnare la fatidica recensione da presentare a inizio anno, ma per esempio chiedere di leggere con una matita in mano per sottolineare tutto ciò che colpisce e ricopiarlo su un diario, aggiungendo a quelle parole il motivo per cui ci hanno toccato e ciò che grazie ad esse è nato dentro di noi. Fare esperienza del mondo attraverso un libro non è divorarlo, ma rispondere attivamente alle sue chiamate, lasciarsi mordere da lui, sentirne la ferita. Per questo motivo all’inizio del periodo estivo chiedo sempre ai miei studenti di procurarsi un diario tascabile, su cui segnare (il cellulare non vale) ogni «incontro» con la realtà che avranno, doloroso o gioioso, cioè tutte le volte che si sentiranno «chiamati», per fermare sulla pagina quell’«indizio di destino». Il mondo non è mai muto, casomai siamo noi a essere sordi e da «sordo» viene infatti l’aggettivo «assurdo», ciò che la vita diventa quando manca di senso, e quindi di nascita: la parola «morte» non si oppone a «vita», ma a «nascita», per non morire dobbiamo continuare a nascere. Scrivere le chiamate è un modo di venire alla luce.
Un altro esercizio di destino che suggerisco (attraverso libri adatti) è la meditazione, pratica millenaria che ha nutrito il meglio di tutte le culture del mondo e permette di attingere alle due fonti da cui dipende il nostro destino: respiro e desiderio. Il primo, principio di animazione, permette l’accadere dell’ispirazione, dono che la vita fa continuamente se ci alleniamo a ricevere: chi è ispirato è «animato» (dal greco anemos, vento, soffio). Il secondo, principio d’azione che il mondo pagano chiamava destino e quello cristiano vocazione, è la spinta creativa (progetti) ed erotica (relazioni buone) di cui ognuno di noi è custode. Meditare ogni giorno per almeno una decina di minuti (che saranno mai sottratti a un social?), è il modo migliore per permettere a ispirazione e vocazione di accadere, fonti primarie di quella gioia che fa veramente «riposare». Non far nulla è molto più stancante, perché quello che «riposa» è il senso delle cose: più ne hanno più riposiamo, anche se sono impegnative. Quando ci «manca il respiro» o «il desiderio», stiamo respirando e desiderando «di seconda mano», perdiamo la gioia e l’andiamo a cercare dove non è. Meditare, che per alcuni è subito pregare (Agostino diceva infatti che pregare è allenare il desiderio), ci consente la presenza del presente, il vero riposo della mente e del corpo, la pienezza traboccante dell’istante. Gran parte della nostra infelicità dipende dall’incapacità di stare nel presente. È stato calcolato che passiamo quasi la metà del nostro tempo a pensare a ciò che non sta accadendo, con un costo altissimo in termini di ansia e confusione: invece di far esperienza del mondo combattiamo con dei fantasmi. La mancanza di presenza del e nel presente impedisce l’incontro tra ciò che mi viene dato e ciò che riesco a ricevere, l’ospitalità del quotidiano, senza la quale ci sentiamo sempre fuori posto, in esilio.
L’estate non è il tempo dei libri, del mare, della montagna, ma il tempo di far esperienza attraverso i libri, il mare, la montagna: un corpo a corpo che diventa incontro e chiamata. Se i ragazzi torneranno dalle vacanze con due tre domande ben radicate nella carne e qualche accenno di risposta del loro venire al mondo, allora si saranno riposati, altrimenti saranno «stanchi morti», perché non fare nulla (di sensato) è assimilare il nulla.
La poetessa Wislawa Szymborska chiede perdono per la sua Disattenzione in un giorno qualunque: «Ero come un chiodo piantato troppo in/ superficie nel muro/... È durato 24 ore buone./ 1440 minuti di occasioni./ 86.400 secondi in visione./ Il savoir-vivre cosmico,/ benché taccia sul nostro conto,/ tuttavia esige qualcosa da noi:/ un po’ di attenzione». Un giorno solo, figuriamoci un’estate intera.
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