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Rosanna Virgili «Entrò per restare con loro». La presenza di Gesù nella prima comunità cristiana

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Giugno - Luglio 2023


Un passo del libro degli Atti è, forse, quello in cui più si avverte lo sgomento che dovette cogliere gli Undici quando Gesù ascendeva al cielo. Luca li ritrae col capo alzato e gli occhi protesi a catturare l’ultimo sguardo del Signore mentre si perdeva in una nube, dopo che per quaranta giorni si era trattenuto con loro da Risorto, era apparso loro innumerevoli volte, aveva parlato, aveva ancora mangiato con loro.

 

«Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro (Lc 24,39-43). 

Visto che l’avevano ritrovato sui loro passi, dopo la frattura della morte in croce, forse pensavano di non perderlo più. Ma Gesù se ne andava di nuovo, stavolta definitivamente, dal mondo e lo sconcerto si abbatteva sui discepoli: 

Mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi […] quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,9-11). 

I due angeli, che si affacciano repentinamente sulla scena dell’Ascensione, fanno pensare ai due che le donne avevano trovato al sepolcro, la mattina di Pasqua. Vedendo che la pietra era stata rimossa e che il corpo di Gesù era sparito, esse: «Impaurite, tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto”» (Lc 24,5-6). Due messaggeri dell’altrove del Signore, del suo essere vicino ma distante, del suo segnare nel vuoto della tomba la vita di un corpo risorto, quello che Paolo chiamerà: pneûma zoˉopoiûn: «corpo spirituale, spirito datore di vita» (1 Cor 15,45). E come le donne «ricordarono» le parole che Gesù aveva pronunciato sul suo futuro: «Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno» (Lc 24,7), così gli Undici, quando Gesù ascendeva al cielo, ricordarono le parole con cui il Signore si era congedato da loro, poco prima, sul monte degli Ulivi: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Un saluto carico di messaggi, il primo: non vi lascerò soli ma vi manderò lo Spirito; il secondo: dovrete svolgere una missione grandissima, quella di darmi testimonianza fino ai confini della terra. Due messaggi che si fonderanno in un’unica esperienza e in una sola responsabilità: quella di rendere presente il Signore risorto con tutta la loro vita, i loro gesti e le loro parole. Farsi trasparenza di Vangelo, angeli della gioia della risurrezione. Il Signore risorto è presente, nel mondo e nella storia, nel “tabernacolo” del suo corpo mistico: la chiesa. Vale a dire quella realtà d’amore, di koinonia, di fraternità che rende vivo il corpo del Signore. 


«Resta con noi» 


Dopo l’Ascensione gli Undici cercarono un sostituto di Giuda e ricostituirono il gruppo dei Dodici includendo Mattia (cf. At 1,26); con loro c’erano le donne – certamente quelle che avevano fatto parte del gruppo dei discepoli con la loro diaconia (cf. Lc 8,2-3) – e anche la madre di Gesù (cf. At 1,14) insieme a molti altri, tanto che il numero complessivo della neonata comunità post-pasquale era di centoventi persone (cf. At 1,15). Da quel gruppo originario, con la forza e il fuoco dello Spirito che scende a Pentecoste, la chiesa andrà spedita verso il suo radioso futuro. Certo, il distacco da quel Gesù “terreno” che i suoi avevano conosciuto, seguito, amato, avuto come compagno e maestro di strada e di sogni, e anche dal Gesù risorto in cui avevano finalmente creduto, non era stato facile. Il Vangelo di Luca ce lo fa intuire dai toni malinconici con cui racconta del momento in cui i discepoli di Emmaus lo pregarono di fermarsi a casa loro, dopo il cammino condiviso da Gerusalemme: «Essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro» (Lc 24,29). È l’ora del tramonto, quella in cui è più difficile separarsi. Un’ora che chiede, piuttosto, di stringersi l’uno accanto all’altro. La fine del giorno e l’arrivo del vespro con le sue ombre che si allungano, è un momento in cui si accende la nostalgia, il “dolore del ritorno” verso i luoghi e i volti dell’intimità, del riposo, dell’abbraccio. Quell’ora che Dante cantava, non per nulla, con versi commossi e struggenti: «Era già l’ora che si volge il disio / ai navicanti e ‘ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio / e che lo novo peregrin d’amore / punge, se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more» (Purgatorio VIII,1-6) 

Nella poesia classica greca c’è un frammento della poetessa Saffo che aggiunge rime sublimi a far comprendere la malìa della sera, quando ogni cuore amante vorrebbe ricongiungersi all’altro: «Vespro, tutto riporti quanto disperse la lucente aurora: riporti la pecora, riporti la capra, riporti il figlio alla madre». Il desiderio, quasi l’istinto, di rifugiarsi in un nido d’amore è strattonato dalla notte che avanza e che spaventa chi è solo al mondo di cui sospira ancora l’icastica Saffo: «È tramontata la luna e anche le Pleiadi; è mezzanotte, il tempo passa; ma io dormo sola» (Fr.168b Voigt). 

Mentre di giorno ci si può distrarre dal dolore della solitudine, di notte essa diventa insopportabile. Perché «non è buono che l’uomo sia solo, voglio fargli un aiuto che gli sia simile», dice Dio «in principio» (cf. Gen 2,18). Ecco: è possibile che i discepoli di Emmaus – forse una coppia, una piccola “casa” – provasse la tristezza di separarsi da quell’uomo che s’era unito ad essi sulla via del ritorno, che era diventato loro amico mentre spiegava le Scritture. Che aveva cercato di illuminarli e consolarli dalla tristezza e dalla speranza delusa. Gesù di Nazaret, infatti, non era risorto o, almeno, loro non l’avevano visto. Finché non accadde che «egli entrò per restare con loro» (At 24,29b). Gesù si fa invitare volentieri dai discepoli di Emmaus e resta volentieri a cena con loro. Una cena che, presto, si rivela un banchetto eucaristico, perché fu proprio a tavola che, allo spezzare del pane, essi lo riconobbero: era Gesù! Era risorto, allora, ed era proprio lì, nella loro casa, in mezzo a loro. Fu così che si riaccese nella memoria del cuore anche l’ardore che li aveva infiammati quando, per la via, egli spiegava loro le Scritture. S’era compiuta una pura liturgia: dalla Parola al pane. A Emmaus, quel giorno, nell’ora vespertina – la stessa in cui, tre giorni prima, forse anche loro avevano celebrato la Pasqua con Gesù – capiscono e vivono il senso della Pasqua cristiana: il pane come corpo, il vino come sangue: il sacramento d’amore del Signore. 

Gesù è in questo tabernacolo: quello della mensa condivisa, quello in cui «chi perderà la propria vita […] la salverà» (Mt 16,25). Suo tabernacolo sono tutti i banchetti in cui l’amore suo diventa “giuntura” di carità, di perdono, di riconciliazione, di pace. Nel libro degli Atti c’è un momento della missione di Paolo in cui qualcosa di simile a quanto accaduto a Emmaus si ripropone. Siamo a Filippi, e Paolo incontra le donne che, di sabato, fuori dalle mura della città, lungo il fiume, stanno pregando. Tra loro è Lidia, una commerciante di porpora della città di Tiatir. 

Una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo. Dopo essere stata battezzata insieme alla sua famiglia, ci invitò dicendo: «Se mi avete giudicata fedele al Signore, venite e rimanete nella mia casa». E ci costrinse ad accettare (At 16,14-15). 

Come i discepoli di Emmaus, anche Lidia insiste perché l’ospite di passaggio – Paolo, appunto – si fermi a casa sua. E anche lui si fermò! L’uomo che le aveva annunciato il Vangelo della gioia, della giustificazione, della pura grazia. Che diceva di sé: «Non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me» (Gal 2,20) e ancora: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore» (Fil 3,8); quell’apostolo perdutamente innamorato del Vangelo che si era fatto tabernacolo “mobile” del Signore, andando di casa in casa, di città in città, per terra e per mare. E facendo anche della casa di Lidia un tabernacolo. 

Il Vangelo di Matteo si conclude con una promessa fatta da Gesù dopo la risurrezione: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Egli resta con noi nel tabernacolo che è il cuore della chiesa corpo d’amore e di pace.


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