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Cristiani in Terra Santa. Emarginati in casa

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La barca e il mare
Intervista a Violette Khoury, farmacista a Nazaret, cristiana.
La storia di Israele e la progressiva emarginazione della minoranza cristiana.
Il futuro incerto
Rubrica a cura di Daniele Rocchetti

La storia di Violette

“Sono nata a Nazaret nel 1938 in una famiglia cristiana palestinese. Ricordo di aver condiviso da sempre giochi, scuole, esperienze con famiglie , ebree e musulmane. Poco dopo scoppiò  la seconda guerra mondiale ma almeno in Galilea niente ci impediva di fare una vita quasi normale e di partecipare alle festività familiari e religiose islamiche, ebraiche, druse, come alle nostre cristiane.

La Nakba (la “Catastrofe” come noi palestinesi ricordiamo il 14 maggio 1948) ha distrutto non solo il sogno nazionale palestinese ma anche il tessuto sociale multiculturale della Palestina mandataria. Tutti noi all’epoca, che fossimo cristiani o ebrei o musulmani o drusi, avevamo scritto Palestina sui passaporti: persino Golda Meir, che diventerà primo ministro in Israele nel  1969 ricorda nelle sue memorie di essersi dichiarata palestinese secondo il suo passaporto.

Nel 1948 di colpo è stato cancellato tutto: Palestina è divenuta una parola impronunciabile, da allora siamo stati chiamati arabi israeliani”.  

A parlare così è Violette Khoury, un’amica carissima che cerco di incontrare ogni volta che vado in Israele. Violette parla un eccellente italiano.

“L’Italia ha significato una svolta nella mia vita. Vi sono arrivata quando avevo vent’anni e  ho scoperto che esisteva gente che viveva in pace, senza timore di guerre e attentati. Dopo un’infanzia e un’adolescenza segnate dell’incertezza, dalla paura, da perenni umiliazioni, avevo chiesto un permesso militare per potermi iscrivermi all’università a Gerusalemme.

Mi sarebbe stato accordato se avessi ‘venduto’ i miei amici facendo la spia. Così ho deciso che sarei partita per Roma dove ho potuto studiare Farmacia. Una volta arrivata nella Capitale, non mi riconoscevo più, mi sentivo estranea a me stessa. Era come se fossi uscita da uno stato perenne di malattia. Potevo assaporare la libertà di essere me stessa, di esprimermi senza essere giudicata, di integrarmi e venire accettata. Di vivere nella verità e non nelle manipolazioni. Potevo godere della gioia di essere in armonia e di non dovermi difendere dalle discriminazioni quotidiane”.

Sei una persona dalle molte identità: donna, cristiana, cattolica melkita, araba, cittadina israeliana. Come riesci a conciliarle tutte?

Dentro di me le sento tutte importanti. Ogni componente  mi dà ricchezza e mi obbliga da sempre a vivere la sfida di cercare una riconciliazione armoniosa tra le differenze che mi costituiscono e che compongono un bel mosaico.  Ho imparato che molto spesso le contraddizioni sono imposti dai pregiudizi e dalla politica piuttosto che dalla realtà umana.

Dopo che sei tornata da Roma con la laurea hai aperto una farmacia nel cuore di Nazareth, non lontano dalla Basilica…

Nei 47 anni in cui ho gestito con mio marito la nostra farmacia a Nazaret ho conosciuto migliaia di ebrei e di palestinesi della Galilea. Ho assistito alla giudaizzazione della Galilea con l’espropriazione delle terre, alla crescita dell’estremismo religioso fra i musulmani, ho visto l’emigrazione dei cristiani: anche una delle mie due figlie si è trasferita negli Stati Uniti.

Ho capito che per noi cristiani impegnarsi per la giustizia e la pace è un obbligo e non una scelta. Questo credo sia tanto più vero in questa regione e come eredi della prima Chiesa del mondo, di fronte ai rischi che il razzismo, il fanatismo, il rifiuto dell’altro portino a una distruzione interna irreversibile. Ho imparato che, tanto più siamo circondati dal rifiuto della verità, dall’indottrinamento, dai pregiudizi, dai muri di separazione visibili e invisibili, tanto più dobbiamo cercare la pace basata sulla giustizia e sulla verità e non la pax romana basata sul potere”.

I cristiani in terra di Israele sono numericamente poca cosa…

Rappresentiamo meno del due per cento della popolazione e, visti da fuori, la nostra pare un’esistenza fragile. Eppure sentiamo una solida appartenenza alla terra, con radici profonde di molti secoli. La Chiesa locale è quella che è sempre esistita, dagli Apostoli in poi, e ha mantenuto attraverso i secoli e le generazioni la fede cristiana in questa terra. Oggi vogliono farci sentire estranei ma sono ben consapevole invece che noi apparteniamo a questa terra e questa terra ci appartiene. Da cristiana sono  cosciente che i Luoghi Santi sono rimasti tali grazie alla nostra ininterrotta presenza. Più che mai dobbiamo tenerla viva.”

A volte tu racconti di sentirti straniera in questa terra

Da cittadina israeliana araba non ebrea, in uno stato per gli ebrei e non per tutti suoi cittadini, secondo la legge dello stato-nazione promulgata nel 2018, sono soggetta a discriminazione etniche,  a leggi discriminanti, lontana dall’avere diritti uguali agli ebrei.

Fin dall’inizio dello Stato d’Israele, i cittadini arabi – sia cristiani che musulmani – sono stati  considerati di seconda categoria. Questo ha costretto  molti, soprattutto cristiani, ad emigrare. Sì, siamo un popolo sofferente ma non debole. La fatica a dire chi siamo, la mancanza di terreni e di luoghi, la marginalizzazione della voce e degli interessi del popolo locale, ci fa sentire stranieri nel nostro paese, spesso impotenti, schiacciati e abbandonati.

Ti sei impegnata molto nell’azione ecumenica

Sì, per quasi trent’anni ho diretto il centro Sabeel a Nazaret. Ho creduto che bisogna lavorare, come ci dice Gesù, per una pace che abbia sempre a che fare con la giustizia. Ma soprattutto ho sentito importante conoscere e far conoscere la verità: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Giovanni 8, 32). Questa è la vocazione di noi cristiani palestinesi. Come trasmettere ai miei figli e nipoti la loro identità, affermare la storia di questa terra e di chi la abitava di fronte alla narrativa scolastica israeliana secondo la quale la Palestina nel 1948 era una terra deserta? Come portare i miei amici ebrei a guardare in faccia la verità, fuori dall’ipocrisia dei compromessi, e restare amici senza suscitare rancore? Ho anche realizzato quanto sia necessario agire a livello sociale per una società solida e sana, una struttura sociale pluralista ma coerente per affrontare un fanatismo distruttivo”. 

Per questo, hai deciso di dare vita con le donne di Nazareth a Nasijona?

Proprio per questa ragione. Nasijona, (che in arabo vuol dire  “il nostro tessuto”, per indicare il tessuto lavorato ma anche il tessuto sociale), dal 2014 ad oggi, in locali non lontani dalla Basilica dell’Annunciazione messi a disposizione dalla Congregazione delle Suore di Nazareth, ha cercato di fornire un luogo di aggregazione a donne cristiane, ebree e musulmane per ritrovarsi e agire insieme lontano dai pregiudizi, e riscoprire legami umani e fraterni.

E’ stato un lavoro straordinario. In un tempo in cui la società di Nazareth sta andando verso la disgregazione totale abbiamo voluto incoraggiare alcune iniziative di sviluppo economico con una maggioranza di donne nella città vecchia, ormai deserta; contribuire a salvare alcune forme di artigianato artistico che stavano scomparendo; ritrovare l’orgoglio delle proprie radici; dare la possibilità a centinaia di donne di uscire dalla solitudine, usare le loro competenze ed energie per produrre ed essere socialmente attive; far conoscere alle nuove generazioni le loro origini, le loro tradizioni e fare un ponte tra le generazioni.  In più l’associazione ha organizzato campi estivi per 150 bambini e adolescenti ogni anno e promosso incontri di pellegrini e turisti con la comunità locale e la vendita dei prodotti tradizionali fatti a mano a Nazaret.

Tutto questo però rischia di finire…

Quella che sembrava essere diventata la casa per tutti, dove – a detta dei tantissimi che la frequentava – si viveva lo spirito di Nazareth, ora è a rischio di sopravvivenza. La Congregazione che ci ha offerto il posto ha lasciato la responsabilità dei locali a una nuova istituzione religiosa cristiana e nonostante la richiesta delle suore di lasciarci gli spazi, questa ci ha chiesto di svuotare tutto e di lasciare libero entro il mese di maggio. I nuovi proprietari sono stranieri e non comprendono fino in fondo i problemi che viviamo. Per noi è un colpo durissimo, una nuova ferita, che ci mette davanti  alla  dura realtà: siamo stranieri nel nostro paese.

Ora siamo alla ricerca di un locale adatto, ma per chi conosce la mancanza di locali a Nazareth può capire la nostra agonia e le nostre preoccupazioni. Eppure crediamo che Dio non ci abbandona e continueremo fino alla fine ad andare avanti. Per chi ci volesse seguire guardi il nostro sito: www. nasijona.org


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