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Sabino Chialà "L’emergenza della coscienza nelle Scritture giudeo-cristiane. L’Antico Testamento"

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Nell’at il concetto è ben presente, senza tuttavia che gli corrisponda un termine univoco. Il greco synéidesis, che il nt impiega per indicare la coscienza, è rarissimo nella versione greca dei lxx. Compare appena tre volte e nei libri più recenti (cf. Qo 10,20; Sap 17,10; Sir 42,18, in una variante), probabilmente perché si tratta di un termine di origine filosofica, entrato nel mondo ebraico attraverso Filone d’Alessandria.
In ebraico, invece, è il termine leb a guidarci alla scoperta del nostro concetto. Normalmente tradotto con “cuore”, esso mostra di avere un’ampiezza semantica ben più estesa di quella ricoperta dal sostantivo italiano, corrispondendo in vari casi al nostro “coscienza”. Un testo emblematico è costituito dal Primo libro dei Re 3,9, dove Salomone chiede al Signore un “cuore ascoltante” (leb šomea῾), per essere in grado di fare giustizia al popolo e discernere il bene dal male. Qui per “cuore” si intende chiaramente lo strumento necessario al discernimento, il criterio, secondo l’immagine del Crisostomo, dunque la coscienza. Analogamente, in un passo di Giobbe il medesimo termine è presentato come istanza interiore: “Mi terrò – dice Giobbe – saldo nella mia giustizia senza cedere. La mia coscienza [letteralmente: “il mio cuore”] non mi rimprovera nessuno dei miei giorni” (Gb 27,6). 
E l’autore del Qohelet afferma: “Non prestare attenzione a tutte le dicerie che si fanno, così non saprai che il tuo servo ha detto male di te. 
Infatti la tua coscienza [letteralmente: “il tuo cuore”] sa che anche tu tante volte hai detto male degli altri” (Qo 7,21-22).
Nel Siracide, un testo giunto a noi in greco ma di cui è attestata una versione in ebraico, si parla del “consiglio del cuore” come di un’istanza interiore: “Attieniti al consiglio del cuore (boulèn kardías), perché nessuno ti è più fedele. L’animo di un uomo (psychè andrós), infatti, talvolta suole avvertire meglio di sette sentinelle collocate in alto per sorvegliare” (Sir 37,13-14). Qui il concetto è espresso con l’immagine del cuore e con quella dell’animo, una variatio che non è solo artificio poetico, mostrando invece la difficoltà a esprimere tale realtà in modo univoco.
Abbiamo dunque un termine tecnico greco, raro nella Bibbia dei lxx, e varie ricorrenze, di cui ho enumerato solo pochi casi esemplificativi, in cui è il sostantivo ebraico leb (“cuore”) a indicare il concetto in questione. Vi è ancora una terza tipologia di luoghi biblici di cui tener conto nella nostra indagine: i casi in cui il concetto è presente, senza però l’impiego di un termine specifico. Vale a dire quei passi in cui si parla di esseri umani che avvertono dentro di sé come un’istanza che li induce a esprimere un giudizio 
di valore su una qualche realtà o situazione, in particolare in riferimento a sé stessi. Gli esempi sono molti ma, per esigenze di brevità, mi limiterò ai primi due riportati nella Bibbia, che possiamo considerare come i testi fondatori dell’esercizio della coscienza, da cui anche ricaveremo importanti indicazioni circa la sua origine e la 
sua pratica: Adamo ed Eva dinanzi al proprio peccato, e poco oltre Caino che si confronta con l’omicidio del fratello Abele.
La prima esperienza di coscienza narrata dalle Scritture compare nella vicenda di Adamo ed Eva. Subito dopo aver mangiato il frutto proibito, dice il testo: “Si aprirono gli occhi di tutti e due, e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Gen 3,7). Quasi naturalmente, vale a dire spontaneamente e prima di qualsiasi intervento da parte di Dio, appena commesso quell’atto che infrangeva il comando divino, qualcosa si muove dall’intimo dei progenitori: una coscienza che si leva e che, significativamente, è espressa con l’immagine dell’apertura degli occhi. Il testo dice infatti che si aprirono i loro occhi e videro “qualcosa”, una situazione, che ha a che fare con il male da essi commesso. Possiamo considerare questo brano come la prima esperienza della coscienza dell’uomo biblico: la coscienza della prevaricazione nei confronti di Dio e del suo comando, l’infrazione di un limite e il ferimento del legame con il Creatore.
Si tratta ancora di una coscienza confusa, che spinge l’uomo a nascondersi (cf. Gen 3,8). Egli sa di aver trasgredito un limite, vede la propria nudità, vale a dire la propria fragilità e vulnerabilità, quindi si nasconde preda della paura, come dirà poco oltre: “Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto” (Gen 3,10). Si tratta di un moto primario, che ha bisogno di essere elaborato. A questo indurrà l’intervento di Dio, che entra in scena rivolgendo ad Adamo una domanda, la prima attestata dalla Bibbia, significativamente rivolta da Dio all’uomo e non il contrario: “Dove sei?” (Gen 3,9).
Evidentemente non è Dio ad aver bisogno di quella domanda né della relativa risposta, ma l’uomo. Essa è volta a spingerlo a prendere coscienza dell’atto commesso e del “luogo” in cui di conseguenza Adamo si trova. Definisce così quale sia la parte di Dio nell’elaborazione di quel primo rigurgito di coscienza che l’essere umano aveva istintivamente esperito: il Creatore invita Adamo a posizionarsi, a riconoscersi in verità, nella sua condizione.
In questa prima narrazione, notiamo come la coscienza umana si articoli ed emerga: vi è una certa consapevolezza dell’uomo, che appare naturale e istintiva, cui fa seguito una parola da parte di Dio che interviene per aiutarlo ad affinare quel processo di riconoscimento. Questo brano indica dunque che nel processo di formazione e di espressione della coscienza vi è compartecipazione tra l’uomo e Dio.
Poco oltre, in Genesi 4, è narrato l’altro grande dramma dell’umanità: dopo quello della disarmonia tra l’essere umano e Dio, è la volta della crisi del rapporto fraterno tra Caino e Abele. 
Anche in questo caso l’episodio mette in luce l’emergere di una presa di coscienza, che si manifesta in modo ancora più complesso, e soprattutto seguendo un percorso inverso rispetto al caso precedente. Qui infatti l’intervento da parte di Dio precede la consapevolezza dell’uomo.
La narrazione inizia descrivendo Caino che “è irritato e ha il volto abbattuto”, perché il Signore non ha gradito la sua offerta, mentre ha gradito quella di Abele (cf. Gen 4,5). Dio allora interviene con una domanda, che possiamo intendere come un invito all’esercizio della coscienza: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (Gen 4,6-7). Dio interpella la coscienza di Caino: questi sa, avendone un’intima percezione, se ha agito bene o male; il Signore gli chiede dunque di essere conseguente. Se la sua coscienza non lo accusa, non ha motivo di essere abbattuto. Quella coscienza potrà essere per lui lo strumento con cui opporsi al male che lo insidia facendo leva sulla forza dell’invidia, e così ritrovare la pace. Detto altrimenti: se in coscienza sente di non aver fatto nulla di male, non ha da temere, neppure se gli sembra che Dio agisca con lui in modo ingiusto, e dunque può resistere a quel male che sta covando dentro di sé. 
La coscienza appare qui come istanza di pacificazione dinanzi a ciò che Caino non comprende, e significativamente il testo non offre elementi per giustificare l’agire di Dio; sarà la tradizione successiva a cercarli, forse non cogliendo del tutto proprio questa funzione della coscienza dinanzi all’ingiustizia (apparente) di un Dio che accoglie il dono di Abele e non quello di Caino.
Questi però non obbedisce a Dio che lo rimanda alla sua istanza interiore e uccide il fratello. Commette così un gesto che è dunque presentato come la conseguenza del mancato ascolto da parte di Caino della propria coscienza, suggerendo che ogni omicidio e ogni male non è che l’effetto di un momentaneo oblio di quest’ultima. Ciò provoca la domanda di Dio, la seconda dopo quella rivolta ad Adamo: “Dov’è Abele tuo fratello?” (Gen 4,9). Dopo l’invito a rispondere di sé, ecco una seconda interpellanza con cui è chiesto di rendere conto del proprio fratello. Abbiamo qui, come vedremo più avanti, le due domande fondamentali che, secondo la Scrittura, intervengono nella formazione di una coscienza: dove sono io e dov’è l’altro.
Caino cerca ancora di sfuggire, ma alla fine cede e finalmente “prende coscienza”, le si arrende al punto da lasciarsene quasi sopraffare: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono” (Gen 4,13). Ma il Signore interviene nuovamente liberando anche Caino dal peso schiacciante di quella colpa, dichiarando che nessuno ha il diritto di uccidere il fratricida. Mette dunque su di lui un segno che lo protegga (cf. Gen 4,15), agendo in modo analogo a quanto aveva fatto per i due progenitori, allorché li aveva rivestiti di tuniche perché la vergogna suscitata dalla presa di coscienza del male fatto (cf. Gen 3,21) non li schiacciasse. Ora, analogamente, impone a Caino un segno che lo protegga dalla vendetta.
In ambedue le vicende osserviamo così un processo di insorgenza della coscienza che riconosce il male commesso grazie alla cooperazione di due agenti: quel qualcosa che l’essere umano ha dentro di sé, e una parola che viene da Dio e lo interroga ponendolo dinanzi a sé stesso e all’altro. Ma in ambedue i racconti abbiamo anche quello che potremmo chiamare “il superamento della coscienza”, attraverso la liberazione che Dio viene a offrire, perché l’essere umano non ne resti schiacciato: la tunica di cui ricopre i due progenitori e il segno di riconoscimento che preserva Caino dalla vendetta.
Come dicevo, in ambedue gli esempi non abbiamo alcun termine specifico che indichi il nostro oggetto di indagine; è però descritta la realtà e soprattutto ce ne viene mostrato il processo di formazione, su cui tornerò più avanti. 
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma questi sono sufficienti.

tratto da "Pensare e Dire" Edizioni Qiqajon

Pensare e dire… coscienza e parresia: due dimensioni essenziali dell’essere e del relazionarsi. Con un taglio esperienziale e pratico si indicano qui percorsi che aiutino a rivisitare il proprio vissuto: i pensieri che lasciamo abitare in noi e le parole che transitano per le nostre labbra. 

AUTORE Sabino Chialà (Locorotondo 1968) è monaco e priore di Bose dal 2022 a oggi. Studioso di ebraico e siriaco, si è dedicato in particolare allo studio della figura e dell’opera di Isacco di Ninive, di cui ha recentemente pubblicato la prima traduzione italiana completa della prima collezione dei suoi scritti.


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