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Brunetto Salvarani "È tempo che le Chiese vivano la vita vera"

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È tempo che le Chiese vivano la vita vera
Avvenire 20 aprile 2023 

“Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano” è il nuovo libro del teologo e scrittore Brunetto Salvarani, da oggi in libreria (Laterza, pagine 230, euro 20), di cui anticipiamo un estratto dalle conclusioni.

L’analisi muove dall’evidenza che tutte le Chiese cristiane sono in crisi, soprattutto nei Paesi europei. Un cambiamento epocale che procede quasi in parallelo con le evidenti modificazioni della società occidentale nel suo complesso. E se è lecito domandarsi cosa resterà della Chiesa e della fede cristiana di oggi nei prossimi decenni è altrettanto essenziale chiedersi cosa resterà del nostro modello sociale se i valori cristiani che l’hanno edificato nei secoli vanno scemando. Istanze che pretendono dalle Chiese un esame di coscienza e la necessità di tornare a essere credibili. 

La crisi del cristianesimo chiede rinnovamento e già emergono segni da non disperdere. Forse l’offerta religiosa tradizionale è scollata dagli stili contemporanei, però emerge un’inevasa domanda di senso e di spiritualità E la pandemia ha fatto assaporare in molte famiglie il valore dei riti domestici. 

La crisi delle Chiese – con le loro trasformazioni e le loro prospettive – [...] riguarda i credenti, ma anche la società tutta: we care, si potrebbe dire, parafrasando don Milani. È un evento ormai conclamato che non dovrebbe lasciarci indifferenti, l’esculturazione del cristianesimo dal paesaggio sociale e dall’immaginario europei; un evento che giustificherebbe ampiamente l’aprirsi di un dibattito pubblico, di cui in realtà per ora si fatica alquanto a scorgere i contorni. Per certi versi – c’è chi sostiene – il tramonto del cristianesimo storico, per come sta avvenendo in Occidente, è abbastanza facile da spiegare. Fino a descriverlo nei seguenti termini: «Le Chiese cristiane hanno collettivamente fallito nel loro compito fondamentale, ovvero continuare a raccontare la loro storia fondativa in un modo che sappia parlare alla loro epoca. Hanno fallito in quello che gli ebrei chiamavano midrash: l’arte di rimettere mano alle storie per adattarle ai tempi». Per cui, prosegue impietosamente l’analisi, «il Gesù della Chiesa è un residuo legnoso di una stanca dottrina che parla di un Signore Dio benevolo e onnipotente che sta nei cieli, della Trinità, della remissione dei peccati, della santa Comunione, della resurrezione dalla morte e così via». Ma «quasi nulla di tutto questo oggi fa presa sulla gente» (J. Carroll, L’enigma Gesù, Fazi 2013). 

Su quest’ultima considerazione, in realtà, sarebbe difficile dar torto al sociologo John Carroll. Eppure, se gran parte della popolazione del vecchio continente ha voltato da tempo le spalle alla sua religione tradizionale, a una burocratizzazione del sacro che non riesce più ad attrarre né a interessare, la ricerca di senso, la nostalgia di un cielo e di un rifugio in cui accamparsi, l’esigenza di protezione, di accettazione, di conferme non sono certo diminuite rispetto al passato; anzi, forse mai come nel nostro tempo gli uomini danno la sensazione di essere naufraghi ansiosi di raggiungere una terra, un approdo dove trovare risposte (l’immagine suggerita dal sociologo Alain Touraine ci presenta «tutti soli, come attori in un teatro vuoto»). No, l’abbandono delle pratiche e la cosiddetta crisi di Dio non stanno causando la scomparsa dei bisogni di senso, della consolazione e della ritualizzazione che costituivano il fondamento dell’antica domanda religiosa, anche se questi elementi si sono, in buona parte, trasformati e vengono reinvestiti altrove. Occorre prenderne atto, come fa Giuliano Zanchi scrivendo da Bergamo, epicentro italiano della pandemia: «Mai come in questi momenti si può avere consapevolezza di quanto le nostre parole religiose siano consumate, estenuate dall’abuso, depotenziate dal controllo: esse ora scivolano sulla realtà, in questi giorni così brulicante, come acqua su una tela cerata. Non ce ne siamo presi cura che per blindare la loro immutabilità. Ora non abbiamo che fossili verbali utili solo alla stratigrafia di un mondo scomparso» (G. Zanchi, I giorni del nemico, Vita e Pensiero 2020). Lo ribadisce un teologo ceco assai attento alle trasformazioni del cristianesimo: « Forse è giunto il tempo di abbandonare molte di quelle parole pie che abbiamo continuamente sulle nostre bocche e sui nostri stendardi. Queste parole, a causa di un uso continuo, spesso troppo superficiale, sono consumate, usurate, hanno perso il loro significato e il loro peso, si sono svuotate, diventando leggere e facili. Altre invece sono sovraccariche, rigide e arrugginite; sono diventate troppo pesanti per riuscire a esprimere il messaggio del Vangelo, la buona novella» (T. Halík, Pazienza con Dio, Vita e Pensiero 2020). 

Di fronte a questi scenari, dopo duemila anni, appare evidente che il cristianesimo, giunto ormai al suo inevitabile appassimento come sistema religioso, sia oggi convocato a radicarsi di nuovo nell’esigente logica della parola evangelica. Per quanti si sentano coinvolti c’è da rimboccarsi le maniche ma soprattutto il pensiero. [...] Investire in formazione rimane l’unico modo possibile per preparare il futuro, per seminare futuro. E la formazione richiede inventiva, risorse economiche e mentali, lungimiranza, e la pazienza dei passi brevi nella coscienza dei tempi lunghi. Certo, nel futuro contesto sempre più secolarizzato e postsecolare, quel che resta del cristianesimo e dei cristiani – non solo in Occidente – si troverà a operare in uno spazio pubblico affollato di proposte etiche, morali, spirituali e teologiche variopinte, non di rado in contrasto fra loro e destinate a confrontarsi con il basso continuo della permanenza di atteggiamenti e stili di vita pienamente secolarizzati. Qui siamo, con le macerie del cristianesimo di ieri ancora fumanti. Ma non servono, e non serviranno, posture passatiste. 

[...] Un esempio di sorprendente ridislocazione in grado di indicare una strada percorribile si è avuto al tempo della pandemia globale, a causa della quale è bastato un minuscolo virus a inceppare nel profondo la macchina sociale e la nostra psiche, smascherando, mentre ci costringeva a mascherarci, inconsistenze e squilibri che erano già in atto da tempo, a tutti i livelli della nostra vita, personale, familiare e collettiva. E la macchina ecclesiale non ha certo fatto eccezione. Nel primo lockdown il granellino di sabbia detto Covid-19 ha contribuito a interrompere una classica catena di trasmissione: sospese le celebrazioni e la catechesi per i bambini, rinviate a data da destinarsi le somministrazioni dei sacramenti, funerali celebrati in fretta e furia per paura del contagio. Colpiti, inoltre, al cuore dell’anno liturgico, il triduo pasquale. C’è chi ha provato la resistenza, tentando la ripresa ma rischiando la resa. Certo, appena si è intravisto uno spiraglio le parrocchie hanno recuperato le prime comunioni e le cresime arretrate, ripristinando la tradizionale pastorale sacramentale: poco altro (soprattutto, poca riflessione su quanto stava accadendoci). 

È difficile scorgere, oggi, ragazzi e giovani alle celebrazioni liturgiche. Tuttavia, sebbene a caro prezzo, può essere questo un tempo di grazia, la definitiva scomparsa di un mondo e forse, a prendere sul serio il cammino sinodale apertosi ad autunno 2021, l’inaugurazione di una fase di piacevoli sorprese. Perché la Chiesa, per dire così, in quel frangente si è spostata nelle case, mentre noi non l’avremmo mai fatto di nostra iniziativa. Non conta in quante, ma conta che sia avvenuto, e che in molte case si sia allestito, durante il triduo pasquale, un tavolo con la Parola di Dio aperta, un lume acceso, un pane spezzato, un calice di vino, un mazzo di fiori. Conta che sia avvenuta una celebrazione domestica presieduta da una ministerialità familiare, laica, spesso femminile; che i riti abbiano ripreso posto nella vita e abbiano cominciato a sentirne il sapore. 

Ecco quanto non si dovrebbe più fare: sequestrare nuovamente le celebrazioni e tornare a chiuderle nelle chiese, rendendole una volta ancora un’esclusiva clericale, a dispetto del linguaggio della celebrazione comunitaria. Prendersi cura di quanto è appena sbocciato significherebbe incoraggiare piccoli riti personali e familiari, riti di fede alla misura del tempo, dello spazio e del luogo di una famiglia normale. Da questa ritualità familiare riattivata potrà forse un giorno nascere il coraggio di fare ciò che non avremmo mai fatto da soli: riaprire il dossier delle nostre intoccabili forme celebrative, affinché i riti tornino a ospitare la vita e in tal modo liberino la loro potenza generativa nel fornirle una forma nuova, redenta e salvata. 


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