Il vademecum della speranza dei poveri timorati di Dio
Qui l'introduzione a questo testo.
Una religiosità indotta dai “professionisti della religione”
Sarebbe sbagliato dire che la spiritualità contrassegnata (…) da un rapporto con Dio onnipotente e giudice giusto ma implacabile, dalla conseguente riduzione di Cristo a redentore per il riscatto dal peccato, da un radicato senso di colpa, dalla centralità della nozione di sacrificio nella storia della salvezza e nella vita del cristiano, da una concezione della vita come espiazione-sofferenza-sopportazione-rassegnazione, (…) sia tipica dei ceti popolari (…).
A meno che non si estenda il concetto di “popolare” alla quasi generalità dei tanti credenti che ricorrono ai sacramenti come a talismani prodigiosi ex opere operato, quando non vengono dissacrati da un uso mondano delle loro celebrazioni, divenute occasioni per ottenere costosi regali e organizzare feste e sfarzosi banchetti caratterizzati da scandalosi sperperi di danaro e di risorse.
A meno che non si includano tra le pratiche “popolari” le tante manifestazioni di venerazione per reliquie, statue, effigie, ampolle e altri materiali “taumaturgici”, fatti oggetto di un feticismo sacro ed esibiti a folle di fedeli ammirati e commossi.
A meno che non si comprenda nella nozione di “popolare” l’esistenza di organizzazioni politiche che fanno sfoggio di croci nei loro emblemi o che esibiscono rosari per carpire il consenso ed esercitare un potere che ha poco di cristiano.
A meno che non si ritengano “popolari” quelle manifestazioni che vedono prelati in stola e mozzetta gestire, in connubio con gerarchie politico-industriali, cerimonie sciamaniche per benedire armi ed eserciti di morte.
In verità, dalla lettura-analisi di queste preghiere dialettali popolari è investito e messo in discussione tutto un modo di concepire e di praticare la religiosità da parte di cristiani di qualsiasi livello culturale e appartenenza sociale. Il Dio che si prega è il Dio in cui si crede. E sebbene si affermi che «Dio nessuno l’ha mai visto» (Gv 1,18) e si ripeta che «ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa» (1Cor 13,12), a Dio ci si rapporta come a un padrone dispotico e giudice severo, pronto a condannare e punire. In funzione del premio e del castigo minacciato viene ancora regolata la vita, organizzata la giornata, scandito l’anno, sono celebrate le festività, è informata la religiosità fatta di consuetudini, precetti, riti di passaggio e convenzioni, contravvenendo ai quali si commetterebbe peccato. (…).
Se a livello popolare è radicato il devozionismo, è perché da cattedre e pulpiti si insisteva (e si insiste) nell’esortazione alle “pie pratiche”: la coroncina alla Divina Misericordia, il rosario, la via crucis, il triduo, la novena, giaculatorie e preghiere per lucrare indulgenze che rendono profittevole la recitazione incentivata nella quantità e nella ripetitività, insieme alla consuetudine di baciare le statue, di accendere le candele, di indossare medaglie ed abitini, di procurarsi santini da sistemare sugli altarini casalinghi o sui comò. Malgrado il monito di Gesù in Mt 7, 21478, per molti cristiani – di qualsiasi ceto e livello culturale – pregare significa dire o recitare le preghiere. Eppure Gesù minaccia una condanna più grave agli scribi riveriti e boriosi che «ostentano di fare lunghe preghiere» (Mc 12,38-40) e, dopo aver deplorato il comportamento degli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini, esorta: «Pregando, poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro» (Mt 6,5. 7-8).
Pregare per Gesù era naturale. Senz’altro avrà recitato la preghiera dello Shemà al mattino e alla sera e la t?fill?h, la preghiera di petizione o di ringraziamento. Ma non ne ha mai fatto una questione di dovere, non ha mai imposto la preghiera con un comandamento, né ha mai prescritto tempi, luoghi, modalità e quantità relativi alla preghiera. Non avrebbe potuto mai prescrivere un’operazione tartufesca e irragionevole: non si può obbligare a dire “ti amo” al/la proprio/a amato/a; né si può regolare con un disciplinare un empito del cuore.
La preghiera non può essere un’espressione formale ed esteriore, un adempimento obbligatorio, anche se, a partire dal medioevo, è stata intesa come un dovere legale ed è stata imposta come officium (= dovere) nelle preghiere delle ore; anche se è stata considerata un’opera meritoria e collegata a premi e indulgenze o, in caso di omissione, a un castigo (…). La preghiera non è un evento momentaneo. Al limite, non è nemmeno riducibile a una conversazione con Dio, anche se si alimenta di colloqui con Dio. A parte il fatto che, se si esclude l’ascolto, il dialogo con Dio rischia di trasformarsi in un monologo. Se il pregare si limitasse solo a un parlare, non si spiegherebbero le continue esortazioni di Gesù a «pregare sempre, senza stancarsi» (Lc 18,1). «Pregate incessantemente» (1Tess 5,17), «di continuo», «sempre» (2Tess 1,11; 2,13), ripete Paolo. «La vita è una preghiera continua», sottolinea Origene; e Agostino conferma: «Esiste una preghiera interiore incessante». Friedrich Heiler riepiloga: «I geni religiosi rimangono in contatto continuo con Dio per mezzo della preghiera».
Gli è che, come giustamente rileva Adriana Zarri, la preghiera è «uno stato, un abito, un atteggiamento esistenziale, un modo di essere, una vita […]. Solo se la preghiera è un atteggiamento esistenziale, un vero e proprio modo di essere, allora quel pregare incessante e senza spazi vuoti diviene possibile; di più: diviene necessario e inevitabile, al punto che non è più possibile il contrario». (…). Scrive Enzo Bianchi: «La preghiera tende, così, a farsi vita, permea tutta l’esistenza del credente, che può cantare con il salmista: “Io sono preghiera” (Sal 109,4). Egli non fa più preghiere ma diventa preghiera, come si è potuto scrivere di Francesco d’Assisi: “Non pregava più, era ormai divenuto preghiera” (Non tam orans, quam oratio factus: Tommaso da Celano, Vita seconda 95)».
La preghiera non può essere scollegata dalla vita e non può essere senza conseguenze per quanto riguarda i doveri sociali, la comunità umana, la fratellanza universale, non può essere altra cosa da una vita coerentemente ispirata ai sentimenti espressi dall’orante. (…). Un uomo di preghiera è innanzitutto corresponsabile dei fratelli sofferenti, del consorzio umano e dell’ambiente naturale, per poter esercitare il sacerdozio nei confronti della divinità. Perché la preghiera, anche se celebrata nel segreto e in solitudine, non è mai un atto solitario e un’espressione solipsistica.
Per questo non ha senso una preghiera come “Signore salvami!”. Nei momenti di pericolo o di difficoltà siamo sollecitati – e noi stessi siamo spinti – a invocare aiuto, a chiedere assistenza. Ma Alberto Maggi osserva che questa non è una preghiera, ma mancanza di fede. «Due volte si trova nei vangeli l’espressione “Salvaci Signore!” (Mt 8,25-26; 14,30-31) e tutte due le volte questa invocazione provoca un rimprovero da parte di Gesù: “Perché avete paura, uomini di poca fede?”[…]. La più grande offesa che si può fare al Signore è porre in dubbio il suo amore. Come non potrà salvare, se ha dato la sua vita per la salvezza degli uomini? “Se Dio è per noi chi sarà contro di noi?”, scrive Paolo ai Romani, nella certezza che “per quelli che amano Dio, tutto concorre al bene” (Rm 8,31.28)».
Ma è inutile nasconderlo: la preghiera per la stragrande maggioranza delle persone è richiesta, domanda, petizione, supplica, impetrazione, implorazione per ottenere favori o per un intervento prodigioso nel momento del bisogno. Si prega per superare un esame, per trovare un lavoro, per star bene in salute, per guarire da una malattia, per proteggere i propri cari, per intercedere per i nostri defunti. Utilizzata in tal modo, la preghiera diventa un atto tutto umano, comprensibilmente umano (lo si è visto), ma inevitabilmente svalutativo, se non irriverente, nei confronti di Dio Padre che «sa di quali cose abbiamo bisogno ancor prima che gliele chiediamo» (Mt 6,7). Se «perfino i capelli del nostro capo sono tutti contati» e Gesù continua a ripetere «non abbiate dunque timore» (Mt 6,30-31), perché rivolgersi a Dio per consegnargli i nostri cahiers de doléances o i nostri pizzini di raccomandazioni, i nostri messaggi vocali di richieste o le nostre letterine impetratorie come per Babbo Natale? Servirsi di Dio come di un ombrello da aprire all’occorrenza o di un paracadute per il salvataggio nostro o di altri, contattarlo come agenzia di assicurazione o ufficio di raccomandazione è alquanto limitativo del ruolo di Dio, trasformato in un deus ex machina.
Tra l’altro, «di nessuna di queste cose, che pure stanno tanto a cuore agli uomini, Gesù ha garantito l’esaudimento. Senza dubbio è buono pregare per la salute e per il lavoro, per la felicità e per l’amore, fiduciosi che il Signore esaudisce queste richieste, eppure l’unica cosa che Gesù ha assicurato e che si è impegnato a esaudire […] [è] “lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,13). Lo Spirito Santo. Raramente viene richiesto nella preghiera personale. Eppure è l’unica cosa che il Signore ha garantito di dare: lo Spirito Santo, cioè la capacità d’amare gli altri con la stessa qualità d’amore e la stessa forza del Padre. L’unica preghiera di cui venga garantito l’esaudimento» (A. Maggi).
La preghiera come progetto di vita e impegno per gli altri
Tralasciati dunque i bisogni, le esigenze, le richieste, i desideri personali, superata cioè la funzione egoistica della preghiera, cessata la ingenua domanda di intervento soprannaturale negli affari umani e acquisito il punto di vista di Dio, la preghiera diventa assunzione di consapevolezza di una personale iniziativa per correre in aiuto degli altri. (…).
Il limite più vistoso che si rileva nella religiosità dei credenti sta nello iato, anzi nella discrepanza, tra la momentaneità del raccoglimento religioso e l’ordinarietà della vita extra ecclesiam, tra la ritualità liturgica e la routine quotidiana, tra la preghiera (concepita come temporanea digressione) e la vita (trascorsa nella consuetudinaria inerzia e indifferenza per l’altro). Forse, se si ponesse l’ascolto alla base dell’incontro con Dio che è Parola e se si concepisse la preghiera come risposta finalizzata all’amore verso Dio e verso i fratelli, si capirebbe che preghiera è azione prodiga per gli altri, è condivisione e compartecipazione alle sofferenze del prossimo: tutt’altro che autoisolamento e atarassia solipsistica che condannano gli incolpevoli anawin, i poveri, al loro destino. «Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato individui senza colpa» (Mt 12,7).
L’adempimento del precetto domenicale, la frequentazione della chiesa, lo scrupoloso ossequio alle disposizioni ecclesiastiche, il meticoloso assolvimento delle regole prescritte, l’osservanza di sacramentali consigliati, la partecipazione ai riti liturgici per molti sono delle consuetudini tranquillizzanti. Come tutti gli atti abitudinari, quei gesti – anche se ripetitivi – sono sentiti come obbligati, necessari, imposti dalla tradizione, ma gratificanti perché producono uno stato di benessere psichico. L’inadempienza, al contrario, genera senso di colpa, frustrazione, malessere. (…).
È comprensibile che la ritualità religiosa possa essere rassicurante e assolvere a una funzione terapeutica. È un effetto che è stato anche accertato. Del resto, in medicina l’effetto placebo non solo è reale, ma in alcuni casi è persino utilizzato come strumento terapeutico. Ma nessuno pensa di debellare un male importante con rimedi palliativi.
In alcuni la reiterazione irresistibile a biascicare orazioni o l’impulso indotto dal fervore religioso a ricorrere a sacramenti assolve non solo a una funzione ansiolitica e sedativa, ma acquista la rilevanza di fenomeno psichico, rubricato come “disturbo ossessivo compulsivo” (DOC) religioso. Sopraffatti da sensi di colpa e di vergogna, queste persone vivono nell’ansia e nella paura di finire all’inferno. (…).
Che il rapporto tra il peccato e la paura potesse essere acquietato da un altro rapporto instaurato dalla Chiesa fra la confessione e il perdono con funzione “rassicurante” fa parte della storia dell’istituzione del sacramento della penitenza.
Il legame presupposto da questo tipo di religiosità è tra un Dio da placare e una creatura placata dal placamento del Dio. Ma si tratta di una logica distorta che rinnega l’essenza di Dio che è Amore: a Lui non si possono attribuire sentimenti umani come l’ira e il rabbonimento. E poi: si chiede perdono a Dio, ma il più delle volte si dimentica di chiedere perdono ai nostri simili (anche se si recita «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa…»). È una religiosità mossa dal perbenismo bigotto, osservante del “dovere” verso la divinità per mettersi l’anima in pace, ma incurante del prossimo, nell’illusione che ci si possa salvare da soli.
Si dimentica che si pecca non solo verso Dio e che la preghiera non è mai un fatto privato tra noi e Dio. Per questo per la maggior parte le preghiere sono di richiesta ai fini propri. Ma la preghiera non può essere autoreferenziale. Lo ha spiegato molto bene Papa Francesco: «Restano inascoltate le richieste autoreferenziali (cfr Gc 4,2-3)». Bisogna pregare per i bisogni della comunità ecclesiale e del mondo. (…).
Pregando per gli altri, si assume l’impegno ad operare fattivamente per la loro liberazione dal bisogno. Questo impegno è preghiera. A tal proposito, mi piace riportare le considerazioni che Hans Küng premette come “avvertenza” iniziale al suo saggio sulla preghiera: «Chi ha visto Madre Coraggio e i suoi figli di Bertolt Brecht ricorderà una potente scena del finale di questa pièce sulla guerra dei Trent’Anni: “Non possiamo fare niente” dicono, rassegnati, i contadini, che si sentono dire che la città verrà sopraffatta dai soldati. Nella loro disperazione essi si inginocchiano e incominciano a pregare: “Padre nostro, ascoltaci, perché tu soltanto puoi aiutarci, noi potremmo perire perché siamo deboli e non abbiamo neppure una lancia e niente, non possiamo davvero niente, siamo nelle tue mani”. Ma mentre i contadini pregano, la muta Kattrin, senza essere vista, si arrampica con un tamburo sul tetto di una stalla e incomincia a battere il tamburo, via via sempre più forte. I soldati le sparano tutti insieme, ma il suo gesto ha messo in guardia la città, l’ha salvata. Al riguardo Dorothee Sölle osserva giustamente: “In questa radicalizzazione viene messo in luce un abuso perpetrato per millenni nei confronti della preghiera. Salvare se stessi – e pregare per gli altri. Parole a un Essere Superiore invece delle azioni per quanti ci stanno vicini – il tambureggiamento di Kattrin sconfessa la preghiera devota, soggettivamente autentica, come alibi di chi non si impegna per nulla. Se si chiede ai cristiani che cosa essi abbiano fatto per gli ebrei durante la persecuzione, si riceve la più falsa delle risposte: Noi abbiamo pregato”».
La preghiera e le celebrazioni cultuali hanno senso se si condivide il progetto di vita di Gesù, che è sintetizzato nei due comandamenti tramandatici e indissolubilmente legati l’uno all’altro: amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente e amare il prossimo come se stesso (Mt 22, 37-39; Mc 12, 29.33; Lc 10,25-27; Gv 13,34-35).
L’amore per il prossimo è la controprova dell’amore per Dio. Tant’è che San Giovanni afferma che: «Se uno dicesse “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv, 4,20).
E San Giacomo chiarisce che la fede in Dio è morta se non viene testimoniata dalle opere verso i fratelli (Gc 2,14- 18). È questo il fulcro dell’insegnamento di Gesù che ha privilegiato la vita alla religione, ha anteposto ai precetti e alla legge l’amore per gli uomini, soprattutto per i più deboli e indifesi. (…).
La religione deve promuovere la vita, altrimenti è falsa. Una prassi religiosa che mortifica la vita delle persone, o addirittura provoca la morte (come nei casi delle condanne al rogo dell’Inquisizione, delle crociate e delle guerre di religione) è fanatismo, fideismo, fondamentalismo, integralismo, tutte degenerazioni che contraddicono l’essenza del messaggio di Gesù. Purtroppo la storia della Chiesa non è esente da tali deviazioni. Infatti è potuto accadere che, contrariamente all’insegnamento e all’operato di Cristo, nel IV concilio Lateranense del 1215, convocato da Innocenzo III, si sia decretato che un malato non potesse essere assistito dal medico, se prima non avesse ricevuto assistenza spirituale del sacerdote. Al capezzale dell’ammalato il confessore doveva precedere il medico.
Nel 1566 Pio V ordinò ai medici – sotto pena di scomunica papale, di espulsione dall’ordine dei medici e di pesante multa – di non visitare più di tre volte un ammalato se non esibisse la dichiarazione scritta di essersi già confessato. Sant’Ignazio di Loyola rivendicò la giustezza di questo decreto sostenendo che «Non è contro la carità negare le medicine ad un malato che non si vuole confessare, anche se è in pericolo di morte». Una disposizione assurda ribadita nel 1725 da Benedetto XIII. (…). Certo, si tratta di un contesto storico diverso e non possiamo discuterne con la logica di chi vive oggi e ha alle spalle la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma rimane il fatto che la religione veniva premessa alla vita e professata anche contro la vita. Di fatto una negazione del messaggio evangelico.
Nel progetto di Gesù la difesa della vita è una priorità assoluta. Ai farisei che, nella sinagoga, osservavano la sua trasgressione per accusarlo, Gesù lanciò in faccia una domanda retorica: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?». Sfidava il loro silenzio intimidatorio, squadrandoli con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori. «Stendi la mano!», fu la sua risposta, guarendo di sabato un uomo dalla mano inaridita Un sacrilegio intollerabile per i farisei e gli erodiani che deliberarono di farlo morire (Mc 3,1-6). Ma, con buona pace dei rigoristi, la vita viene prima della religione e delle prescrizioni della Legge. (…).
Fonte: Adista
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