Sabino Chialà "La coscienza: tra corsi e ricorsi"
La coscienza ha suscitato un grande interesse nel pensiero contemporaneo, sia filosofico sia religioso. Non si tratta
di una novità. La tradizione cristiana le ha accordato da sempre grande attenzione.
Ho già
riportato le definizioni di tre autorevoli padri della chiesa, ma a esse potrebbero aggiungersene
molte altre, tra cui quelle di Origene e di Agostino di Ippona, dei padri medievali, in particolare i cistercensi e i vittorini, sino ad arrivare
a due classici della riflessione teologica moderna sul tema, opera di John Henri Newman e
Romano Guardini.
Tuttavia, soprattutto in teologia, la coscienza ha conosciuto apprezzamenti contrastanti, in
particolare relativamente a due tematiche che
hanno a che fare con essa, su cui il pensiero
cattolico nel corso dei secoli ha espresso giudizi addirittura opposti: la libertà di coscienza e
l’obiezione di coscienza. Due realtà ora osteggiate, in nome dell’obbedienza all’autorità ecclesiastica, ora rivalutate e invocate in opposizione a derive giudicate anticristiane. Una curiosa
contraddizione che non di rado si spiega con
le alterne vicende delle relazioni tra l’istituzione ecclesiastica e il contesto culturale e politico
in cui essa si colloca, e con i reciproci rapporti di forza.
Una pietra miliare per la rivalutazione della
coscienza e della sua libertà è il concilio Vaticano II, con la costituzione apostolica Gaudium
et spes, promulgata da Paolo VI il 7 dicembre
1965, nel cui solco si muove il magistero di papa Francesco. Un paragrafo di quella costituzione,
che vale la pena di rileggere, si intitola proprio
“Dignità della coscienza morale”:
Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una
legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama
sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il
male, quando occorre, chiaramente dice alle
orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da
Dio nel suo cuore: obbedire a essa è la dignità
stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà
giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova
solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il
suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si
uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata
quanto in quella sociale. Quanto più, dunque,
prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco
arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede
non di rado che la coscienza sia erronea per
ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può
dire quando l’uomo poco si cura di cercare
la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del
peccato.
Ritroviamo in questa definizione l’idea patristica del criterio discretivo, come anche quella
appena evocata secondo cui la coscienza costituisce il punto d’incontro tra persone appartenenti
a contesti culturali e religiosi diversi, che in essa
attingono a un patrimonio comune che li sottrae
al soggettivismo. Sono parole dense e importanti, eppure al nostro orecchio rischiano di suonare
come ovvietà. Se ne coglie invece la dirompente
novità nel contesto in cui furono pronunciate, se
confrontate con la posizione magisteriale precedente. Papa Gregorio XVI, nell’enciclica Mirari
vos del 15 agosto 1832, aveva infatti condannato
categoricamente, insieme alla libertà religiosa e
di culto, anche quella di coscienza, giudicandole
inammissibili. Sono parole che meritano anch’esse di essere rilette:
Da questa inquinatissima sorgente dell’“indifferentismo” scaturisce quell’assurda ed erronea
sentenza, o piuttosto delirio (deliramentum),
che si debba ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza (libertatem conscientiae): errore velenosissimo a cui appiana
il sentiero quella piena e smodata libertà d’opinare che va sempre alimentandosi a danno della chiesa e dello stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza alcun vantaggio alla religione.
Tale posizione sarà sostanzialmente ripresa e
ribadita da Pio IX, nell’enciclica Quanta cura,
pubblicata l’8 dicembre 1864, esattamente un
secolo prima della Gaudium et spes.
Una sorte non diversa è toccata all’obiezione
di coscienza, in particolare riferita all’uso delle
armi. Dai cristiani dei primissimi secoli è invocata come tratto irrinunciabile della loro adesione a
Cristo, come attestano le vicende di vari martiri,
tra cui san Massimiliano è uno degli esempi più
chiari. Ma con l’avvento dell’era costantiniana,
si è giunti ad avversarla in nome della fedeltà
all’impero e alle sue lotte battezzate anch’esse
“cristiane”, e significativamente condotte contro “infedeli”. Solo recentemente si registra un
ritorno, anche su questo tema, alla posizione
antica e dunque a considerare almeno come legittimo per un cristiano il rifiuto della violenza,
riconsiderando ugualmente la legittimità o meno
di un qualsiasi esercizio della forza e dunque di
una “guerra giusta”.
tratto da "Pensare e Dire" Edizioni Qiqajon
Pensare e dire… coscienza e parresia: due dimensioni essenziali dell’essere e del relazionarsi.
Con un taglio esperienziale e pratico si indicano qui percorsi che aiutino a rivisitare il proprio vissuto: i pensieri che lasciamo abitare in noi e le parole che transitano per le nostre labbra.
AUTORE
Sabino Chialà (Locorotondo 1968) è monaco e priore di Bose dal 2022 a oggi. Studioso di ebraico e siriaco, si è dedicato in particolare allo studio della figura e dell’opera di Isacco di Ninive, di cui ha recentemente pubblicato la prima traduzione italiana completa della prima collezione dei suoi scritti.