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Enzo Bianchi, Fabio Rosini, Rosanna Virgili "Commenti Vangelo 12 febbraio 2023"

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"Commenti Vangelo 12 febbraio 2023"

VI Domenica del Tempo ordinario 

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 Una giustizia che va oltre la legge 
  Mt 5,17-37

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: « ¹⁷Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. ¹⁸In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. ¹⁹Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. ²⁰Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. ²¹Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. ²²Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. ²³Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, ²⁴lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. ²⁵Mettiti presto d'accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l'avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. ²⁶In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all'ultimo spicciolo! ²⁷Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. ²⁸Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. ²⁹Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. ³⁰E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. ³¹Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto del ripudio». ³²Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all'adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio. ³³Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. ³⁴Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, ³⁵né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. ³⁶Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. ³⁷Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno».

 

 

Il discorso della montagna non è una “nuova legge”, una “nuova morale”, ma è l’insegnamento di Dio dato a Mosè, interpretato con autorità, risalendo all’intenzione del Legislatore stesso. Solo Gesù, il Figlio di Dio, poteva fare questo: in nome della sua autorità messianica dà l’interpretazione ultima e definitiva della Torah.

 

 

Brevi note sulla prima lettura

 

Siracide 15,15-20

 

Il sapiente, figlio di Sira, ci presente l’insegnamento, la Torah di Dio, e i suoi comandi come un dono, non come un giogo. L’essere umano è stato creato capace di libertà, capace di scegliere il bene o il male, la vita o la morte. Ogni persona dunque, proprio perché è a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27), è capax boni, è capace di etica, di fare il bene. Quando si pecca, si perde la somiglianza con il Creatore, ma non si perde mai l’immagine, che resta sempre in ogni persona come sigillo. L’uomo è responsabile del proprio peccato, anche se la sua fragilità lo rende incline a commetterlo, a non vivere secondo la volontà di Dio. Per questo, anche nella preghiera insegnataci da Gesù, diciamo: “Padre, non permettere che soccombiamo alla tentazione” (Mt 6,13). La nostra volontà e la grazia del Signore, in efficace sinergia, ci possono rendere obbedienti alla sua Parola.

 

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Dopo le beatitudini (cf. Mt 5,1-12) e la definizione di chi le vive come sale della terra e luce del mondo (cf. Mt 5,13-16), ecco il corpo del “discorso della montagna”: tre capitoli nei quali Matteo ha innanzitutto raccolto parole di Gesù riguardanti la Legge data a Dio attraverso Mosè e il discepolo che vuole veramente viverla secondo l’intenzione del Legislatore, Dio. Nella parte restante del capitolo 5 Gesù crea sei contrapposizioni tra lo “sta scritto” tramandato di generazione in generazione e ciò che egli vuole annunciare, come un’interpretazione della Torah più autorevole e autentica di quella fornita dalla tradizione dei maestri.

 

Gesù comincia con l’assicurazione di non essere venuto ad abrogare la Torah, a toglierle autorità, bensì a “compierla”, a svelarne il senso racchiuso, realizzandolo in primo luogo nella sua persona e rivelandone il pieno significato. Anche per Gesù resta vero che “Mosè ricevette la Torah sul Sinai, la trasmise a Giosuè, Giosuè la trasmise agli anziani e gli anziani ai profeti (MishnahAvot I,1); ma proprio in nome della sua autorità messianica egli ne dà l’interpretazione ultima e definitiva, dopo la quale non ce ne saranno altre. Matteo è stato molto intrigato dal rapporto fra tradizione e novità del Vangelo, perché si indirizzava a comunità cristiane di Siria e Palestina, nelle quali erano presenti numerosi giudeo-cristiani, che si interrogavano su cosa potesse essere tralasciato delle minuziose prescrizioni rabbiniche. Vi erano allora, come ancora oggi, conflitti fra tradizionalisti e innovatori, fra zelanti della Legge fino al legalismo e cristiani più sensibili al mutamento dei tempi e della cultura.

 

Secondo il primo vangelo, Gesù resta fedele alla Torah, non la sostituisce con un insegnamento altro, ma con exousía, con autorevolezza, rivela, alza il velo sulla Legge e ne svela la giustizia profonda, perché sia possibile al discepolo una sua osservanza autentica. Per Gesù non è sufficiente l’osservanza indicata dai teologi del tempo, interpreti ufficiali delle Scritture (gli scribi), né quella propria dei credenti impegnati e osservanti, associati nei movimenti (i farisei): vuole una giustizia superiore, più abbondante (verbo perisseúo), che superi quella indicata dalle scuole rabbiniche e fissate nella casistica. Gesù vuole inoltre che quella giustizia predicata sia osservata, vissuta da parte di chi la indica agli altri, perché proprio da questo vissuto dipendono lo stile e il contenuto di ciò che si predica agli altri.

 

Ecco allora la prima delle quattro antitesi proposte dal brano liturgico: “Avete inteso che fu detto agli antichi: ‘Non ucciderai’ (Es 20,13; Dt 5,17) … Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: ‘Stupido’, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: ‘Pazzo’, sarà destinato al fuoco della Geenna”. Innanzitutto, cosa chiede veramente Dio al credente in alleanza con lui? Solo di non uccidere? Questo il detto tramandato, ma il non-detto è svelato da Gesù: in tutte le relazioni umane occorre frenare l’aggressività, spegnere la collera prima che diventi violenza, fermare la lingua che può uccidere con la parola. Prima di diventare azione, la violenza cova nel cuore umano, e a questo istinto occorre fare resistenza. L’astenersi dalla violenza è più decisivo di un’azione di culto fatta a Dio, il quale vuole la riconciliazione tra noi fratelli prima della riconciliazione con lui; anche perché la riconciliazione con lui che nessuno vede è possibile solo per chi sa riconciliarsi con il fratello che ciascuno vede (cf. 1Gv 4,20).

 

Eppure noi sentiamo il bisogno di scaricare il male che ci abita, dicendo poco o tanto male di qualcuno. Usiamo la parola come una pietra scagliata, dicendo: “Quello è uno stupido, uno scemo!”, e così autorizziamo chi ci ascolta a ritenere una persona da evitare colui che abbiamo definito tale. Del resto, già i rabbini dicevano che “chi odia il suo prossimo è un omicida”. Ecco dunque svelata la profondità del comandamento: “Non ucciderai”, che significa anche “Sii mite, dolce, e sarai beato” (cf. Mt 5,5).

 

Dopo la violenza viene la sessualità, materia della seconda e della terza antitesi. Si comincia con: “Non commetterai adulterio” (Es 20,14; Dt 5,18). Ma per Gesù questo non è sufficiente. Occorre fare i conti con il desiderio che abita il cuore umano: se infatti uno desidera il possesso, se con il suo sguardo cerca di possedere l’altro, se con la sua brama non vede più la persona, ma solo una cosa di cui impadronirsi, allora anche se non arriva a consumare il peccato è già adultero nel suo cuore. Se si fa attenzione, qui Gesù sposta la colpa dalla donna sedotta, giudicata sempre lei come peccatrice e causa di peccato, a chi seduce e non sa resistere al desiderio. Tutto il corpo, e soprattutto i sensi attraverso i quali viviamo le relazioni con gli altri, devono essere dominati, ordinati e anche accesi dalla potenza dell’amore, non dall’eccitazione delle passioni. Certamente non è facile questa vigilanza e questa disciplina del cuore, ma non è possibile scindere la mente, il cuore e i sensi dalla sessualità. Proprio per questo Gesù ribadisce (e lo farà più ampiamente in Mt 19,1-9) che Dio non vuole il ripudio, l’infrazione dell’alleanza nuziale, non vuole la contraddizione alla storia d’amore sigillata nella pur faticosa avventura della vita.

 

La quarta antitesi riguarda la verità nei rapporti tra le persone. È l’ottavo comandamento dato al Sinai: “Non dirai falsa testimonianza” (Es 20,16; Dt 5,20). Gesù conosce bene quello che gli esseri umani vivono: incapaci di vivere la fiducia nelle relazioni reciproche, giungono a giurare, a chiamare Dio come testimone (cf. Es 20,7; Lv 19,12; Dt 23,22). Così avviene nel mondo, così fan tutti, ma ecco la radicalità di Gesù: “Io vi dico di non giurare mai, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re”. Alla casistica della tradizione Gesù oppone la semplicità del linguaggio, la verità delle parole: Gesù invita alla responsabilità della parola. Il parlare di ciascuno dev’essere talmente limpido da non aver bisogno di chiamare Dio o le realtà sante a testimone di ciò che si esprime. Non sono necessari garanti della verità che si esprime, e invocare il castigo, la sanzione di Dio per ciò che si è detto come non vero o per ciò che non si è realizzato, è temerario. Dio non è al nostro servizio e non interviene certo a punire le nostre menzogne, almeno durante la nostra vita.

 

E allora quando uno dice sia “sì”, sia “sì”, e quando dice “no”, sia “no”, perché il di più viene dal Maligno”, che “è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44). Nessun “cuore doppio” (Sal 12,3), nessuna possibilità di simulazione per il discepolo di Gesù, nessun tentativo di dire insieme “sì” e “no”. Non è forse Gesù stesso “l’Amen di Dio” (cf. Ap 3,14), il “Sì” di Dio alle sue promesse, come predica Paolo (cf. 2Cor 1,19-20)? L’essere umano rispetto agli animali ha il privilegio della parola, ma questo mezzo così umanizzante per sé e per gli altri è uno strumento fragile… Il dominio della parola è davvero alla base della sapienza umana.

 

Quella di Gesù non è dunque una “nuova legge”, una “nuova morale”, ma è l’insegnamento di Dio dato a Mosè, interpretato con autorità, risalendo all’intenzione del Legislatore stesso. Solo Gesù, il Figlio di Dio, poteva fare questo.


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Seduto sulla sommità della montagna il Maestro non può non ricordare ai tanti giudei che lo hanno seguito, la figura fondativa di Mosè. Mosè è il pilastro della fede ebraica e la stessa Torah acquista la sua autorità in virtù di Mosè. E Gesù, nell’interpretazione del primo evangelista, è Colui che “completa” Mosè, che riconosce l’autorità di Mosè ancorché vada a porsi su di un piano ulteriore rispetto a lui. Gesù sviluppa, qui, una serie di argomenti che tradizionalmente sono chiamati “antitesi” ma che, in realtà, non contrappongono la loro sostanza, al contrario, la esaltano, dice infatti: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento”. L’antitesi è, invece, con la declinazione che Scribi e Farisei fanno della Torah – che viene espressa con “Mosè” – e dei Nebiim, “i Profeti”, a cominciare da Giosuè, secondo il canone ebraico. Gesù non critica il Mosè della Torah né i precetti e i divieti che egli ha ricevuto e trasmesso, anzi, ribadisce: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli”. Gesù mette in guardia da Scribi e Farisei che hanno fatto una lettura distorta della Scrittura. Non che non fosse lecito interpretarla, anzi era inevitabile e indispensabile ma qui Scribi e Farisei vengono accusati di non comprendere il suo messaggio e, quindi, di impedire l’accesso alla via della Sua giustizia col muro della propria. Per questo Gesù dice: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”. Interpretare le Scritture è, dunque, lecito (a dispetto di ogni approccio fondamentalista!) ma occorre farlo lealmente, con l’intelligenza e il coraggio di un ascolto sincero. Anche il Maestro Gesù, infatti, interpreta la Legge, ne coglie e ne attualizza il senso, ne ricava un messaggio per coloro che lo seguono e lo ascoltano. La parola di Mosè si rigenera nella parola di Gesù, e come Mosè aveva rivelato quanto aveva udito da Dio sul Sinai, così Gesù toglie ogni velo per rivelarne l’essenza più intima. “Avete udito che fu detto non uccidere”: Gesù inizia dal quinto comandamento (nell’elenco del nostro Catechismo), quello che riguarda il fondamento del rapporto col prossimo, con la sua e nostra dignità. E legge il “non uccidere” con grande attenzione dedicandogli una vasta riflessione. Mentre Mosè aveva detto lapidariamente “non ucciderai” (cf. Es 20,13) intendendo non toglierai la vita fisica al tuo fratello, altrimenti sarai giudicato rendendo “vita per vita” (= la legge del taglione, cf. Dt 19,21), Gesù apre un’altra prospettiva: quella interiore dell’ira e del disprezzo. Basterà essere irati col fratello o disprezzarlo, considerarlo e chiamarlo “stupido”, “scemo”, per meritare lo stesso giudizio che Mosè prevedeva per chi lo avesse fisicamente ucciso. Non solo: Gesù completa il discorso con ciò che si deve fare invece di uccidere ed è: riconciliarsi col proprio fratello. Non basta, insomma, non fare del male, non optare per la “giustizia” della vendetta, ma occorre operare il bene, vale a dire cercare vie di riconciliazione, di abbraccio, abbattere i muri della distanza, dell’odio, della rabbia, verso il fratello. Che, nell’orizzonte cristiano, non è solo il fratello di sangue ma colui che appartiene alla tua stessa “razza umana”. Non c’è morte che possa rendere giustizia alla morte, né violenza che possa soddisfare la violenza, dice Gesù, abolendo così ogni possibile giustificazione della guerra compresa quella che ancora oggi, viene chiamata: “giusta”. Gesù continua con un’altra antitesi: le leggi e le sanzioni circa l’adulterio che, nella Legge, prevedevano, a loro volta, la morte per lapidazione (cf Dt 22,22; Lv 20,10). Gesù le mette dinanzi all’uomo rendendo lui il primo responsabile dell’adulterio: un delitto che si consuma nel cuore, prima che nel corpo, nel desiderio di possedere la donna come oggetto a propria disposizione, e nel pensare di avere il diritto di farlo, prima che nel consumare concretamente tutto ciò. Infine i giuramenti: un modo con cui si pretendeva di ricattare Dio! È l’umano che deve assumere la responsabilità delle proprie parole, che deve mantenere sana la propria bocca con la lavanda della verità. (Agensir)
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