Sabino Chialà "L'esercizio della coscienza: tra obbedienza e libertà"
La crucialità e complessità del tema sono attestate anche dai tanti studi a esso consacrati, che muovono da varie prospettive, filosofiche o teologiche. Trattazioni ben più approfondite di quella qui sviluppata che, come dicevo, intende solo proporre alcuni spunti di riflessione e una via pratica all’uso della coscienza, facendo tesoro dell’insegnamento della Scrittura e della tradizione patristica.
Inizio tentando una risposta alla più semplice delle domande: “Cos’è la coscienza? Si tratta di un organo, di uno spazio, di una dimensione dell’essere, di un’istanza interiore?”. E dunque: “Consiste in un qualcosa di connaturale al nostro essere, oppure ci abita come un ospite proveniente da altrove e che non ci appartiene fino in fondo?”. A questo primo insieme di domande, ne segue un secondo, che riguarda il suo aspetto più pratico: “Come si forma una coscienza?”; e ancora: “A che livello della nostra esistenza agisce?” e: “Fin dove essa si spinge?”. Si tratta di questioni non di poco conto, anzi di vitale importanza, intorno alle quali articolerò le pagine che seguono.
Per rispondere alla prima domanda, mi limito a riprendere tre immagini suggerite dai padri, che propongo come punto di partenza per il nostro itinerario. La prima ci viene da Giovanni Crisostomo, il quale afferma:
Anche questo viene dalla filantropia che Dio ha dimostrato verso il genere umano: a ciascuno di noi ha dato un criterio (kritérion) integro, la coscienza (syneidós), che ha l’esatto discernimento delle cose buone e di quelle che non sono tali.
L’immagine del kritérion rimanda a un’istanza interiore posta da Dio stesso nell’essere umano, perché lo guidi nel discernere il bene dal male. Analoga è quella che ci viene da un altro grande padre del iv secolo, questa volta di lingua latina, Girolamo, il quale parla della “scintilla della coscienza” (scintilla conscientiae) che
non si era estinta neppure nel petto di Caino, quando era stato espulso dal paradiso, e in virtù della quale noi ci accorgiamo di peccare, anche quando siamo vinti dai piaceri o dal furore, tratti in inganno talvolta da qualcosa che assomiglia alla ragione.
La metafora della scintilla si ritrova in vari autori successivi, tra cui Doroteo di Gaza che le associa quella del seme divino:
Quando Dio fece l’uomo, depose in lui come un seme divino (théion), una facoltà piuttosto ardente e luminosa come una scintilla che illumina le profondità del cuore e le indica il bene e il male. Questa cosa chiamata coscienza (synéidesis) è la legge naturale (physikòs nómos). Questi sono i pozzi che Giacobbe scavò, come hanno detto i padri, e che i filistei riempirono di terra (cf. Gen 26,15). Conformandosi a questa legge, cioè alla coscienza, i patriarchi e tutti i santi furono graditi a Dio prima della Legge scritta. Ma gli uomini la sotterrarono e la calpestarono con i loro peccati sempre più numerosi e allora abbiamo avuto bisogno della Legge scritta, abbiamo avuto bisogno dei santi profeti, abbiamo avuto bisogno della venuta stessa del Signore nostro Gesù Cristo per riportarla alla luce e ridestarla, per riportare alla vita, mediante l’osservanza dei suoi santi comandamenti, quella scintilla che era stata sepolta.
Le tre immagini rimandano a un qualcosa posto da Dio nell’essere umano, come criterio, scintilla o germe, grazie al quale è possibile distinguere il bene dal male, una sorta di “organo” discretivo che dimora e opera nell’intimo.
In continuità con queste immagini, il teologo contemporaneo Dalmazio Mongillo definisce la coscienza come “l’uomo nella sua realtà più intima”, allargando la prospettiva da un semplice punto dell’essere o organo, all’interiorità in senso complessivo.
tratto da "Pensare e Dire" Edizioni Qiqajon