Massimo Recalcati "Quel che resta del padre"
La Stampa, 6 novembre 2022
Nelle sale cinematografiche sta circolando ingiustamente in sordina l’ultimo davvero notevole film
di Kim Rossi Stuart titolato Brado. Al centro il rapporto tormentato di un padre e un figlio. Si tratta
di una lettura complessa e raffinata che eleva il racconto a un capitolo importante dell’indagine
contemporanea sulla figura del padre e su quel che resta della sua funzione simbolica nell’epoca del
suo tramonto.
Il padre, protagonista del film, interpretato magistralmente dallo stesso Rossi Stuart, è una figura
stracciata dalla vita. Dopo la separazione dalla moglie si isola nel suo maneggio di cavalli in una
condizione depressiva, degradata e rancorosamente acida nei confronti della vita. La sua
rassegnazione cinica sembra senza sbocchi. Senza più passioni, separato dalla sua donna e senza
coltivare il rapporto coi suoi due figli. È una cifra profonda del nostro tempo: il padre ha dismesso
ogni gloria, ogni abito simbolicamente autorevole, ogni potere. La sua vita assomiglia a quella di uno
scarto. Una rovinosa caduta da cavallo gli impedisce di allenare un nuovo cavallo su cui ha riposto,
dopo anni di declino, le proprie attese di riscatto.
Irrequieto e insofferente alla disciplina, questo cavallo brado incarna la potenza rigogliosa e anarchica
della vita. Il padre lo vorrebbe addestrare al salto ad ostacoli facendone un campione. Ma la sua
recente infermità gli impedisce di farlo. È solo il figlio a soccorrerlo e ad aiutarlo in questa impresa.
È solo il figlio disposto a ripulire il maneggio restituendogli dignità. Ma come si può addestrare la
vita alla vita? È davvero possibile? È un altro grande tema del film: come è possibile guidare la nostra
vita senza lasciarsi travolgere, senza cadere da cavallo, ma, al tempo stesso, senza rinunciare al sogno
e al desiderio?
Sappiamo che questa caduta è una immagine biblica che ricorre nella vicenda di Paolo di Tarso. È
necessario cadere, sprofondare il proprio volto nella polvere, per potersi convertire a una nuova
visione della vita, a una vita che non ha più paura della vita. Ma questo padre è il residuo lacerato di
una versione solo patriarcale della paternità. Egli ha imposto a suo figlio il morso che ora chiede di
imporre al cavallo. Questo padre non è, come non lo sono, del resto, tutti i padri, un padre esemplare.
È scostante, autocentrato, persino apparentemente indifferente alle sorti del figlio. Al tempo stesso
pretende di insegnare la via stretta della disciplina severa, del sacrificio e della rinuncia attraverso
pratiche apertamente sadiche. Come quando per fargli prendere confidenza con il nuoto lo trattiene a
forza sott’acqua sino a fargli mancare il fiato, o quando si libera freddamente dei cuccioli del cane di
casa sotterrandoli.
Nell’addestramento del cavallo il padre ripropone il suo metodo senza successo. Non ha capito nulla. Non ha ancora inteso che per non farsi travolgere dalla vita non bisogna pretendere di dominarla, di
governarla, ma piuttosto imparare a fare amicizia con il suo carattere ingovernabile, provare a
consegnarsi alla sua potenza. È quello che il figlio - questa bellissima figura di figlio interpretata da
un eccellente Saul Nanni - insegna al padre. I ruoli improvvisamente si capovolgono. Dopo aver
adottato il sistema ferreo del padre per addestrare il cavallo senza successo, il figlio sceglie
autonomamente di percorrere un’altra via: non quella patriarcale della disciplina sadica, ma quella
inaudita dell’amicizia. Rinuncia al morso come simbolo di un’educazione solo disciplinare e
repressiva, per introdurre la forza tenera del contatto e della parola, del reciproco riconoscimento
amichevole. Il cavallo risponde e diviene pronto alla gara. Il sogno di riscatto del padre sembra
risorgere grazie alla cura del figlio. La dimensione rancorosa e depressa della sua vita ritrova una
nuova luce.
Anche questa è una cifra fondamentale del nostro tempo: esaurita la potenza infallibile del padrepadrone, spetta ai figli tracciare una nuova via, ricostruire una possibile alleanza coi padri. Non è più
il padre che salva il figlio dal suo smarrimento, ma è il figlio che salva il padre dal suo declino. Come
accade anche ne La strada di Cormac McCarthy è il figlio a ridare speranza alla vita chiusa su se
stessa e senza avvenire del padre. Come quel figlio conduce il cammino del padre da una terra di
cenere e morti verso la luce del Sud, allo stesso modo questo figlio conduce il padre a non accanirsi
contro la vita, a non dare la morte alla vita.
È un altro grande tema del film sviluppato con finezza e profondità da Rossi Stuart, quello del
rapporto tra la vita e la morte. In una sorta di controcanto straziante rispetto a Million Dollar Baby di
Clint Eastwood, viene riproposto il tema del fine vita. Cosa lascia, infine, questo padre al proprio
figlio? Quale eredità? Quale dono? E come un figlio può amare un padre che si è rivelato una figura
tanto tirannica quanto disperatamente vulnerabile? Se Eastwood ha mostrato che la morte può avere
le sembianze di un dono - in quel caso quello di un padre adottivo, il vecchio allenatore di pugilato
Frankie, nei confronti della sua amata campionessa Maggie, ridotta a vivere come un vegetale -, in
Rossi Stuart è invece la cura che si prolunga al di là di ogni limite a rendere la morte del padre uno
straordinario dono. Il volto di quest’uomo che ha commesso l’errore di voler dominare la vita ed è
caduto invece innumerevoli volte dal suo cavallo, mostra finalmente tutto l’amore di cui è capace.
Una sorta di marchio misterioso sigilla nel sorriso del padre morente, in una pacificazione tanto
inattesa quanto desiderata da sempre, una testimonianza essenziale di cosa resta del padre. Non la
mano brutale che dà la morte ai cuccioli del cane di casa o che tiene sott’acqua la testa del figlio, ma
una scheggia di eternità che appare, almeno per un’istante, in quell’ultimo sorriso, più forte della
morte e che, come scrive McCarthy al termine de La strada, offre in eredità al figlio nient’altro che il
proprio cuore.