Gianfranco Ravasi «La cultura dorme. Oggi avremmo bisogno di un nuovo Pasolini»
intervista di Stefania Consenti.
«Siamo in una fase di sottosviluppo intellettuale. Abbiamo un disperato bisogno di una cultura in grado di scuotere le coscienze. Mancano voci autorevoli, oggi avremmo bisogno di un nuovo Pasolini, le sue posizioni provocavano delle reazioni, nel mondo politico, nella Chiesa». Gianfranco Ravasi, cardinale, biblista di fama internazionale, da vent’anni appassionato divulgatore (Premio Montanelli 2017 per la sua attività giornalistica) ha da poco compiuto 80 anni e «lasciato» l’incarico di Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Vicino a un pensiero di cattolicesimo liberale che aveva la sua stella polare nel cardinale Carlo Maria Martini, Ravasi negli ultimi anni è finito spesso sotto accusa per essere stato promotore di un’esegesi biblica vicina a studiosi non-cattolici e non-cristiani e non solo secondo la linea tradizionale cattolica esegetica e magisteriale. Lo scorso mese ha dato alle stampe, fra i 150 libri scritti in questi anni, II silenzio di Dio, riflessione sulla sofferenza e la speranza (TSEdizioni) in cui riflette sul mistero del male e della sofferenza nella storia dell’umanità. Pagine profonde per «ritrovare il coraggio di lottare e sperare nonostante le oscurità del tempo presenti», dalla guerra in Ucraina alla pandemia.
Cardinale Ravasi sembra un’operazione impossibile, non tutti hanno una fede granitica.
«Non è necessario, tutti hanno fiducia in qualcosa, e d’altra parte tutti amano qualcuno o qualcosa. Fiducia e amore sono le due virtù stabili, quelle che ognuno di noi deve poter avere per vivere, sono come l’aria per respirare, mentre la speranza è la virtù del progresso, direi, quasi la virtù del futuro, la capacità di guardare oltre. Uno dei maggiori testi sulla speranza è stato scritto da un filosofo tedesco, Ernst Bloch. Egli sostiene che questa dovrebbe essere soprattutto la funzione delle religioni, costringerti a non fermarti, a non andare alla deriva nel presente. C’è un proverbio che dice “finché c’è vita c’è speranza”; per Bloch questo non è vero del tutto poiché, dice, ci sono molti che non hanno più nessuna speranza, sono come cadaveri ambulanti. Finché c’è religione c’è speranza. Non dobbiamo scoraggiarci, questo è il punto di partenza della speranza, una realtà dinamica per sua natura. Servono più preti e poeti autentici».
La cultura può salvarci dall’abisso?
«Non la si può intendere più come nel ‘700, ora è un concetto non solo intellettuale ma umano, antropologico. Occorre ricorrere ora più che mai alla cultura, riscoprirla nella sua attualità. Ad esempio, anche un operaio, un artigiano che con passione costruisce un manufatto fa cultura; si parla di cultura industriale, tutti noi possiamo realizzare qualcosa di bello e utile. Non viviamo più con un’unica cultura, come quella europea o del Nord del mondo. Abbiamo la speranza che ci sia più interculturalità, anche se abbiamo delle derive».
Ossia?
«La cultura, nel senso più nobile, come la politica, è poco presente. Non ci sono figure che stimolano, voci autorevoli: ho già citato Pasolini ma pensiamo anche a figure come padre Turoldo o padre Ernesto Balducci, a cosa significavano e cosa scrivevano alcuni grandi pensatori come Norberto Bobbio. La cultura è dormiente».
E gli intellettuali?
«Se ne stanno spesso nei loro soliti orizzonti, certo importanti, ma incapaci di produrre una cultura che debba artigliare le coscienze, senza fare necessariamente polemica».
La via d’uscita?
«Ricreare e rifondare la scuola che non solo istruisca ma anche educhi, dal latino “educere”, estrarre, educare. Tutte le strutture culturali dovrebbero essere più incisive; la stessa economia che non è la finanza, dovrebbe esserlo, è la legge che regola le relazioni concrete del mondo».
Milano che è la sua città, vive un momento difficile di ripresa post Covid: come tante metropoli appare più polarizzata fra i super ricchi e i poveri sempre più in difficoltà.
«I contesti difficili creano problemi ma stimolano le intelligenze. Su Milano sono ottimista rispetto ad altre città italiane, più stanche. Ha una sua vivacità artistica, culturale, ha anche una struttura come la Caritas che è una potenza, di natura ecclesiale ma che opera all’interno della società con un’impronta forte. Penso che in questa fase la religione e la cultura debbano partire dall’idea della “minoranza” come spina nel fianco, e questo può essere uno stimolo. Mettere al centro dell’azione politica e sociale le fasce più deboli è una sfida».
Fra i giovani aumentano i casi di violenza, secondo lei è solo colpa della pandemia?
«In parte. E una generazione disorientata, non vedono grandi valori per vivere, anche nel sesso, non vedono poesia e tenerezza e amore. Qui entra il gioco l’altro grande tema, la famiglia, una delle agenzie più in crisi dopo la scuola. Oggi i genitori sono troppo accudenti, si preoccupano che i figli abbiano materialmente tutto ma non di instillare in loro fiducia, speranza, ideali. Viviamo in un’epoca in cui abbiamo una bulimia di mezzi e anoressia di fini, di valori.
Colpa dei social? Un male necessario?
«Ma no, non sono d’accordo, i social network sono un ambiente comune a tutti. Pure io sono sui social, certo sono un migrante digitale. Per i nativi digitali il virtuale è già il reale, dentro quell’ambiente scoprono quanto di loro interesse e il problema è che purtroppo non c’è un’educazione che favorisca, introduca un giudizio critico anche sui social».
Per la prima volta abbiamo una donna premier al governo, Giorgia Meloni. Qual è la sua opinione?
«Non intervengo su questi argomenti ma dico che la politica e un’arte alta, nobile, necessaria, deve essere improntata a competenza e visione. Chi regge la “polis” deve avere queste doti, vale non solo per l’Italia ma per tutti i Paesi del mondo».