Francesco Cosentino "Se Dio è messo nell’angolo"
Se Dio è messo nell’angolo
Jesus
novembre 2022
per gentile concessione dell'autore
Perché il Vangelo predicato dalle Chiese cristiane non sembra più rappresentare una vera "parola di vita" per i
nostri contemporanei? Cosa c'è che non funziona? Si tratta solo di un problema di comunicazione, del tipo «i
preti usano parole e termini che la gente non capisce e non sente come coinvolgenti»? Oppure si tratta di una
questione pastorale, del genere «dobbiamo mostrare un volto più accogliente e dobbiamo andare dove la
gente vive invece di aspettare che venga in chiesa»? Certamente tutto questo esiste. Ma se si sfogliano le
pagine del nuovo libro di don Francesco Cosentino, Dio ai confini. La Rivelazione di Dio nel tempo
dell'irrilevanza cristiana, in uscita da San Paolo, si capisce che la questione è ben più profonda e radicale. Ed
è primariamente teologica, spirituale ed esistenziale. Anticipiamo in queste pagine l'Introduzione del volume, in
cui l'autore traccia i contorni del dilemma
In un colloquio sul futuro del mondo e della Chiesa, avvenuto a Roma nel 1982, a Karl Rahner fu chiesto
quali fossero secondo lui i problemi teologici più urgenti; il teologo tedesco rispose senza esitazione che,
alla fin fine, erano quelli di sempre: «I problemi teologici più antichi, che sono, in fondo, anche i più
attuali: Com'è possibile un'autentica esperienza di Dio? Come posso conoscere veramente che Dio si è
rivelato, in Gesù Cristo, in modo assoluto e definitivo?».
L'eco di quelle domande ritorna anche oggi: ha ancora senso parlare di Dio nel nostro tempo? La
questione appare tutt'altro che scontata, mentre ereditiamo la compagine storica del Novecento che,
attraversata da catastrofi e da epocali cambiamenti, ha "liquidato" la domanda su Dio o tutt'al più l'ha
relegata ai contorni della vita e di una religiosità privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della
storia.
Si tratta di una sfida che chiede alla riflessione teologica di uscire dall'angolo, prendendo coscienza
del fatto che «il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di
rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la
gestualità» (Elmar Salmann).
Spontaneamente si tende a pensare che un simile esercizio teologico abbia a che fare con elaborate e
astratte interrogazioni intellettuali, mentre invece il parlare di Dio non è mai dissociato dal suo dirsi/darsi
nell'esperienza come realtà che abbraccia la totalità dell'esistenza umana e luogo che le conferisce senso e
interpretazione. Tanto più che, specialmente nel nostro contesto, si può affermare che a essere venuta
meno non è una qualche dimostrazione sull'esistenza di Dio quanto piuttosto la sensibilità interiore per la
relazione con ciò che ci supera: «Nella questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto.
Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra
epoca» (Henri De Lubac).
La teologia della rivelazione è sempre strettamente legata a quell'esperienza che denominiamo fede, in un
esercizio che tenta di offrire uno sguardo differente sulla vita e sulla storia, a partire da quella eccedente
sorpresa del Dio rivelatosi in Gesù Cristo: Dio si manifesta come Dio solo nel suo donarsi e affidarsi al
tempo e all'uomo, nel suo dimorare presso le case degli uomini in quanto Egli stesso Dio pienamente e
profondamente umano. In tal senso, ogni riflessione teologica è una teologia fondamentale pratica, che
lega esperienza di Dio ed esperienza dell'uomo, e che Rahner ha saputo incarnare con queste parole:
«In fondo noi vogliamo soltanto riflettere su questa semplice domanda: "Che cos'è un cristiano e
perché oggi possiamo vivere questo essere cristiani con onestà intellettuale?». Mentre viviamo un'ora
«caratterizzata dall'oscuramento della luce celeste, dall'eclissi di Dio» (Martin Buber), è anzitutto la
possibilità stessa del parlare di Dio all'uomo contemporaneo che va nuovamente affrontata. La parola
"Dio", infatti, mentre ci rimanda alla trascendenza ineffabile del Mistero divino, è anche la parola
scolpita nel cuore dell'umano e della sua vicenda, e dunque parola che ci supera:
evento che mentre indica la strada apre interrogativi, che offre la pace solo al prezzo di un
ribaltamento delle umane sicurezze e che invita al superamento di sé e all'ospitalità di un'alterità
sorprendente.
Nella complessa compagine postmoderna è ancora questo il compito della teologia contemporanea:
«Far sì che Dio sia nuovamente udito come Dio: frantumando la coscienza storica moderna,
smascherando le presunzioni della razionalità moderna, esigendo attenzione per tutti quelli che sono
stati dimenticati o emarginati dal progetto moderno» (David Tracy). Si tratta anzitutto di superare gli
angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell'essere, per approdare
verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un "eccesso
trasgressivo", un dono che supera e sorprende. Questo è ciò che rende Dio "più che necessario" e lo
riscatta dall'emarginazione cui è stato da tempo condannato: non si tratta di un monolite arroccato
nell'alto dei cieli e nello splendore della sua diinità, ma di un Dio-Amore che discende in mezzo a noi e
della nostra sorte si prende cura. Evento cristiano per eccellenza, quello della Rivelazione di Dio in
Cristo Gesù e nello Spirito Santo è l'accadimento che manifesta non soltanto "ciò che Dio fa" ma anche
e soprattutto "ciò che Dio è": Agape, Dio per noi.
La centralità della Rivelazione, per la teologia, è un dato incontrovertibile: credere significa essere
attratti e poi trasportati nella verità e bellezza della Rivelazione, per poter contemplare il mistero
stesso del Dio Uno e Trino.
E la Rivelazione, in tal senso, rappresenta la sintesi di tutto il sapere teologico e dell'atto di fede: la
Parola di Dio si compie e si realizza nella Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, cosicché essa diviene
onnicomprensiva dell'evento della fede e della teologia.
Certo, «riproporre la questione di Dio e del suo significato per l'oggi può sembrare un'operazione quasi
museale, attardata sullo sfondo di un passato religioso» (Carmelo Dotolo) che ormai non c'è più.
Tuttavia, se ritornare alla teologia della rivelazione potrebbe suggerire l'idea di una sorta di viaggio
all'indietro al solo scopo di rivisitare le pagine di una riflessione del passato, in realtà, riconsiderare i
contenuti e i linguaggi che hanno approfondito il cuore del Mistero cristiano si presenta ai nostri occhi
come un compito tanto proficuo quanto urgente; non si tratta di contemplare una ricchezza "che fu"
quanto, piuttosto, di affacciarsi sull'orizzonte presente e futuro del cristianesimo interrogandosi se la
domanda su Dio sia ancora determinante e decisiva tanto da potersi collocare tra le grandi domande
dell'esistenza e, al contempo, affrontando alcune altre domande: è possibile ancora oggi parlare del Dio
che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o
indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli
uomini di oggi e per la loro esistenza?
Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi
del concilio Vaticano II è un'impresa che da una parte aiuta a "fare il punto" sul passaggio
dall'apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero
della categoria di storia e della cristologia; dall'altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo
linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un
mondo postmoderno e plurale. Si tratta di un contesto sociale e culturale da più parti definito postcristiano e al contempo post-ateo, in cui la crisi della fede e la discussione sul futuro possibile del
cristianesimo rappresentano un pungolo per la riflessione teologica e non possono non esserlo anche
per la vita della comunità credente. Tale questione è stata posta da Paul Tillich già qualche decennio fa e
va oggi affrontata nuovamente in tutta la sua radicalità: «Ciò che mi preoccupa più profondamente in
questi ultimi anni è la questione: il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora
rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio
del cristianesimo stesso?».
Occorre tuttavia situare l'interrogativo in un orizzonte teologico il più possibile chiaro: in riferimento al
Dio di Gesù Cristo, che cioè si rivela in Gesù Cristo e in Lui ci consegna "la buona notizia", parlare di
rilevanza non significa rivendicare una potenza religiosa della fede cristiana negli spazi del mondo,
quanto piuttosto la capacità del cristianesimo di liberare e sprigionare nell'esistenza dei nostri
contemporanei la vita che il Vangelo trasmette. Si comprende fin d'ora, cioè, che l'orizzonte in cui
muoversi non è quello rispondente allo schema dell'apologetica classica, prettamente preoccupata di
trasmettere la verità della fede e l'insieme delle sue dottrine, ma quello della teologia del Novecento e del
Concilio Vaticano II, che intende la rivelazione di Dio come la sua stessa autocomunicazione d'amore e,
perciò, l'incontro e il dialogo che Egli stabilisce con gli uomini e con la storia.
La questione non si limita a una riflessione teorica, ma investe l'orizzonte esistenziale. Lo aveva ben
intuito Karl Rahner, che in una Conferenza tenuta il 22 luglio del 1982 alla Facoltà teologica di
Würzburg, parlò di "una teologia con cui poter vivere", cioè si chiese se esista una teologia non stabilita
su idee astratte riguardanti Dio ma su quel Dio che si è rivelato per rendere umanamente possibile e
vivibile la vita umana. Rahner non nega l'importanza di una teologia accademica e scientifica,
differenziata in molte discipline e settori e avente uno sterminato campo di indagine; tuttavia, una teologia
che è consapevole di avere un carattere sovrascientifico, per il giovane teologo coinciderà con la
concentrazione sulle questioni fondamentali, per approdare a una teologia che lo sostenga nella vita di
persona umana e di credente: «Nella sua teologia, perché sia degna d'essere vissuta, egli deve aver riflettuto
con tutto l'impegno della sua esistenza e ovviamente anche con la sua razionalità su che cosa è
propriamente la rivelazione; su quale rapporto intercorra fra la storia delle religioni e la storia di una
rivelazione particolare e regionale; se e come sia ancor oggi possibile parlare seriamente di Dio in un
mondo secolarizzato e positivamente scettico e come si possa far capire che cosa intendiamo
dire con questo termine; su come fare per scoprire in sé, nell'uomo della vita quotidiana, un
qualcosa come l'esperienza di Dio […]. Se si possa seriamente affermare che un uomo, per essere
pienamente uomo e cristiano, debba aver qualcosa a che fare con una Chiesa e con la sua burocrazia e
praticare appunto religiosamente i riti che sono in uso nella Chiesa cattolica romana».
Chiedersi se il cristianesimo sia o possa essere rilevante per l'uomo d'oggi significa interrogarsi dunque
sulla sua capacità non di trasmettere una verità intellettuale, astratta e separata dalla vita, ma di comunicare
la vita che Dio ci ha rivelato e donato in Gesù Cristo, e che abita in noi e nella storia per mezzo dello
Spirito. Si tratta di comprendere fino in fondo, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, che la notizia
inaudita del cristianesimo è questa: la vita è possibile, nonostante tutto. Infatti: «E proprio questa cosa
inaudita da sentire che dice il Vangelo: esiste una Vita che non è delimitata dal nulla. Il Vangelo è l'annuncio
che è possibile vivere veramente, dunque un annuncio buono da intendere, se è vero che ogni essere umano
deve affrontare almeno una volta al giorno, la sola vera domanda: che senso ha la mia vita? Chi gli dirà
quale vita vale la pena di essere vissuta?» (Dominique Collin).
Se il Dio della rivelazione cristiana possa ancora avere a che fare con la vita degli uomini e delle donne di
oggi è un interrogativo che diventa sempre più scottante. A nulla serve, peraltro, tentare di affrontarlo da
un punto di vista prettamente "pastorale", scivolando di fatto nel pericolo di una dicotomia tra teologia e
agire ecclesiale. La domanda è invece teologica, dal momento che essa intende scavare e approfondire non
solo e non tanto una crisi di pensiero ma gli ostacoli culturali, esistenziali e spirituali che impediscono al
vivere odierno di aprirsi alla relazione con Dio.