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Brunetto Salvarani "Tra i tanti validi modelli di dialogo, questo è il tempo della diakonia"

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Dialogo è una di quelle parole comuni che pronunciamo senza particolari problemi, e non facendoci carico della complessità che vi sta dietro.

Molto spesso, senza distinguerla da altre altrettanto comuni e all’apparenza innocue, come ad esempio tolleranza: anche se è evidente che si dia una certa differenza tra il tollerare qualcuno, accettando illuministicamente che egli esista e dica la sua, e il decidere di dialogare con lui, accettando di mettere in discussione le nostre (presunte) certezze. Sta di fatto che, dopo anni di pressoché sostanziale impronunciabilità, il termine dialogo riprende a comparire con frequenza anche nel linguaggio ecclesiale. Messa la sordina al mantra dei pericoli del relativismo, papa Francesco sta fornendo un contributo essenziale a tale svolta, con una serie di gesti e discorsi che lasciano presagire l’avvio di una nuova stagione. Ad esempio, nel discorso per i cinquant’anni del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici (PISAI), che ha formato molti presbiteri, laici e missionari al confronto col mondo islamico, il 24 gennaio 2015. In quel frangente Bergoglio utilizzò un’immagine simbolicamente eloquente: «Al principio del dialogo c’è l’incontro e ci si avvicina all'altro in punta di piedi senza alzare la polvere che annebbia la vista». Ecco, allora: non va mai dimenticato che non sono i massimi sistemi, le filosofie, le metafisiche, le religioni in quanto tali a entrare in dialogo, ma sono le persone, le donne e gli uomini, se messe nelle condizioni di poter dialogare.

 Grandi eventi e verità

A partire dal Vaticano II, in riferimento al dialogo interreligioso, parecchia strada è stata percorsa. Proviamo a tratteggiarla, per scenari. Cominciando con il dialogo della spettacolarizzazione, quello - che ha ricoperto una notevole funzione simbolica - dei grandi eventi interreligiosi organizzati per mostrare che un pastore e un rabbino, un imam e un vescovo possono incontrarsi senza problemi e stringersi la mano. Gesti minimi, ma utili a invertire il corso di una storia secolare che ha favorito barriere e tensioni, scomuniche e conflitti, censure e anatemi. Il limite di tale tipo di appuntamenti è, peraltro, la loro ripetitività, il fatto che si celebrino sempre uguali a se stessi, faticando ad andare oltre la logica dell’incontro paludato e prevedibile, nel suo andamento e nel suo esito.

Un altro modello di dialogo sperimentato è quello del confronto sulle verità: tema decisivo e ostico, tuttavia essenziale. La strada dell’incontro basato esclusivamente su ciò che unisce, evitando di misurarsi su quanto divide, però, non porta lontano, spingendo ogni partner a nascondere per bene negli armadi i propri scheletri. Dire che il valore della pace è al centro di tutte le tradizioni di fede, ad esempio, è un’ovvietà ma anche una mistificazione: basta prendere i testi sacri per verificare che il sangue vi scorre in abbondanza; si ripassi la storia europea, con le stragi e non poche persecuzioni compiute nel nome di Dio; si analizzi l’atlante geopolitico per verificare che un terzo dei conflitti in corso – ivi compresa la guerra in Ucraina - possiedono una valenza anche religiosa. Pena la perdita della sua efficacia, il dialogo sulle verità non può prescindere da tali dati che, attraversando tutte le religioni, le mettono tutte sul banco degli imputati. Certo, quello della pace e della guerra non è l’unico tema di un dialogo centrato sulle verità delle varie tradizioni. Eppure, è questione centrale da cui derivano a cascata altre domande: chi è per noi l’altro? Come lo trattiamo, nel concreto? Su questo le principali tradizioni religiose hanno in genere evitato di misurarsi.

 Vita e spiritualità

Per reagire all’astrazione del dialogo delle verità, si è poi optato per quello della vita, centrato sulle relazioni quotidiane: sicuro esercizio di ascolto e di condivisione, che ha permesso di scoprire i tesori dell’altro a partire dalla semplicità del suo racconto e della sua testimonianza personale. Il dialogo della vita è stato e resta opzione feconda, che però, per crescere, ha bisogno di un quadro più generale. Imparare da Ismail come prega e vive il Ramadan, e spiegargli chi sono per noi Agostino o Francesco d’Assisi, è una bella avventura di mediazione interculturale, in cui sono nate amicizie profonde che resistono nel tempo. Peraltro, il limite di tale modalità è quello di ogni esperienza di base: importante e rassicurante sul piano delle relazioni tra le persone, fatica a incidere sul contesto generale dove, sempre più spesso, crescono invece pregiudizi e sentimenti identitari e islamofobici.
Di moda, negli ultimi anni, il dialogo delle spiritualità. Intenso, rassicurante, persino gratificante. L’assunto è che siamo entrati in una fase nuova, nella post-secolarizzazione, che ha riportato in auge i temi dell’Assoluto e della trascendenza, di Dio e della fede. Ovviamente, non si tratta di un ritorno al passato, semmai a un futuro post-moderno. Oggi sono in tanti a percorrere sentieri spirituali diversi, a pellegrinare verso Santiago di Compostela o a seguire le lezioni di saggezza di un guru, disponibili a riconoscere il miracolo di una guarigione e aperti al confronto con la mistica ebraica o inebriati dal fascino delle danze sufi. Tutto discutibile e tacciabile di sincretismo, forse, ma questa sembra la merce oggi più appetibile nel supermarket delle religioni. Nel tempo della fusione olistica tra corpo, mente e anima, i temi della spiritualità irrompono con forza inattesa anche sul piano del dialogo interreligioso, almeno per chi è cresciuto nell’età della secolarizzazione e oggi, un po’ spaesato, si ritrova in territori sconosciuti su cui è faticoso camminare. Ma anche questo da solo non può bastare. Occorre andare oltre.

 Verso i poveri e i bisognosi

Diakonia è il lemma che nel Nuovo Testamento indica il servizio fraterno e ospitale che i credenti in Cristo praticavano verso i più poveri e bisognosi. È un campo che, attualmente, il dialogo tra le comunità di fede non sta ancora arando appieno, eppure il terreno è fertile e, con lavoro e fiducia reciproca, è plausibile immaginare poterne ricavare frutti abbondanti. Qualche seme gettato ha già dato i primi esiti: penso, ad esempio, all’azione ecumenica a sostegno degli immigrati, a partire dai Corridoi umanitari voluti da Sant’Egidio, dalla Federazione della Chiese Evangeliche in Italia e dalla Tavola Valdese; alle iniziative interreligiose di preghiera in cui ogni anno si ricordano i profughi morti nel Mediterraneo, il 3 ottobre, la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza; alla disponibilità con cui tante persone di diverse fedi si impegnano in scuole di alfabetizzazione o centri di accoglienza per migranti. Manca però, a tutt’oggi, un quadro teologico in cui collocare tali esperienze che, se scollegate, perdono molta della loro potenziale efficacia. Non si tratta di rinunciare agli altri segmenti, ciascuno dei quali ha un suo senso e una sua funzione, dal dialogo della vita a quello della spiritualità: ma, qoheleticamente, ogni cosa ha il suo momento, e questo è in primo luogo il momento del servizio e della diakonia reciproci. Perché il dialogo è fatto di carne e di gambe, e solo camminando insieme si può aprire il cammino.

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