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Massimo Recalcati "Il fascino dell'autodistruzione"

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La Stampa, 15 ottobre 2022  

In un tempo dove la presenza atroce della guerra ha occupato ancora una volta, inverosimilmente e tragicamente, la scena dell’Europa, risuonano le parole che Freud aveva dedicato alla Grande Guerra del secolo scorso. Ai suoi occhi essa incarnava la tendenza aggressiva, avida, auto-affermativa dell’umano che vive l’altro simile come un ostacolo alla sua realizzazione. Lo scontro tra gli Stati trovava in questa indomita pulsione aggressiva la sua ragione inconscia. L’amore per il prossimo è, infatti, solo una favola che la religione ha raccontato per occultare il fatto bruto che gli uomini non sono altro che una «masnada di assassini». 

Tuttavia, in questa prospettiva, la guerra, come la distruzione e la violenza, continuano ad essere interpretate dal padre della psicoanalisi come comportamenti di difesa e di autoconservazione dei propri confini minacciati dalla presenza dello straniero. Freud però intravede già nell’aggressività umana qualcosa di più sconcertante: non solo la violenza che la guerra scatena è una risposta all’esistenza dell’alterità come possibile minaccia di violazione dei nostri confini, ma la sua radice narcisistica mostra una sua aspirazione suicidaria. 

È questo, quello tra aggressività e autodistruttività, un nesso inaudito che Freud stabilisce. Il mito di Narciso racconta infatti quanto l’adorazione per la propria immagine possa risultare fatale trascinando la vita verso la morte. È quello che accade con Caino: il suo essere l’unico figlio viene minato traumaticamente dall’arrivo di Abele. Si tratta in termini psicoanalitici di una ferita narcisistica che lo obbliga ad entrare in relazione con una alterità che gli ricorda di non essere l’unico figlio sulla terra, dunque che lo destituisce dalla sua posizione di assoluto privilegio. La risposta di Caino la conosciamo: il fratricidio è il tentativo disperato di azzerare la differenza ripristinando l’illusione narcisistica di essere il solo figlio sulla terra. Ma questo stesso gesto di distruzione si rivela essere un gesto di auto-distruzione: Caino perde tutto ciò che aveva e si ritrova fuggiasco e ramingo sulla terra. 

Questa dimensione suicidario-narcisistica dell’aggressività conduce Freud verso il più grande e davvero sconcertante passo che compie con la scrittura di Al di là del principio di piacere proprio all’indomani della fine della Prima guerra mondiale. Passo inaudito che genererò una viva e turbata reazione nel mondo stesso della psicoanalisi. Esso consiste nel pensare alla morte non come il semplice destino della vita, ma come una spinta costantemente presente nella vita, come pulsione di morte (Todestrieb). Non si tratta più di mostrare con quali manovre l’essere umano cerchi di occultare la morte come meta ultima della vita (rifugiandosi, per esempio, nell’illusione religiosa), ma di mostrare che esiste nell’umano una originaria spinta pulsionale verso la morte. Tesi che sconvolge ogni rappresentazione edonistica dell’uomo. 

Diversamente da quello che dall’Etica di Aristotele all’utilitarismo di Bentham si è voluto credere, l’uomo non tende affatto verso il proprio utile evitando il male. Freud mostra in modo perturbante che ciò che definisce l’umano è una tendenza inquietante a condurre la propria vita verso la morte, la sua distruzione, il suo auto-annientamento. Se il principio di piacere ordina teleologicamente la vita (procurarsi piacere ed evitare il dispiacere), secondo una moderazione degli eccessi che troviamo al centro dell’etica aristotelica, l’essere umano abita al di là del principio di piacere. Non la temperanza ma l’intemperanza, non la virtù mediana ma l’eccesso. L’umano desidera non il bene ma il godimento al di là del bene. 

Più di preciso, Freud mostra l’esistenza di una aspirazione inconscia alla propria distruzione. Basti pensare all’esperienza tossicomanica dove il massimo godimento coincide con il massimo rischio vitale. In primo piano non è, dunque, l’angoscia di fronte all’ascia della morte che si abbatte inesorabilmente sulla vita che vorrebbe continuare a vivere, ma la tendenza della vita a negare se stessa, a volersi sterminare. 


Ma perché la vita sarebbe contro se stessa? È questo lo scandalo della pulsione di morte e dell’al di là del principio di piacere: la vita respinge la vita in quanto fonte inesauribile di perturbazioni. La più profonda della pulsioni – la pulsione di morte - punta pertanto alla quiete, allo zero, all’annullamento di ogni forma di tensione. La morte non è allora più la decapitazione della vita ma la sua meta agognata. 

È una tesi che sovverte la concezione occidentale dell’uomo: la vita umana non persegue affatto il suo bene ma nutre una profonda avversione verso se stessa. Freud riconosce in Schopenhauer il suo solo maestro: il filosofo di Danzica aveva, infatti, per primo colto nell’aspirazione al Nirvana la tendenza più profonda dell’essere pulsionale dell’uomo. Se la vita è un’inquietudine ingovernabile, la tendenza dell’umano è raggiungere la sua quiete. La pulsione di morte opera seminando distruttività ma non per affermare la vita, quanto per realizzare la sua più radicale negazione. 

In questo modo Freud amplifica la dimensione suicidaria del narcisismo: ogni uomo vorrebbe conservativamente riportare la vita alla sua quiete originaria. È una tentazione inconscia alla quale è difficile sottrarsi: sprofondare in un godimento mortale, nell’indifferenziato, nell’abisso di una pace che negando la vita vorrebbe poter negare anche lo squilibrio sempre eccedente della gioia e del dolore che la vita porta necessariamente con sé. 

Non a caso nella potenza apparente affermativa della bomba atomica che rende l’uomo padrone del mondo, si cela l’azione segreta della pulsione di morte. Nel caso di un suo utilizzo, infatti, l’esercizio della massima potenza si ribalterebbe in maniera inesorabile nel suo autoannientamento.
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