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«Le strade di Bose» conversazione con Sabino Chialà

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Le strade di Bose  

conversazione con il Priore Sabino Chialà  

Rocca periodico” del 10 marzo 2022 

Intanto caro Priore auguri. La fase che hai davanti è certamente delicata ma Bose è un’esperienza preziosa e necessaria per tanti cristiani. Qualcuno ha parlato di una generazione-Bose in giro per l’Italia. Che fare per rimettere in pienezza la lampada sopra il moggio? 

La crisi che abbiamo attraversato, come anche il recente cambio di priore, ci ha fatto misurare un affetto e dunque uno sguardo su di noi al di là di quanto potessi immaginare. Questo mi fa dire che Bose ha tanti compagni di viaggio e tanti amici, compresi quelli che sono rimasti scandalizzati dal nostro travaglio e che in vario modo ci hanno manifestato il loro disagio. Dire di più o impiegare altre immagini credo che rischi di distogliere lo sguardo da Colui che solo merita di stare al centro: il Cristo Signore. Pur essendo un dono particolare nella Chiesa, con un suo volto, Bose non ha nulla di esclusivamente proprio tale da renderla meritevole di adepti. Quello che abbiamo fatto e che possiamo continuare a fare è cercare di seguire il Signore, insieme e accanto a ogni uomo e donna abitati dal medesimo desiderio, e magari fare segno ad altri in quella direzione. Se sapremo restare fedeli a questo, il viaggio continuerà e anche i compagni di viaggio, a vario titolo, non verranno meno.

Bose si è caratterizzata sin dalle origini per una dichiarata e praticata scelta ecumenica,rarissima nel monachesimo,con la presenza di monache e monaci di altre chiese cristiane oltre a quella cattolica. Pensi sia decisivo conservare questa connotazione? Questo essere luogo di incontro, e di vita comune di cristiani con diverse provenienze ecclesiali e di servizio alle chiese? E come conciliare il riconoscimento canonico della Chiesa cattolica con questa pratica ecumenica? Più in generale come vedi oggi il quadro delle relazioni ecumeniche? 

A Bose l’ecumenismo prima che un’opzione è una realtà quotidiana e direi familiare. Io ho come vicino di stanza un pastore della Chiesa riformata, fr. Daniel, uno dei fratelli iniziatori della nostra comunità. Di solito è lui la prima persona che incontro ogni mattino, andando alla preghiera comune. La nostra fraternità ecumenica è dunque un intreccio di esistenze, prima che un progetto. Così accade anche con gli ospiti che continuano a frequentarci, qui a Bose o nelle fraternità in particolare in quella di Assisi, spesso appartenenti a Chiese diverse da quella cattolica. Dunque direi che si tratta di un tratto decisivo, perché appartiene al nostro vissuto. Il riconoscimento canonico della nostra comunità da parte della Chiesa cattolica, che risale al 2000 con l’approvazione del primo statuto, non mette minimamente in dubbio questo tratto. Certo è una grande sfida quella di pensare a una realtà ecclesiale riconosciuta dalla Chiesa cattolica che contempli la presenza di membri non cattolici. Ma è una sfida che proprio le lettere indirizzateci dal card. Parolin, in occasione della visita apostolica, e poi da papaFrancesco ci invitano a cogliere, quando definiscono la nostra comunità «ecumenica», un aggettivo che sembrerebbe stridere con il diritto canonico. La Chiesa cattolica ha così riconosciuto l’ecumenicità della nostra comunità quasi lasciandoci un invito a osar pensare qualcosa di nuovo. Quanto all’attualità delle relazioni ecumeniche, direi che l’ora è critica in vari ambiti. Tensioni interne alle singole Chiese rendono il cammino più faticoso. Ma in verità la crisi, come sempre accade, è più antica dei suoi epifenomeni, e dunque bisogna risalire a qualche decennio fa per scorgerne le radici e le ragioni. Se le sapremo riconoscere, sono certo che sarà possibile uscire da questo momento difficile e raccogliere frutti al di là di ogni speranza. Questo vale per la Chiesa e le Chiese, come anche per ogni comunità. 

La vostra esperienza mi pare essere quasi unica quanto alla compresenza di genere senza separazione nella vita quotidiana. Un bene davvero prezioso L’incontrarsi e l’interagire di sensibilità, esperienze e letture del mondo diverse sarà sempre di più decisivo nella chiesa. Come far sì che questa peculiarità coraggiosa possa non solo proseguire ma marcare in modo ancora più forte la polarità maschile/femminile come elemento arricchente dell’esperienza cristiana, in grado di rendere più piena la comprensione del Vangelo e più comprensibile e accettabile il volto della chiesa per un universo femminile che si sente fuori da ruoli e responsabilità significative? 

Ogni convivenza presuppone alterità, e ogni alterità chiede conoscenza e rispetto. Così è anche per quella di genere, che nella nostra comunità è un tratto peculiare fin dagli inizi. Chi l’ha vissuta in prima persona sa che non è stato sempre facile, e oggi siamo chiamati a interrogarci sul nostro vissuto reale di cinquant’anni di convivenza tra fratelli e sorelle. Lo riteniamo un bene prezioso, che ha arricchito certamente la nostra vita e la nostra comprensione del mistero cristiano. Chiede però una grande vigilanza, perché una parte non soffochi l’altra, anche involontariamente. Si tratta di una sfida, che oggi anche la Chiesa è chiamata ad affrontare, aprendosi alla ricchezza della diversità, senza paura, fedele al Maestro che non ha esitato, contro gli usi del tempo, ad accogliere nel suo seguito anche delle discepole. 

Negli anni la Comunità ha sperimentato l’esercizio di una liturgia più viva, capace di valorizzare tanti carismi comunitari, di toccare il cuore e l’intelligenza anche di quanti hanno condiviso, almeno in parte, la vostra vita a Bose e nelle altre Fraternità. Questo patrimonio, peraltro figlio di un movimento liturgico nato proprio in ambito monastico, potrà essere conservato e sviluppato con creatività rigorosa nei prossimi anni? 

L’esperienza di fede, e la liturgia che ne è un’espressione privilegiata, abita uno spazio che è difficile o quanto meno poco confortevole da occupare: in bilico su una sorta di discrimine in cui il passato si consegna al presente. La liturgia ci è data, non siamo noi a crearla, giunge a noi da chi ci ha preceduti, proprio come la fede. Ma deve diventare eloquente per il nostro oggi, assumendone i linguaggi, senza perdere di significato. Essa è il luogo in cui il passato s’incarna, ciò che è venerabile diventa salvifico. Questa è stata e resta la sfida anche per noi di Bose. Nella tua domanda hai usato un’espressione che trovo interessante: «creatività rigorosa». Credo che sia un tratto caratteristico della nostra liturgia, che cercheremo di perseguire. 

Una delle caratteristiche della vostra esperienza è stata quella di ricondurre la fede all’essenziale, spogliarla di orpelli e superfetazioni: oggi cos’è l’essenziale, qual è la «differenza cristiana» su cui tutto sta o cade? 

L’essenziale è l’Evangelo. Un Evangelo vivo e che dia vita. Tutto ciò che non è al servizio della vita non appartiene all’essenziale, come dice Gesù stesso presentando così la sua missione: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Gli uomini e le donne del nostro tempo non sono meno assetati di vita di quelli delle generazioni precedenti e dunque anche per loro l’annuncio cristiano può essere una risposta. Sta a noi cristiani aiutare a intuire la forza generatrice della Parola, e questo con la vita più che con le parole. 

La tua formazione ha a che fare con il cristianesimo delle origini. Ora che la fede torna ad essere una scelta quale ritieni possa essere il ruolo del monachesimo cristiano e il suo specifico compito nella comune chiamata a vivere e ad annunciare l’Evangelo? 

Fare memoria di due tratti in particolare che, in forme diverse, il monachesimo ha tentato di vivere fin dalle sue origini: l’incompiutezza di questo mondo e la possibile comunione tra diversi. Il fatto che non di rado le vicende concrete abbiano contraddetto l’uno e l’altro di questi due tratti, non può smentire il fatto che essi siano al cuore della vocazione del monachesimo. Essere segno dell’incompiutezza di questo mondo e dell’attesa del Signore che viene è il primo tratto di questa missione. Evitando qualsiasi disprezzo della terra che amano perché è creazione di Dio, i monaci, con il loro celibato e la loro solitudine, vorrebbero invitare a guardare oltre, a vivere ogni cosa con il cuore dilatato di chi sa che altro li attende. Il secondo tratto è quello dell’esperienza concreta di una comunione possibile tra diversi, sempre difficile e a volte drammatica, ma possibile. Una comunione che se sostenuta solo da simpatie personali o affinità elettive è destinata a fallire, ma che è possibile se è il Signore a restare al centro della vita di ciascuno e della comunità. 

Tu appartieni ad una generazione bosina intermedia tra quella delle origini e i più giovani. Studiosi del calibro di Max Weber ci hanno insegnato ormai da tempo quanto siano delicate le dinamiche intergenerazionali in qualsiasi comunità. Come è cambiato il modo di tenere insieme la libertà individuale e le esigenze comunitarie lungo questo tempo? 

Quello che vedo non è tanto un cambiamento di paradigma, quanto piuttosto l’emergenza di un bisogno di ricomprendere il significato dell’autorità e dunque il rapporto con essa. Bose non è così antica da avere al suo interno una generazione preconciliare, non ha quindi dovuto fare il passaggio da un modello di autorità a un altro. È nata nel post-concilio, con un modello di autorità e di obbedienza già ripensati alla luce della nuova teologia. Il tema però resta sempre aperto e chiede in ogni epoca una ridefinizione con parole nuove, che siano comprensibili e assunte nel tempo presente. Oggi abbiamo una coscienza più spiccata del valore dell’individuo, anche grazie alle acquisizioni dell’ultimo mezzo secolo, ma questo lasso di tempo ci ha anche aiutati a vedere meglio quali siano i rischi che si corrono se si assolutizza tale acquisizione. L’essere umano ha costantemente bisogno di riequilibrare le prospettive in tensione, partendo non da valutazioni astratte ma dal senso che tali prospettive hanno in ordine alla vita. 

Quanto è forte anche nel monachesimo il rischio che si riformino nelle comunità le gerarchie del mondo e che quindi l’elemento attrattivo e liberante che accompagnava l’aspettativa di una radicale, fraterna e sororale uguaglianza nelle differenze, venga contraddetta nella pratica? E come contrastare questo rischio? 

Nella misura in cui siamo e restiamo uomini e donne, le dinamiche proprie dell’essere umano e della società secolare si riproducono. È solo la vigilanza – atteggiamento fondamentale nella vita monastica – che può aiutare e non ricaderci e a correggersi quando abusi e sopraffazioni si manifestano. L’antidoto più efficace resta la centralità del Cristo. Già gli apostoli, come ci ricorda il Nuovo Testamento, discutevano tra loro su chi fosse il più grande (cfr. Mc 9,34). Gesù, davanti a quella scena, prese un bambino e lo pose in mezzo (cfr. Mc 9,36). Occupa e rende quindi indisponibile ad altri quello spazio che siamo tutti tentati di invadere, ma che non appartiene a nessuno, se non al Piccolo per eccellenza. Se lui è davvero al centro, vi è anche rispetto reciproco. Quando al centro vi è altro o altri, il germe del sopruso è libero di agire e devastare. 

Bose ha avuto ed ha come tratto importante una straordinaria capacità di dialogare con gli interrogativi, i bisogni di giustizia e di senso della «polis», anche con le posizioni etiche della più avvertita laicità contemporanea. In questo, mutatis mutandis, vedo qualche analogia con la Pro Civitate Christiana. Perfino il fatto di incontrarvi senza la separazione «sacrale» dell’abito permanente ha favorito la fecondità di questo incontro. Cosa può continuare a dire il vostro monachesimo all’agitato mondo di oggi, senza collocarsi su un monte troppo alto dove nessuno lo vede e lo sente? 

Il monachesimo, e quello di Bose con gli altri, più che da dire ha da essere. Se riusciamo a mostrare con la nostra vita che in quell’Evangelo che predichiamo ci crediamo davvero, è già abbastanza. Crederci davvero… che non vuol dire essere perfetti, ma aderire con tutto se stessi, a volte a caro prezzo, a un qualcosa che si avverte come il più grande tesoro che abbiamo incontrato. 

Nel salutarti non ti domando neanche quanto sia importante per te la Parola. È noto il tuo lavoro, il tuo studio, il tuo scavo su di essa. Eppure sarebbe utile che tu dica qualcosa ai nostri lettori sulla permanente centralità dell’ascoltare con attenzione la «voce» della Scrittura. 

La Parola è per me il segno vivente della presenza di Colui che non smette di rivolgersi a ciascuno con parole sempre nuove. È la sorgente dalle molte acque, come dice un grande padre della Chiesa siriaca, Efrem, dove ci si può abbeverare senza mai esaurirne il flusso, cioè senza poter mai dire di aver compreso tutto. O ancora è il mare profondo – l’immagine è di un altro grande siro, Isacco – in cui un nuotatore si tuffa nudo per andare a cercare la perla preziosa.

Mariano Borgognoni

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