Il futuro del mondo sta nell’imparare a vivere nella diversità
Conversazione con Carlo Rovelli
Un uomo di scienza con la testa
rivolta ai grandi temi del sapere,
ma con i piedi ben piantati per
terra. Carlo Rovelli, da vero cittadino del mondo, non si è mai
rinchiuso nella torre eburnea della ricerca. Di fronte ai terribili dilemmi
della contemporaneità, ha scelto di esporsi, di dare il suo contributo di cittadino e
di intellettuale. Lo abbiamo raggiunto a
Marsiglia, dove dirige il Gruppo di gravità
quantistica del Cpt (Centre de Physique
Théorique).
Professore, nel mondo attuale le sembra
ascoltata la voce degli scienziati?
Quando intervengono attorno a grandi
questioni etiche o politiche, oggi gli scienziati parlano in quanto cittadini, più che come studiosi. Ma ci sono stati frangenti,
nella storia recente, in cui la loro voce ha
avuto un ascolto e un’influenza significativi presso i governi e l’opinione pubblica.
Penso ad esempio all’allarme sollevato durante la guerra fredda a proposito del rischio di una catastrofe nucleare: in quel
caso, gli appelli degli scienziati ebbero
un’eco rilevante, che negli anni successivi portò Usa e Urss a firmare accordi per
una sensibile riduzione degli arsenali atomici e del rischio di un conflitto mondiale. Eppure, in questo momento, proprio
quando i venti di guerra tornano a soffiare sul mondo, la voce degli scienziati mi
sembra molto silenziosa.
Ma non la sua…
In tema di conflitti armati e di escalation della tensione internazionale, cerco di dare
il mio contributo al dialogo. Non mi tiro
indietro se devo partecipare a trasmissioni televisive, rilasciare interviste, intervenire sui social. Pochi mesi fa, prima che
scoppiasse la guerra in
Ucraina, ho promosso un
appello per la riduzione globale delle spese militari,
che è stato sottoscritto da
una sessantina di premi
Nobel. Sono rimasto stupito da quanto l’adesione di
molti e prestigiosi colleghi
sia stata immediata e convinta. Ne hanno parlato i
giornali, soprattutto in Europa. Tuttavia, questa iniziativa è caduta nel vuoto e
non ha avuto riscontri né ricadute concrete. Anzi, nel
frattempo Putin ha pensato bene di aggredire l’Ucraina innescando una reazione a
catena che ci può spingere verso il baratro. Segno che la voce degli scienziati oggi
la ascoltano in pochi, ahimè.
Lei ha sostenuto fin dall’inizio della guerra
in Ucraina che, in Italia e in buona parte del
mondo, il sentire della gente
e l’orientamento dell’opinione pubblica sono contro la
guerra e l’invio di armi come
metodo di risoluzione delle
crisi. Assistiamo invece a
una crescente polarizzazione
di questo e di altri conflitti, a
un progressivo inasprimento
delle controversie internazionali. Dunque il problema è
principalmente di rappresentanza, ossia le classi dirigenti, che siano o meno democraticamente elette, non riflettono il volere del popolo?
È una domanda che mi pongo molto spesso, ma ho il
sospetto che sia proprio
così. C’è un sostanziale divario fra il sentire diffuso e
le azioni di chi è preposto
al governo. Va detto che in
un sistema di democrazia
rappresentativa, come è il nostro, può anche non verificarsi una corrispondenza sostanziale di intenti e obiettivi fra eletti ed
elettori. Semmai il divario si può sempre
regolare con il voto, sia pure nei tempi stabiliti dalle leggi elettorali. Però lei ha ragione: mai come ora, come in tutti i periodi di guerra, le posizioni sono polarizzate,
e questo si riflette anche nelle decisioni
strategiche. Qualche settimana fa, un sondaggio dettagliato e scientificamente attendibile messo a punto dall’Università di
Pisa ha rilevato che solo il
12% degli italiani è favorevole a un aumento delle spese militari. Inoltre, il 65%
si dichiara contrario all’invio di armi in Ucraina. Nonostante ciò, il governo Draghi, com’è noto, ha deciso
altrimenti. Ma qui non si
tratta soltanto di un problema di rappresentanza.
Vale a dire?
La verità è che l’Italia non è un Paese libero, perché è in condizione di vassallaggio
rispetto agli Stati Uniti. È Washington a
dettare la nostra politica estera. Io non ho
niente contro gli Usa, dove ho vissuto e
lavorato con grande soddisfazione personale. Ma certo auspicherei una maggiore
indipendenza, anche in senso europeo. Quanto poi alla
questione dell’estremizzazione delle posizioni, mi lasci aggiungere che non si
tratta di un problema solo
italiano. Ovunque nel mondo, dalla Cina all’Iran, dal
Brasile al Sudafrica, e ovviamente in Russia, sui giornali
si leggono articoli sempre
più aggressivi, mirati a demonizzare la controparte, a
delegittimarla, ad accusarla di ogni nefandezza. Negli ultimi anni i toni sono
decisamente cambiati e tutto ciò porta a scontri frontali e a un aumento esponenziale della tensione a livello internazionale. Il dialogo e il confronto sulle idee
non sono più la stella polare dei rapporti fra nazioni
e fra culture.
Negli ultimi tempi si è anche interrotto il flusso di informazioni a disposizione della comunità scientifica mondiale: sempre più spesso agli scienziati russi viene impedito di accedere alle banche dati, alle biblioteche e agli
archivi. Una sorta di ostracismo di ritorsione, di cui pagano le spese anche scrittori, artisti, sportivi, anche quando sono dichiaratamente contrari alla guerra e al regime di Putin…
In Germania, con mia grande sorpresa, il
governo sta chiedendo alle università di
interrompere qualsiasi collaborazione con
il mondo accademico russo. È la cosa più
stupida che si possa concepire. Si conferisce alla scienza una patente
politica che non le appartiene e che ostacola la ricerca
e il progresso dell’umanità.
Cercare lo scontro frontale
è miope e ottuso, si preferisce perseguire un minimo
vantaggio immediato sul ‘nemico’ anziché coltivare la
speranza di un mondo migliore, in cui le inevitabili
differenze di vedute non siano motivo di fratture insanabili, ma di arricchimento
reciproco. È il grande limite del mondo contemporaneo: si preferisce la contrapposizione alla
collaborazione.
Lei ha più volte accusato di ipocrisia il mondo occidentale, sempre pronto a dichiararsi
detentore dei valori e baluardo della libertà,
ma poco incline a confrontarsi con paradigmi diversi dal suo. La guerra in Ucraina, così
come la pandemia, sta dimostrando che, di
fronte al mainstreaming e a
un pensiero unico pervasivi,
all’interno delle società occidentali non solo il dissenso,
ma anche il dialogo civile e lo
stesso confronto dialettico
sono seriamente compromessi.
Non credo che si siano chiusi tutti gli spazi di dialogo,
ma certo è sempre più difficile. Ovunque si tende a spegnere le voci alternative, a
marginalizzarle, a trattarle come pericolose o al massimo bizzarre dissonanze. In
Italia, chiunque non sia in linea con la politica dominante e inviti a considerarne i possibili errori viene tacciato di essere amico
del nemico. Lo sguardo è fisso su un punto, non si accettano visioni alternative e tanto meno vagamente lungimiranti: in tempo di guerra prevale sempre l’hic et nunc,
il noi contro di loro.
Da sempre gli uomini guerreggiano fra loro
per il controllo delle risorse: a combustibili,
minerali e terre coltivabili oggi si aggiungono le terre rare e l’acqua. Cosa ci attende nel
prossimo futuro?
La questione su cui si determinerà il nostro destino è lo scontro fra un Occidente in declino e una Cina in esplosiva
espansione. La vera polarizzazione è questa, non
quella contingente nei confronti della Russia. Il deterioramento dell’Occidente come attore unico
della scena mondiale è evidente: fino ai primi del Novecento, qui si concentrava l’80% della produzione
globale di beni. La Cina,
un mondo a parte, isolato
e feudale, era irrilevante
in questo senso, ma negli
ultimi anni questa ripartizione si è rovesciata. Oggi
l’Occidente è solo un attore della scena internazionale, non il dominus assoluto come è stato abituato a
essere per secoli. Ma la nostra ambizione, o per meglio dire quella degli Usa, è
quella di mantenere il dominio militare
e politico completo, come se la comunità
internazionale fosse nella stessa situazione di un secolo fa. Non ci rendiamo conto di essere invece una minoranza, innanzitutto numerica: siamo un miliardo
di persone su un totale di
otto miliardi. Sulla scena
mondiale si sono affacciati Paesi con grandi ambizioni economiche e geopolitiche, come l’India, il Brasile, l’Iran, e ovviamente in
prima linea la Cina. Gli
equilibri sono profondamente mutati, tuttavia gli
americani gestiscono circa ottocento basi militari sparse in tutta
Europa, ma anche in Giappone, in Corea, in Groenlandia, in Honduras. Quindi nel prossimo futuro ci attende una
scelta: accettare il dialogo e la collaborazione con le altre nazioni, imparando
a cogestire e condividere risorse, problemi e opportunità, pur nella diversità di visione e organizzazione delle società, oppure continuare a mantenere pretese di
controllo e di dominio su tutto il resto del
mondo, con tutte le conseguenze e i rischi che ciò comporta. Insomma, il tema
è come vivere insieme nella diversità, senza pretendere di annientare o di ridurre
l’altro all’irrilevanza. La Cina e l’Occidente dovranno imparare a farlo.
La collaborazione è certamente anche l’unica via per salvare un pianeta violentato e
gravemente compromesso dalla voracità dell’uomo, ora che la catastrofe ecologica è ormai una realtà conclamata.
Che la situazione sia arrivata a un punto di svolta
cruciale è ben chiaro a
chiunque si occupi di scienza. Lo scenario è talmente
drammatico che perfino il
direttore della Cia, William
Joseph Burns, lo riconosce:
il problema vero, ha detto
in una recente intervista,
è che il mondo è sull’orlo
del baratro climatico, ma i
politici (e non solo Putin…)
non ascoltano. La ragionevolezza e il dialogo rappresentano l’unica via percorribile per affrontare
l’emergenza ecologica. In
questo momento storico la
minaccia più grave alla nostra sopravvivenza è questa, bisogna collaborare e ridurre gli attriti, non farsi la
guerra. Fra l’altro, la stessa Cia aveva
sconsigliato la speaker della Camera dei
rappresentanti Nancy Pelosi dal recarsi
in visita ufficiale a Taiwan, perché avrebbe aumentato ulteriormente la tensione
internazionale, mentre nel frattempo
l’ecosistema va a pezzi.
A uno scienziato non possiamo non chiedere un’opinione a proposito della pandemia.
Tutto lascia pensare che ne avremo ancora
per mesi, forse per anni. C’è stanchezza, rassegnazione, una crescente sfiducia nel futuro. Come la vede lei?
Mi impressiona la differenza nel numero
di morti fra Paesi: Taiwan e la Corea del
Sud, ad esempio, che pure hanno forme
di governo simili a quelle occidentali, hanno avuto un numero di decessi percentualmente molto inferiore al nostro. Ciò
mi fa pensare che, almeno nelle fasi iniziali del contagio, qualche errore rilevante sia stato commesso anche nel nostro
Paese, nonostante la narrazione elogiativa del modello Italia. E per quanto riguarda il futuro immediato, faccio fatica a decifrarlo. Ho l’impressione che molto si giochi tuttora su una fuorviante idea di libertà: quella che lo Stato non possa imporre misure di salute pubblica come la
vaccinazione o l’adozione di mascherine…
Io appartengo a una generazione che considerava la libertà, con la L maiuscola, il
più grande ideale. Oggi invece la libertà
sembra essersi ridotta alla possibilità infinita e universale di fare qualsiasi stupidaggine e di fare del male
agli altri, senza alcuna responsabilità verso la società e verso il prossimo in generale. Una dimensione
‘privatistica’, in cui non mi
riconosco.
Il 25 settembre in Italia ci sarà
un appuntamento elettorale
molto atteso. Quali scenari si
prefigurano?
Non ne ho idea. Mi sento
solo in grado di formulare
un auspicio: che il futuro
governo abbia un po’ più di
coraggio nel perseguire una
politica internazionale lungimirante, non a breve termine. E che l’Italia possa far
sentire la sua voce nel dialogo di pace fra
i popoli, svincolata dalle pressioni americane e dei grandi gruppi di potere.
L’approccio scientifico può aiutarci a comprendere la realtà e ad agire in modo sensato?
Credo proprio di sì. E non perché tutto si
riduca a scienza, o perché quest’ultima
possa controllare la complessità del reale.
La scienza è uno strumento di interpretazione della realtà. È come un martello che
ci serve per montare un mobile. Non possiamo farne a meno, così come non possiamo fare a meno della razionalità e del
metodo scientifico. È una chiave per non
cedere all’emotività, all’arroganza, all’egoismo. L’approccio scientifico e la morale
si parlano e sono molto simili, perché ci
portano al bene comune e al vantaggio a
lungo termine.
Marco Bevilacqua
Carlo Rovelli, fisico,
saggista, accademico, Carlo Rovelli ha
lavorato in Italia e
negli Stati Uniti e attualmente insegna in
Francia all’Università di Aix-Marseille.
Insieme ai colleghi
Lee Smolin e Abhay
Ashketar ha fondato
la teoria della gravità
quantistica a loop. Si
è occupato anche di
storia e filosofia della scienza e della nascita del pensiero
scientifico. È autore
di numerosi libri di
divulgazione scientifica tra cui «Sette brevi lezioni di fisica»
(Adelphi), best seller
internazionale tradotto in 42 lingue, il
libro italiano con più
traduzioni dopo
Pinocchio. Nel 2019,
per il suo saggio
«L’ordine del tempo», è stato inserito
dalla prestigiosa rivista di geopolitica
Foreign Policy nella
lista dei cento
«Global Thinkers»,
pensatori che hanno
lasciato il segno in
diversi ambiti