Enzo Bianchi "L’arte di lasciare la presa quando la vita è all’ultimo atto"
Lasciare la presa: è un’arte non facile, eppure è la prima da esercitarsi nella vecchiaia. È l’arte del distacco, del saper prendere una distanza, dell’accettare di non poter più tenere in mano tutte le corde.
Questo distacco cambia a seconda delle persone: per alcuni è dovuto alle leggi del lavoro che pongono un termine all’esercizio della professione; per altri dipende da una loro libera scelta.
Vi è comunque sempre un’alternativa: continuare come prima, come se gli anni sopraggiunti non avessero un significato e non richiedessero un necessario mutamento, oppure prepararsi ad abbandonare la funzione, il posto, l’occupazione, lasciando ad altri, alle nuove generazioni, la possibilità di subentrare e di portare avanti ciò che per noi umani resta sempre inadempiuto.
Ognuno di noi vorrebbe portare a termine l’opera che si è prefisso, e in nome di questo traguardo che uno sente fissato da sé o da una volontà superiore, trova sempre delle ragioni per non mollare la presa. Si vuole portare a termine l’ultimo progetto, si vuole che i figli raggiungano certe tappe o posizioni nella vita, si vuole che vi siano condizioni più favorevoli: in realtà, si vuole continuare a vivere come prima, senza quei cambiamenti che fanno paura e senza abbandoni che fanno cadere nell’incertezza e nell’ansia.
Bisogna in realtà essere convinti che si può diventare vecchi e vivere trovando senso senza restare fino all’ultimo aggrappati a «quel che si faceva». Un essere umano è molto più di ciò che fa, è innanzitutto una persona che è, che vive. Anche quando si smette ciò che si faceva o diminuisce ciò che si ha, si è sempre quel soggetto che vive, ha significato, ama ed è amato. Essere in vita, vivere con gli altri e in mezzo
agli altri è il senso dell’esistenza, ciò che le dà sapore, al di là delle diverse azioni che si possono compiere.
Certo, ci sono distacchi e distacchi. Lasciare la presa dal lavoro e dalla propria funzione è senza dubbio il fatto più evidente da viversi nella vecchiaia, ma altri distacchi si impongono. Non possono essere evasi e a essi occorre non rassegnarsi, bensì sottomettersi, che è altra cosa: significa infatti accettarli come un’occasione di mutamento, occasione per fare altre cose, per cambiare stile di vita, per semplificare ciò che diventa complesso e più faticoso. Per esempio, si tratta di lasciare la presa di molti piccoli impegni e responsabilità con le quali si voleva fare una vita iperattiva.
Non bastava il lavoro professionale, si erano magari assunti impegni in diverse forme, anche non lavorativi e magari utili per la vita sociale: ebbene, anche questi vanno lasciati. È un’esperienza di diminutio e anche di semplificazione, perché solo la semplicità aiuterà a vivere in pienezza alcune scelte e non più tutte quelle che avevamo fatto.
Lasciare la presa permette di discernere ciò che è essenziale per una vita sensata e che possa essere «salvata», significa affermare la dimensione della gratuità: si è fatto molto a causa dei doveri e degli impegni, ma è giunto il tempo dell’otium, del «dolce far niente» che può essere vissuto cercando la quiete, aumentando il tempo per dedicarsi alla vita interiore, per essere più liberi dalle esigenze che ci imponevamo o che ci erano imposte dagli altri. Lasciare la presa non è un lasciar cadere dalle mani nel pozzo la corda del secchio, ma un lasciare alcuni fili per stringerne con più forza altri.
Lasciare la presa significa anche esercitarsi ad accettare l’incompiuto. Non è un esercizio facile, perché chi diventa anziano è convinto di dover portare a termine la propria opera. Ha sempre qualcosa da completare, fino a chiedere, quando la morte è vicina: «Lascia prima che finisca questo!». Sì, ognuno di noi vorrebbe finire l’opera che ha iniziato, ma occorre accettare che lasciamo qualcosa di incompiuto, mettendo la fiducia in altri che dopo di noi proseguiranno l’opera. Anche la nostra vita, che vorremmo aver vissuto come opera d’arte, resterà incompiuta.
Per questo il monaco all’inizio della sua avventura riceve una promessa:
«Il Signore porterà a termine l’opera iniziata in te» (cfr. Fil 1,6). Siamo creature incompiute e le nostre azioni restano incompiute.
Nondimeno, si può ricordare uno splendido detto della tradizione rabbinica, dal sapore paradossale, che dovremmo meditare di più: «Non spetta a te portare a termine l’opera, ma non sei libero di sottrartene». Una delle attività più esercitate nella vecchiaia è quella del ricordare.
Nella giovinezza i ricordi del passato sono ancora pochi e lo sguardo rivolto in avanti impedisce loro di avere un grande peso e una presenza significativa. Al contrario, per i vecchi il passato, l’aver vissuto è la vita, mentre il tempo da vivere resta breve. È quindi fisiologico che l’attenzione vada al passato, in un’anamnesi ripetuta dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza e anche della vita matura.
In ogni anamnesi – che talvolta diventa racconto, narrazione agli altri, oppure scrittura autobiografica o di memorie – l’interpretazione ha la grande funzione di tenere vivo il vissuto ma anche di rileggerlo con gli occhi e il cuore che si hanno dopo averlo attraversato.
Aveva ragione, ancora una volta, il grande García Márquez: «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla».