Brunetto Salvarani "Partire per lasciarsi plasmare"
Nella vita ci sono esodi che scegliamo ed esodi che ci scelgono: entrambi ci fanno intuire che la salvezza non è a casa, ma altrove.
“Esodi” è anche il tema
di Molte fedi sotto lo stesso cielo 2022 da cui prende le mosse lo speciale all'interno di Jesus di settembre. Qui di seguito proponiamo la lettura integrale del contributo di Brunetto Salvarani.
Partire è perdere, perdere senza aspettare un contraccambio, senza sapere quello che si troverà o che sarà dato. Osare di essere sconfitto, rischiare di perdersi, per lasciarsi plasmare da Colui che sorprende, piuttosto che preferire la comodità delle certezze, delle tracce segnate dalle boe». Così Emmanuel Lévinas, nel racconto Con o senza biglietto di ritorno, contrappunta liricamente la saggezza del popolano partire è un po’ morire.
Il fatto è che un esodo, imboccato per forza o per amore, ci trasforma davvero nel profondo solo quando e se gli consentiamo di condurci al di là delle nostre attese, quali esse siano. Se non cerchiamo, viaggiando con le gambe o con la mente, di riplanare sul già conosciuto, limitandoci a replicare ciò che fu bello o addirittura memorabile in altre occasioni, come umanamente siamo portati, di regola.
Un po’ tutti, nella nostra esistenza, facciamo molte esperienze di esodi: talora siamo a noi a decidere di uscire da situazioni che non riteniamo più eloquenti (una passione spentasi o una relazione fallita), talvolta è la vita stessa a imporci più o meno brusche sterzate (un lutto, un licenziamento, uno stop improvviso). Del resto, se guardiamo alla Bibbia, all’origine della fede d’Israele campeggia il passo che von Rad definisce piccolo credo storico (Dt 26,5-9): memoria di una sequenza inesausta di esodi, fino al (temporaneo, si badi) approdo alla terra della promessa. Si tratta della confessione di fede che Dio, per bocca di Mosè, invita il popolo a recitare quando vi sarà entrato, raccogliendo le primizie dei frutti per offrirli al Signore.
Qui, la parte del leone tocca al patriarca Giacobbe, l’arameo errante cui si allude: «Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide le nostre umiliazioni, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio disteso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele».
Non va dimenticato che quell’eponimo ebreo errante, dopo la vittoriosa lotta notturna con l’Angelo (Gen 32,23-33), era diventato zoppo: e proprio da un tale handicap si potrebbe riflettere su quanti, nella storia e nella letteratura, ne hanno fatto un punto di partenza per imboccare una via inedita, imprevista e inattesa, al loro abitare la terra e al loro percorso su di essa. È quanto fa Michel Serres, ne Il mancino zoppo, assemblando i lasciti di Edipo ed Empedocle, Pitagora, Efesto, Muzio Scevola, san Paolo e Ulisse: eroi diversi che, in occasione di una metamorfosi, alle soglie di un orizzonte inaudito o davanti a un passaggio rischioso, mostrano una dissimmetria nella deambulazione, feticci dal doppio corpo usciti dal cosmo di prima e inclinati verso il Novum. Perché un esodo può cambiarci la vita, dandoci persino l’ebbrezza di rientrare finalmente in noi stessi.
In questa chiave, il tradizionale conflitto Ulisse versus Abramo permane insanabile: l’itinerario della filosofia occidentale è ritmato sulle corde dell’Odissea, è un tornare su se stessi, circolare, senza l’altro; mentre Abramo parte non sapendo dove andrà, pensiero nomadico che muove dal sé all’altro avventurandosi per terre ignote.
In realtà, a ben vedere, il Grande codice biblico è affollatissimo di esodi, oltre a quelli di Abramo che abbandona d’emblée la sua Ur e di Giacobbe in mobilitazione costante: alla rinfusa, c’è ovviamente Mosè, che affronta con il suo popolo di straccioni in fuga dalla schiavitù del Faraone l’esodo per antonomasia, cornice inevitabile di mille altri lungo i secoli (come spiega il filosofo politico Walzer nel suo Esodo e rivoluzione); c’è il profeta Giona invitato da Dio a salpare da Giaffa verso Ninive (anche se lui, malmostoso, si dirige verso Tarsis, sulla rotta opposta); c’è Qohelet, in cui traspare in controluce nientemeno che il re Salomone, che rinuncia alla comfort zone della sua reggia magnifica per attraversare ogni viuzza della sua città, Gerusalemme, nel disperato tentativo di apprendere quanto può rivelarsi amara l’esistenza umana. E c’è Gesù di Nazaret, certo, il rabbi itinerante, l’uomo che cammina (C. Bobin), che di sé si spinge ad ammettere che, se «le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58).
Figure preziose, oggi più che mai, se ha ragione la sociologa Hervieu-Léger secondo cui la figura che pare adattarsi al meglio alla mobilità tipica della post-modernità è quella del nomade, o del pellegrino, più che il classico e sedentario praticante. Sì, quella esodale è un’arte complessa, delicata, vittime come siamo della coazione a ripetere e del nostro abitudinario radicamento nello status quo: mentre nell’odierno cambio d’epoca siamo chiamati a toglierci dai nostri lockdown quotidiani e a viaggiare sui confini, sperimentando la fecondità della metanoia. Verso un’isola (ancora) non trovata, e senza alcuna certezza sul domani. Fino a intuire che la salvezza non è a casa, ma altrove, non è in un ritorno ma in una diaspora. Anche se la tentazione di volgersi indietro, come Lot, è continua, come la nostalgia dell’Egitto, con le sue cipolle sicure.
Uno scenario, questo, che Baricco, ne I barbari, riferisce puntualmente: «Detto in termini elementari, credo si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza di un viaggio oscuro. (…) È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo»