«Il giovane Carlo gettava nel Po i libri proibiti di nostro padre»
Intervista a Maria Stefania Martini a cura di Aldo Cazzullo
“Corriere della Sera” del 15 agosto 2022
Maria Stefania Martini, detta Maris, è una donna alta, bella, dagli occhi chiari. L’aria di famiglia è
quella. A 88 anni, sta passando qualche giorno in una casa di cura sul lago di Garda; «ma solo per
dimagrire».
Signora Maris, com’era suo fratello, Carlo Maria Martini?
«Carluccio. In famiglia tutti lo chiamavamo così. Quando qualcuno, per far intendere di essere in
confidenza con lui, lo chiamava Carlo Maria, io sorridevo».
Com’era Carluccio?
«Il miglior fratello che potessi sognare. Mi portava in casa le mie amiche in bicicletta. Organizzava
per noi i mercatini, i giochi con le bambole».
Giocava pure lui?
«No, a lui piaceva giocare a nascondino con gli altri ragazzi. Ma non era un leader. Si prendeva cura
degli amici, badava a che nessuno fosse escluso».
A scuola com’era?
«Il più bravo. Lo ricordo sempre sui libri. Passava i compiti al vicino di banco, ma gli diceva: “Sei
sicuro che sia per il tuo bene?”. Per questo qualcuno non lo amava. Francesco, il nostro fratello più
grande, lo picchiava gridando: “Sei un perfettino, ti faranno Papa!”».
Ci andò vicino.
«Non voleva assolutamente. Lei se lo ricorda al funerale di Wojtyla, alla vigilia del conclave del
2005? Arrivò zoppicando, appoggiato a un bastone nodosissimo. Non gli avevo mai visto un
bastone così in vita sua. Si sedette a San Pietro e lo appoggiò davanti, ostentandolo in mondovisione
il più possibile. Era il suo modo di dire: “Non votatemi”».
Eppure in quel conclave ebbe almeno 35 voti.
«Che, dicono, fece confluire su Ratzinger. Avevano idee diverse; ma mio fratello lo considerava
l’uomo giusto per la Chiesa in quel momento».
Com’era il rapporto tra loro?
«Quando glielo chiesi, dopo che Ratzinger divenne Papa, mi indicò con il suddetto bastone un
cassetto. Dentro c’era la loro corrispondenza. Si confrontavano sulla Bibbia, dandosi rigorosamente
del lei».
Nel suo libro «L’infanzia di un cardinale» lei cita una testimonianza di Alfonso Signorini, il
direttore di «Chi».
«L’argomento era l’omosessualità di Signorini, che confidò a mio fratello le proprie sofferenze. Lui
rispose che “saremo ricordati per quanto avremo amato”. Una frase in cui non riconosco il suo stile;
ma l’aveva trovata in San Giovanni della Croce, su cui stava lavorando per un ciclo di esercizi
spirituali».
La famiglia Martini era religiosa?
«Nostra madre Olga sì. Nostro padre Leonardo, ingegnere, non tanto. Ma Carluccio era nato con la
vocazione dentro».
Ebbe mai fidanzate?
«No. E quando Montanelli gli chiese se avesse avuto tentazioni, rispose: lei pensa che interessi ai
lettori? Lo ricordo nel 1940, al lido di Camaiore, fermarsi a pregare in un convento vicino alla
spiaggia. Una grazia naturale, che sentiva di dover confermare con la propria vita. Il resto lo fecero i
gesuiti. Un giorno, nel 1941, cominciò a gettare i libri di nostro padre nel Po…».
Nel Po?
«Carluccio aveva portato a casa l’Indice dei libri proibiti, e si era reso conto che la biblioteca di
casa ne era piena; a cominciare da Balzac. Avevamo lasciato la nostra casa natale di via Cibrario e
ci eravamo trasferiti sul Lungo Po. Mio fratello e mia madre scesero sulla riva. Lei ritagliava il
frontespizio dei libri, per cancellare titolo e autore; e lui li gettava con tutta la sua forza al centro del
fiume, in modo che la corrente li portasse via».
Quando decise di farsi prete?
«Nel settembre 1944. Andò a Cuneo, in seminario. Siccome sapeva il tedesco gli accadde di fare da
interprete: conobbe Peiper, il boia di Boves. Mio padre soffrì moltissimo il doversi privare di lui.
Scrisse a suo fratello Pippo e a sua sorella Elena, dolendosi perché stava perdendo il figlio
prediletto. Entrambi gli risposero che sarebbe stata una benedizione per tutta la famiglia».
Fu così?
«Non siamo santi. E Carluccio non era un asceta. Era un uomo che amava le gioie della vita. Ad
esempio gli piaceva andare al ristorante: quand’era rettore della Gregoriana scoprì la cucina di
Roma, mangiavamo insieme i carciofi alla giudia e la carbonara. Certo, era un uomo di grande
fede».
Non aveva mai dubbi?
«Se li aveva, li confidava al confessore, non a noi. Nel 1972 perdemmo nel giro di pochi mesi
nostro padre, nostra madre e nostro fratello Francesco, stroncato da un ictus cento giorni dopo
essersi sposato. Fu un dolore terribile. Tempo dopo mi confidai con Carluccio, lui era già
arcivescovo di Milano. Mi disse: “Maris, non è come dici. Loro non sono morti. Sono qui con noi.
Non li vedi?”. Io alzai lo sguardo, e alle sue spalle vidi mamma, papà e Francesco».
Anche vostra madre aveva sofferto per la sua scelta?
«Sì. Sarà stato il 1949, Carluccio studiava teologia a Chieri, quando gli venne una polmonite. La
mamma voleva portargli un cuscino più morbido; ma nel convento non lasciavano entrare le donne.
La ricordo mentre stringe e bacia il cuscino su cui il figlio avrebbe posato il capo, prima di affidarlo
a papà perché glielo portasse».
Il giovane Martini viaggiò molto, in America e in Terrasanta.
«Vicino a Gerusalemme, arrivando dall’Egitto, cadde in un pozzo. Stava visitando un sito
archeologico quando la terra gli franò sotto i piedi, e lui precipitò. Si salvò per miracolo, ma ruppe
la macchina fotografica che portava al collo. Era mia, gliel’avevo prestata. Rimase
mortificatissimo».
Con Wojtyla che rapporto avevano?
«Certo non provavano la stessa sintonia che legava mio fratello a Paolo VI. Eppure fu Wojtyla a
mandarlo a Milano, anche se erano così diversi. Noi eravamo una famiglia borghese,
all’ordinazione episcopale venne la nostra balia veneta, la Lisa, con sua figlia, la Elsa. Le
presentammo al Papa, che però non capiva la parola “balia”. La Elsa ebbe un colpo di genio: “ Mi
son la figlia de la dona di servissio ”. Wojtyla annuì».
Come ricorda la cerimonia?
«Quando mio fratello si prosternò davanti al Papa, vidi che aveva le scarpe bucate. Il vescovo
africano al fianco le aveva lucidissime. Carluccio non amava il Vaticano, si sentiva soffocare. Le
cerimonie lo annoiavano, i formalismi lo infastidivano. Indossò le calze rosse da cardinale
sbuffando».
Fu felice di trasferirsi a Milano?
«Accadde tutto all’improvviso. Gli spiaceva lasciare Roma e il suo clima tiepido. Noi siamo
torinesi, la nostra chiesa di riferimento è la Consolata. Per i milanesi invece il Duomo,
l’arcivescovo, sono tutto. Si trovò benissimo. In tanti — Albertini, de Bortoli, Liliana Segre… — lo
adoravano».
Prima però viene la Milano del terrorismo.
«Mio fratello celebrò matrimoni e battesimi in carcere. Fu criticato per questo; ma lui ha sempre
avuto la passione del dialogo. Fece incontrare carnefici e vittime. E si fece consegnare due sacchi
pieni di armi. Gli chiesi: e se vi beccavano? Credo avesse avvertito le forze dell’ordine e i
magistrati. Al suo segretario aveva detto solo: ti porteranno questi due sacchi, tu ritirali. Era la resa
incondizionata dei terroristi. L’inizio della riappacificazione».
Poi venne la Milano da bere.
«Giravano molti soldi. Lui con le offerte aprì la Casa della carità, il museo diocesano… Ora ho fatto
fare una Rosa che porta il suo nome, e siccome per qualche anno la produzione è limitata le ho
prese tutte io, le rose, per regalarle ai luoghi che Carluccio aveva nel cuore. Per primi, appunto, la
Casa della carità, il museo, le carceri».
Quindi arrivò Tangentopoli.
«Gli dissi: tu tieni i tuoi discorsi, poi i tuoi parroci fanno votare per la Lega… Sorrise. Era un uomo
molto spiritoso e bonario».
E andò a Gerusalemme.
«Diceva: “A Gerusalemme è meraviglioso morire, ma è terribile essere moribondi”. Viveva nel
Pontificio istituto biblico, aveva il Parkinson, gli servivano cure, a volte cadeva, ma non voleva
disturbare i confratelli, che passavano tutto il giorno fuori a studiare. Sognava di essere sepolto
nella Valle di Giosafat, dove si terrà il Giudizio universale; è venuto a morire a Gallarate».
Dieci anni fa. Nella casa dei gesuiti. Sei mesi prima delle dimissioni di Ratzinger e
dell’elezione di Francesco.
«Con Bergoglio si erano sfiorati nel 1974. Erano entrambi a Roma per la congregazione generale
della Compagnia di Gesù. La spaccatura tra conservatori e difensori della teologia della liberazione
era terribile, mio fratello tentava di mediare. Per calmare gli animi, padre Arrupe, che aveva una
bella voce, nei momenti di massima tensione intonava un canto».
Il cardinal Martini temeva la morte?
«Sì. Forse perché presagiva che sarebbe stata una morte pubblica. L’arciprete gli chiese in quale
parte del Duomo volesse essere sepolto. Rispose: faccia lei».
Come ricorda il 31 agosto 2012?
«I miei figli, Giulia e Giovanni, mi mandarono a chiamare. Gli tenevo la mano, ma non era più
cosciente. Ha avuto una bella morte; troppo affollata, però. Il soggiorno era pieno, in camera sua
erano in dodici. Ricordo un’orribile coperta peruviana in pile, ricamata a farfalle e fiori. Era il 31
agosto e proprio non serviva. Gliel’aveva messa addosso una suora, temo per farla a pezzetti da
diffondere come reliquie. Ma io avrei preferito un lenzuolo bianco e un cuscino morbido, come
quello che tanto tempo prima gli aveva portato la nostra mamma. Come nell’iconografia della morte
dei santi».