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Liliana Segre «La memoria è la mia missione»

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L'Osservatore Romano 3 giugno 2022

Rimane quasi sorpresa la senatrice a vita Liliana Segre dalla mia proposta di intervistarla ed esprime subito una sua preoccupazione: «Io sono ebrea e sono atea, non so che interesse posso destare per un giornale come L’Osservatore Romano». Le spiego che il quotidiano della Santa Sede è un giornale curioso, che vuole conoscere e far conoscere, comprendere e far comprendere tutto ciò che esprime l’umanità a tutti i livelli, dimensioni, provenienze. Un quotidiano che ha scelto la linea dell’approfondimento, provando a esplorare i grandi nodi dell’esistenza umana: il tema della memoria è quindi ineludibile. Così facendo ho pronunciato la “parola chiave”.

«Della memoria io personalmente, da un certo punto della vita, ho fatto il mio compito, la mia missione esistenziale. Perché ero ancora una bambina quando sono stata espulsa dalla scuola, uno shock enorme sentirsi esclusa senza aver fatto niente di male. Cominciai a chiedere, a tormentare tutti con i miei “perché?” ma nessuno voleva rispondermi. In famiglia erano tutti preoccupatissimi delle mie reazioni, quindi ho cominciato a superare quello, poi fu solo l’inizio rispetto a tutte le espulsioni che abbiamo ricevuto dopo. Pian piano, ma sempre di più, sentivo dire in famiglia di cugini, di altre persone che “partivano”, di vite interrotte.. sì perché a volte si interrompevano e poi ripartivano ma qualche volta si interrompevano del tutto e qualcuno si suicidava, qualcun altro diventava anche più forte per via dell’interruzione, altri infine sono diventati insensibili e si sono buttati tutto dietro le spalle.

«Io ho avuto questo “inizio” e dopo ho seguito la sorte della mia famiglia cioè il mio papà e i nonni, perché non avevo fratelli e la mia mamma è morta quando avevo pochi mesi. Eravamo quindi unitissimi ma li ho persi tutti così presto.. mi son trovata nel 1945, non avevo ancora compiuto 15 anni, che i miei erano già stati uccisi tutti. Sono stata l’unica sopravvissuta della famiglia paterna insieme a uno zio che era scappato per tempo. Poi mi sono sposata prestissimo e, a 21 anni, avevo già un figlio, che oggi ha 70 anni».

Quando ha preso la decisione di raccontare la sua storia?

Ho vissuto la mia vita, per lungo tempo, volendo innanzitutto godere il presente. Sono stata molto innamorata di mio marito Alfredo, che è morto 14 anni fa. Alla memoria quindi per molto tempo non ho pensato. Del resto la memoria ce l’ho attaccata al braccio, quindi non è che mi possa mai sfuggire, né io voglio sfuggirle perché sono io quella, non un’altra persona. Poi però qualcosa è cambiato, attorno ai miei 60 anni. Quando sono diventata nonna. Ho capito che ero stata, mio malgrado, una testimone e quindi lo ero per sempre. Quel giorno del 30 gennaio 1944 io ero salita su quel treno e la mia vita era cambiata, che altro potevo fare se non raccontare?»

Su quel treno, il giorno dopo l’incontro con Liliana Segre, sono salito anch’io visitando il Memoriale della Shoah al “binario 21” della Stazione Centrale. È stata proprio la senatrice che mi ha invitato, esortato, a non perdermi l’occasione ora che mi trovavo a Milano e ha organizzato, con il bravo e gentile presidente del Memoriale Roberto Jarach, una visita guidata il cui momento più intenso è stato quando siamo entrati dentro uno di quei vagoni “merci”, con gli anelli alle pareti per legarci 8 cavalli (o mucche) e invece dal gennaio 1944 al gennaio 1945 servirono a “ospitare” circa 80 esseri umani, da spedire ai campi di sterminio o di prigionia. Più di 8000 nell’arco di un anno furono gli uomini e le donne, più semplicemente “pezzi”, costipati e trascinati in un viaggio dalla vita alla morte. È molto ben organizzato dal punto di vista architettonico il Memoriale che il prossimo 14 giugno avrà una nuova inaugurazione per l’ampliamento della biblioteca e altri spazi finalizzato a rendere questo posto non solo un luogo di visita ma anche un luogo di studio e di riflessione. Ed è alla luce di quell’esperienza “immersiva” fatta il giorno dopo che rivedo e rileggo la conversazione avvenuta nel tranquillo e assolato salotto della casa della senatrice a vita.

«La memoria è la mia missione», ripete con placida fermezza Liliana Segre, «il punto centrale della mia vita, perché ho visto di persona quello che è accaduto e per me tutto questo è indimenticabile, sotto tutti i punti di vista. È per questo quindi che, con grande umiltà, ho cominciato a parlare e ho smesso solo un anno e mezzo fa, con l’ultimo incontro pubblico presso la Cittadella di Rondine, ad Arezzo. Non vado più infatti nemmeno nelle scuole, ormai sono molto vecchia e non posso prendermi nuovi impegni. Raccontare lo devo anche ai membri della mia famiglia, gli uomini della mia vita, i miei nonni, il mio papà e poi mio marito e i miei figli... Il “principe della memoria”, è stato il mio papà Alberto, in onore di lui e dei nonni e di tutto quello che ho visto con i miei occhi ho deciso di votarmi alla memoria».

La sua non è una missione semplice, forse non impossibile ma molto difficile. Perché il ruolo del sopravvissuto, del “reduce” è sempre scomodo, urticante (tutta la letteratura è intrisa di questo sapore aspro, basti pensare all’Odissea). Chi torna può raccontare quello ha visto con i propri occhi, ma chi ha vissuto l’esperienza non riesce spesso a trovare le parole e, dall’altra parte, gli altri non riescono a trovare il modo giusto di ascoltare, comprendere, e quindi la trasmissione della memoria è sempre fragile, spezzettata, precaria.

Sì, fragile e difficile ma necessaria. Premetto che io sono una persona molto realista e pessimista. Spesso rifletto sulla tragedia degli Armeni che un po’ ho studiato e devo dire che, dopo un secolo, pensavo che qualcuno potesse sapere ancora qualcosa di quella tragedia e invece nessuno sa più nulla degli Armeni. Da qui il mio pessimismo, anche sulla Shoah. Sembra che la storia non insegni mai nulla agli esseri umani, basta vedere quello che arriva, ogni giorno, dal fronte della guerra in Ucraina e dell’orrore delle cose che si stanno scoprendo: homo homini lupus sembra un destino inevitabile. Con poca, anzi pochissima speranza, quindi io cerco di fare quello che ritengo sia la cosa giusta. Raccontare. Non penso di avere scelta, non posso fare diversamente, oltretutto essendo rimasta una delle pochissime, eppure tutto questo mi sovrasta. Non è facile raccontare, è vero; io ho cercato di essere seguace di Primo Levi che non ha mai usato parole difficili e ha sempre usato un linguaggio piano (ed è stato tradotto in tutto il mondo). Si procede così, a piccoli passi, ma poi ruit hora, lo sappiamo: tutto sparisce. E nella vita i vuoti si colmano, come in fisica. Oggi è il momento degli influencer che hanno anche decine di milioni di followers.. Questi sono gli dei attuali, gli eroi del momento, pronti a decadere e a essere sostituiti.

La senatrice mi offre una bevanda, ci distraiamo per un attimo e mi parla della casa in cui si trova, che per anni aveva pensato di lasciare: «Prima della morte di Alfredo, mio marito, pensavo che, da vedova, avrei lasciato questa casa ma, innanzitutto, non pensavo di rimanere vedova, gli dicevo: “tu non devi lasciarmi sola” e invece poi sono rimasta qua. Tra figli e nipoti c’è sempre qualcuno che mi viene a trovare e quando siamo a tavola io mi siedo sempre al posto di mio marito.. dopo 70 anni insieme lei può immaginare, così lui non manca, il posto vuoto è il mio. Mio marito era credente cattolico, mia suocera, una donna meravigliosa, era una terziaria francescana. Quando lei morì Alfredo ha mantenuto un po’ quella fede da bambino, che forse è la più bella, e mi diceva sempre “pregherò per te che non hai la fede”, forse ora sta pregando». Riprendiamo e partiamo proprio dai nipoti:

Lei soprattutto negli ultimi anni ha parlato spesso ai giovani, perché?

Gli adulti mi appaiono indifferenti, che per me è l’atteggiamento peggiore. Quelli che oggi sono grandi, adulti, hanno attraversato il secolo senza capire, comprendere la storia, basta vedere chi sono i nostri rappresentanti; invece nutro stima e speranza nei giovani. Guardiamo a cosa è successo dopo la guerra: solo ricerca di guadagno, di arricchirsi e di apparire. C’è tutto un mondo che vuole apparire, forse questo più che a Milano a Roma, dove conta solo se si è conosciuti e se si conosce “qualcuno”. Insomma per una serie di motivi ho privilegiato il contatto con i giovani, e tutto poi si è come accelerato perché ho cominciato a parlare quando sono diventata nonna.

Papa Francesco auspica spesso che nonni e nipoti parlino tra di loro, che i nipoti attingano alla memoria e al tesoro dell’esperienza dei nonni così come i nonni si rigenerino dal dialogo con i nipoti.

È molto vero e bello. Ripenso alla mia esperienza di bambina e poi di donna. I “progetti” erano che io dovevo morire e solo per caso non sono morta, proprio come in una “sliding door” io mi sono trovata a camminare sull’orlo del burrone e non sono caduta dentro, non perché io fossi così brava o intelligente, ma per puro caso. E invece sono sopravvissuta. Poi mi sono anche sposata e in famiglia tutti pensavano che non avrei potuto avere figli perché quando ero ad Auschwitz ci davano come rancio, uguale per tutti, un preparato a base di bismuto che causava l’interruzione delle mestruazioni. Sono stata quasi due anni senza le mestruazioni, prima per lo spavento, poi per il bismuto, poi per la magrezza assoluta e tutto quello che avevamo visto e subito. Uscita da lì hanno ricominciato ad arrivare le mestruazioni, ma si temeva sulla mia fertilità e invece di figli ne ho avuti tre e poi sono diventata nonna. Molto al di là delle mie “speranze di vita”, così si diceva all’epoca. La vita, questo conta, io ho sempre parlato di vita ai giovani, mai di vendetta. Scegliete la vita! ho sempre detto loro, il mio modo di parlare ai ragazzi non è stato mai di odio o di vendetta ma di saper fare la scelta. La vita e quindi la scelta. All’ingresso del binario 21, al Memoriale della Shoah, ho voluto che si scolpisse quella parola a lettere cubitali: INDIFFERENZA . Per me l’indifferenza uccide più della violenza.

Come rispondono questi giovani? Come vede questa generazione?

Più soli e fragili. Li vedo lì, con gli occhi sul telefonino che dà loro la sensazione di aver risolto tutti i problemi. Come se in quel dispositivo potessero trovare tutte le risposte, tutte le soluzioni; in questo vedo il rischio di un’autosufficienza che può portare all’indifferenza. Ciò li porta ad una fragilità che poi la vita fa emergere anche in modo aspro».

Cosa si può fare per aiutarli?

È molto difficile anche perché ci sono anche grandi problemi dal punto di vista economico e lavorativo. Molti lavori oggi possono essere sostituiti dalla robotica e questo può far aumentare la disoccupazione e quindi la disperazione. Si può forse raccontare la propria storia, l’esperienza personale, sperando che susciti interesse, passione. Ma non è facile, oggi niente sembra più aggregare, certo non la politica o la religione, forse quella strana “religione” che è il calcio. Qualche giorno fa per lo scudetto vinto dal Milan, la città era come impazzita.

La memoria ha a che fare anche con l’accoglienza. Nel cosiddetto “credo d’Israele”, nel capitolo 26 del Deuteronomio, si dice che l’ebreo deve sempre ricordare e ripetere queste parole “Mio padre era un Arameo errante..”. La memoria fa tenere vivo nel cuore la consapevolezza che siamo tutti figli di persone che hanno migrato, che hanno ricevuto accoglienza oppure soprusi nei luoghi che hanno attraversato. Non trova che il recupero della memoria possa aiutare ad affrontare il problema dei migranti in modo più umano?

Sono d’accordo e fa bene il Papa a ricordare di continuo questo rischio. A questo ne aggiungo un altro, il fatto che le migrazioni portando nuove culture e nuove usanze finiscono per rafforzare enormemente i partiti nazionalisti. Mi fa piacere sottolineare che sono molto amica e ho condiviso tante iniziative con la Comunità di Sant’Egidio e quindi sono contenta che il Papa abbia eletto Presidente della Conferenza Episcopale don Matteo Zuppi. Un’altra bellissima realtà che va nella stessa direzione dell’accoglienza e dell’integrazione è quella della Cittadella di Rondine, creata da Franco Vaccari. Con lui ho un bel rapporto al punto che proprio lì ho voluto congedarmi dalle attività pubbliche. Forse quella di Rondine è solo un’utopia, ma anche dell’utopia abbiamo bisogno.

E poi come diceva Nelson Mandela: “se lo puoi sognare lo puoi fare”

E lo diceva in prigione, grazie alla sua forza mite. Lui è riuscito a perdonare. Io no.

Eppure lei insegna ai giovani di non seguire l’odio e la vendetta.

Ho sempre detto loro: “scegliamo la vita”. Sì, io non ho mai insegnato l’odio né la vendetta ma questo non vuol dire che io, personalmente, abbia perdonato. No, io non ho perdonato, anche se a volte scrivono che l’ho fatto (a chi interessa poi di saperlo?); però è così: le cose che ho visto, che sono state fatte non solo alla mia famiglia ma a milioni di persone per la sola colpa di essere nati, perché questa è la colpa, ebbene, per tutto questo non sono stata e non sono disponibile al perdono. Mi dispiace, vorrei poterlo fare, ma non riesco.

Chiudo questo resoconto sul treno che mi riporta a Roma e ho davanti agli occhi il treno che il 30 gennaio 1944 ha portato Liliana Segre ad Auschwitz. Sono salito dentro quel vagone al Memoriale della Shoah e subito dopo, nella sala attigua, ho visto, molto rapidamente, un video dove la stessa senatrice a vita mostra quel luogo ad una giovane ragazza tredicenne, l’età che lei aveva quel freddo giorno di gennaio.

Ho potuto solo assistere per qualche minuto e mi è rimasto impresso il gesto, più volte ripetuto, della senatrice che abbracciava e accarezzava il volto della sua giovanissima interlocutrice, con tenerezza. E mi è venuto in mente il primo episodio del Decalogo di Kristoph Kieslowski, dedicato al primo comandamento. Il protagonista è un bambino che ha perso la mamma e ha un padre, razionalista e ateo, che alla domanda su Dio del figlio gli spiega che Dio non esiste. Il bambino lo ascolta con attenzione; poi si confida con la zia, sorella della mamma, credente e anche a lei rivolge la stessa domanda: cos’è Dio? La zia rimane quasi impacciata, sembra che non sappia rispondere. Poi abbraccia il nipote e gli sussurra: «Questo è Dio».

di ANDREA MONDA

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