Enzo Bianchi, Fabio Rosini, Ludwig Monti "Commenti Vangelo 5 giugno 2022"
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: ¹⁵Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; ¹⁶e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. ²³Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. ²⁴Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. ²⁵Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. ²⁶Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Carissimi fratelli e sorelle, noi celebriamo la festa della Pentecoste, il mistero dell’effusione dello Spirito santo, dono di Cristo risorto alla sua chiesa. È il dono pasquale per eccellenza, è la pienezza dell’evento pasquale, e per questo Luca colloca questo evento nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, nella festa delle Settimane, la festa che ricordava la pienezza della liberazione dall’Egitto del popolo di Israele. Israele era stato liberato dalla schiavitù, ma quest’opera di liberazione si è compiuta solo nell’ora dell’alleanza, con il dono della Legge, l’ora delle nozze tra il Signore Dio e il suo popolo al Sinai.
Ma sempre per la stessa ragione il vangelo di Giovanni colloca l’evento della Pentecoste a compimento del giorno pasquale, il giorno che per il quarto vangelo è il giorno uno della nuova creazione, quando Gesù appare in mezzo ai suoi e alita su di loro il suo soffio, lo Spirito santo. Dunque noi in questo giorno ritorniamo con consapevolezza al mistero della Pasqua, perché la discesa dello Spirito santo sulla chiesa è inscindibile dalla resurrezione da morte di Gesù. Proprio nell’effusione dello Spirito santo da parte di Gesù ai suoi discepoli sta infatti il senso e il termine di tutta la missione che il Figlio aveva ricevuto dal Padre.
È sempre Luca che ricorda a questo proposito una parola di Gesù. Gesù, volendo ricapitolare la sua venuta da Dio in mezzo a noi, tutta la sua missione, ha esclamato: «Io sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e quanto desidero che si accenda» (Lc 12,49). Ecco il giorno dell’accensione di questo fuoco, della discesa dello Spirito santo che fa dei discepoli una cosa nuova, li costituisce corpo stesso di Cristo, fa dei discepoli il tempio di Dio: non sono più dei discepoli alla sequela di un maestro, non sono più degli ascoltatori di un profeta, sono membra di quel corpo glorioso risorto da morte che ormai è in Dio ed è vivente per sempre. È proprio lo Spirito santo che è sempre all’opera: grazie allo Spirito santo il Figlio aveva potuto prendere carne nel grembo della vergine Maria, e ora è proprio lo Spirito santo che nella Pentecoste plasma ancora il corpo di Cristo, scendendo sui discepoli e rendendoli membra del corpo del Signore.
In Gesù c’era una vera ansia di donare lo Spirito santo, c’era una vera impazienza di poter nello Spirito santo attirare tutti a sé per farne il suo corpo, c’era una volontà precisa di compiere tutta l’opera datagli dal Padre per consumare quell’incontro nuziale con l’umanità, facendola sua fidanzata e sua sposa. Sovente penso a questo desiderio di Gesù, un desiderio che dominava la sua missione, e lo confronto con la nostra scarsa attenzione allo Spirito santo, la nostra rara invocazione, la nostra astenia, la nostra debolezza. Come è possibile vivere il nostro rapporto con il Signore Gesù senza desiderare ardentemente di essere in lui, di essere membra del suo corpo? Questo è veramente il nostro peccato: vogliamo stare dietro al Signore, vogliamo essere suoi discepoli, ma non abbiamo una passione fino a voler essere la carne del suo corpo, il corpo del Signore nella storia. Per questo noi non sappiamo dire con efficacia: Gesù il Signore; non sappiamo dire a nessuno: «Ho Kýrios estin», «È il Signore!» (Gv 21,7). Ogni volta che lui è accanto a noi, che è in noi e ci parla, essendo poveri dello Spirito santo, non siamo in grado né di riconoscerlo né di indicarlo agli altri.
Noi abbiamo ascoltato la lettera ai Romani che attesta che lo Spirito abita in noi; la testimonianza della discesa dello Spirito negli Atti degli apostoli; la missione dello Spirito santo secondo le parole di Gesù nel quarto vangelo. Sono testi ricchissimi, che di volta in volta abbiamo già commentato per poter sempre di più conoscere il mistero della Pentecoste. Perciò in questo mio commento voglio soltanto fermarmi sul racconto lucano della Pentecoste, e neppure commentarlo in modo preciso e analitico, ma semplicemente voglio evidenziare due espressioni, due parole che stanno nel brano della discesa dello Spirito negli Atti degli apostoli (2,1-11).
Innanzitutto l’annotazione, che non vuole essere solo una precisazione della situazione, una collocazione dell’evento della Pentecoste, ma in realtà una annotazione che qualifica la discesa dello Spirito: «Mentre il giorno della Pentecoste stava per compiersi, i Dodici, Maria e gli altri discepoli si trovavano tutti insieme nello stesso luogo (epì tò autó)». È importante mettere l’accento sullo stesso luogo per dire l’unità, per dire la presenza della comunità dei discepoli, ma ciò che è ancora più importante è che questa espressione « nello stesso luogo, epì tò autó, in realtà indica il frutto di un’azione da parte dello Spirito di Dio che chiama, raduna, attira da quella condizione di dispersione e di paura in cui si trovavano i discepoli i giorni successivi la morte del Signore.
Qui c’è un aspetto decisivo della comunità cristiana, radunata dal Signore. L’essere radunata è la realtà essenziale per la comunità cristiana: i fratelli, le sorelle non sono nello stesso luogo in forza di una convergenza gli uni verso gli altri, non sono nello stesso luogo in forza di sentimenti, di affinità, di affetti, ma perché radunati dal Signore. Se mancasse questa attrazione del Signore, meglio allora che la forza centrifuga separi dagli altri quelli che vorrebbero restare uniti solo per ragioni personali e umane, non in obbedienza alla forza del Signore. Quella comunità su cui scende lo Spirito santo era il risultato del raduno dei figli di Dio dispersi e Gesù aveva dato la sua vita fino alla morte in croce proprio in vista di questo raduno: creare la comunità dei figli di Dio, attirarli tutti a sé. Ecco perché quelli che sono epì tò autó, nello stesso luogo radunati, lo sono per l’eucaristia che rende visibile il mistero di un corpo compaginato dallo Spirito santo, il corpo di Cristo composto dai credenti in lui e vivificato dallo Spirito. Dunque comunione dello Spirito santo.
L’altra espressione cui rivolgo l’attenzione è la molteplicità di quelle fiammelle di fuoco che si posavano su ciascuno dei discepoli. C’è un solo soffio, un solo Spirito, un solo vento che scende su un’unica assemblea, una comunità costituita da quelli che stavano insieme nello stesso luogo; ma quando i discepoli ricevono lo Spirito, ognuno di loro riceve una lingua di fuoco, una fiammella, e ogni fiammella è diversa dalle altre. Unità di un corpo ma nello stesso tempo diversità, originalità e libertà. Tensione di comunione ma massima personalizzazione del mistero di Cristo nella vita di ogni credente. Tutti battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, tutti abbeverati a un solo Spirito, dice l’apostolo Paolo (cf. 1Cor 12,139, ma ciascuno con un rapporto originale con il Signore attraverso lo Spirito santo che personifica, distingue, mai contristando l’unità. Così ciascuno dei discepoli è invitato, contro ogni tentativo di omologazione, ad essere nella libertà capace di amare, ad essere capace di accogliere nella libertà l’amore dell’altro. È proprio questa condizione di libertà che consente anche la sincerità, consente la conoscenza dell’attrazione del Signore e non di altre attrazioni, che permette la comunità di coloro che sono radunati nello stesso luogo sotto la potenza dello Spirito santo.
Don Fabio Rosini, direttore del Servizio per le Vocazioni della Diocesi di Roma,
commenta il Vangelo del 5 giugno 2022, Solennità di Pentecoste Anno C.
Pentecoste Anno C
Gv 14,15-16.23b-26
Pentecoste: inizio e compimento, in cammino…
Ludwig Monti, biblista
La solennità della Pentecoste ha le sue radici nella festa delle Settimane (Shavuo‘ot, in ebraico): per Israele è la festa memoriale del dono della Torah al Sinai, la festa dell’alleanza, cinquanta giorni dopo il memoriale dell’uscita dall’Egitto, celebrato nella Pasqua. Nell’“economia” cristiana, il dono dello Spirito rende la comunità di Gesù celebrazione vivente dell’alleanza nuova, ultima, definitiva, quella intravista dal profeta Geremia (cf. Ger 31,31), incarnata da Gesù nel calice dell’ultima cena (cf. Lc 22,20; 1Cor 11,25), cantata nel Nuovo Testamento. È quanto annuncia il brano liturgico classico di questa festa, la prima lettura (At 2,1-11).
Pentecoste è la pienezza del mistero pasquale, la pienezza del dono dello Spirito, che attraversa tutte le sante Scritture: dall’inizio, quando “lo Spirito di Dio aleggiava sulla faccia delle acque” (Gen 1,2), alla fine, quando “lo Spirito e la sposa”, la chiesa, invocano il Cristo risorto: “Vieni!” (Ap 22,17). Come è stato “il compagno inseparabile di Gesù” (Basilio) lungo tutta la sua vita, ora è inviato da Gesù stesso da presso il Padre, dopo la sua ascensione al cielo: “Ecco, io mando su di voi la promessa del Padre mio” (Lc 24,49).
Pentecoste è la festa di un nuovo inizio possibile, suscitato dalla potenza dello Spirito santo. Dobbiamo crederci, nonostante le evidenze contrarie. Dobbiamo accogliere la grazia, cioè i doni sempre rinnovati dello Spirito. Dovremmo contemplare in silenzio. Dovremmo ricordare i testi della Scrittura e della liturgia sullo Spirito santo… “Un cuore nuovo e uno spirito nuovo”, dice a più riprese Ezechiele (cf. Ez 11,19; 18,31; 36,26); “un cuore puro e uno spirito saldo” canta il Sal 51 (v. 12). Ecco dove possiamo volgere il nostro sguardo in questa festa: la novità, la pienezza e integrità di tutta la nostra persona, animata dallo Spirito. È ciò che ci ricordano le parole di un grande teologo e testimone della fede, morto recentemente a oltre cento anni.
Il dono dello Spirito santo è il dono della salvezza compiuta una volta per tutte attraverso la morte e resurrezione di Gesù, è la pace di Dio che sollecita tutti a riconciliarsi tra loro, è il fluire della vita di Cristo in coloro che credono in lui, ed è anzitutto il dono della fede in Cristo, perché “nessuno può dire: ‘Gesù è Signore’ se non sotto l’azione dello Spirito santo” (1Cor 12,3). Il legame di Gesù con lo Spirito è rivelatore della sua identità profonda quale Signore … Tale è la rivelazione ricevuta dai discepoli quando si sentono investiti dallo Spirito per portare al mondo la parola che Gesù aveva ricevuto dal Padre. (Joseph Moingt)
Cogliamo dunque qualche scintilla dal fuoco luminoso della prima lettura e del vangelo.
Il brano degli Atti esprime in primo luogo il “compimento”, la “pienezza”: il cinquantesimo giorno si compie, la casa si riempie del vento dello Spirito, e tutti sono riempiti di Spirito santo. Ciò va ben oltre i nostri progetti, è improvviso, non programmato, ma è qualcosa che ci è chiesto di accogliere qui e ora. Apertura alla novità, alla vita, non chiusura entro orizzonti limitati: questo ci chiede la Pentecoste. E ce lo chiede parlando di fuoco, cioè di passione, di luce, di calore, di vita! Impossibile non accostare questa immagine alle parole di Gesù: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). E poi quel meraviglioso detto testimoniato dal Vangelo copto di Tommaso (n. 82): “Chi è vicino a me, è vicino al fuoco. Chi è lontano da me, è lontano dal Regno”. Il fuoco di Cristo, il fuoco dello Spirito che egli desiderava far ardere nei suoi amici, “si posa su ciascuno di loro e tutti sono colmati di Spirito santo”. È la feconda dialettica tutti/ciascuno: lo Spirito del Signore unisce ma non suscita nessun collettivismo. Le singole personalità non si annullano: vi è anzi una personalizzazione, che viene a rivelare il mistero personale di ogni essere umano e a imprimere su ognuno il proprio sigillo.
Ciò è confermato dal fatto che i rappresentanti di tutti i popoli allora conosciuti sentono gli apostoli parlare “ciascuno nella propria lingua” delle meraviglie di Dio, non di altro! Di nuovo, un’unità plurale. Eterna chiamata per la chiesa di Gesù Cristo, una, santa, cattolica e apostolica: le lingue dell’umanità restano diverse, e questa pluralità di culture non è annullata; ma lo Spirito santo va invocato come colui che, solo, è in grado di creare un’unità plurale, così come molti doni e molte membra vengono composte nell’unico corpo del Signore, la chiesa (cf. 1Cor 12,12-14). Lo Spirito fa sussistere la diversità senza annullare l’unità e fa risplendere l’unità senza sopprimere la molteplicità.
Infine, lo Spirito santo plasma anche uno stile, parola chiave per i discepoli e le discepole di Gesù nel mondo: “parlavano come, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi”. Kathós, in greco, l’avverbio presente nel comandamento nuovo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12). “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato” (Rm 5,5), dirà Paolo, ma è un amore che chiede di essere espresso con lo stile cristiano! Se non capiamo questo stile, se non siamo capaci di un amore intelligente, celebriamo invano anche la Pentecoste.
Quanto al brano evangelico, ci dice che Gesù non ha lasciato “orfana” (cf. Gv 14,18) la sua comunità, né con l’ascensione al cielo è avvenuta una separazione tale da mettere fine alla sua azione nel mondo. La comunità dei credenti, infatti, condivide con lui la stessa vita, lo stesso Spirito, e ciò la abilita a proseguire la sua azione nella storia: annunciare la buona notizia del Vangelo, compiere il bene, adoperarsi per far arretrare il dominio di Satana. Come Gesù fu riempito della potenza dello Spirito santo e abilitato alla missione (cf. At 10,38), altrettanto accade alla sua chiesa, a partire dal giorno di Pentecoste.
Ascoltiamo la promessa dello Spirito santo fatta da Gesù ai discepoli durante i cosiddetti “discorsi di addio”, su cui già abbiamo meditato nel tempo pasquale. Gesù lega strettamente tale promessa all’amore: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito, Consolatore, perché rimanga con voi per sempre”. Il miglior commento sono le parole finali del brano liturgico: “il Paràclito, lo Spirito santo che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”. Nel cuore dei credenti lo Spirito agisce rendendo presente tutta la vita di Cristo: memoria totale della persona di Cristo, illumina il nostro agire quotidiano, fino alla venuta del Signore nella gloria. La “comprensione” di Cristo ci sta davanti come ciò che non è mai finito! Siamo sempre in cammino, dietro a lui, che ci precede sempre in Galilea (cf. Mt 28,7), per farci sempre ricominciare. E solo lo Spirito può darci pienezza e fuoco di passione, per aiutarci a portare con “i modi del Signore” (Didaché) il frutto che egli desidera da noi.
Dicevamo che la Pentecoste è la festa di un nuovo inizio possibile. Ma le letture bibliche, coronate dall’orizzonte aperto davanti a noi dal Vangelo, ci dicono che è anche la festa di un compimento, di ciò che sempre ci eccede e sta davanti a noi: la pienezza della rivelazione di Cristo. Questa consapevolezza dovrebbe risvegliare in noi ogni giorno il senso del nostro essere discepoli e discepole di Gesù: camminare insieme dietro a lui e verso di lui. Cammino che mai dobbiamo stancarci di ricominciare, sapendoci preceduti da chi ci ha aperto la via: il Signore Gesù Cristo che, nella potenza dello Spirito santo, è sempre con noi e ogni giorno ci chiama a comprendere la sua vita, per farne la nostra vita, in una rinnovata adesione alla realtà. Perché “la realtà è Cristo” (Col 2,17).