Enzo Bianchi "Cardiogramma del mondo"
Il cardiogramma del mondo: come misurare e curare i malanni della società
L’applaudito intervento di Enzo Bianchi a Passepartout
CARLO FRANCESCO CONTI
Mette le mani avanti, Enzo Bianchi: il tema dell’Occidente andrebbe affrontato più a lungo. E difatti, dopo una profonda riflessione che tocca storia, etica e spiritualità, affida un «compito a casa» agli ascoltatori. Il suo («Cardiogramma del mondo») è uno degli incontri di Passepartout più sentiti, con applausi a scena aperta.
Bianchi prende le mosse dal significato di Occidente, terra dell’«occasum», il tramonto, che fin dall’antichità ha guardato all’Oriente come luogo della luce, una luce speciale per il cammino dell’umanizzazione. Subito dopo si sofferma sul concetto di crisi, «parola fra le più tentacolari», anzi «più che una parola è un albero dai rami incessanti e multiformi», che indica separazione, vaglio, giudizio non necessariamente in senso negativo: per Ippocrate la crisi è il punto in cui si decide l’esito della malattia. E questo porta a considerare la società come un corpo e non solo un’azienda. Oggi però è un corpo malato. «La pandemia ci ha sorpreso - dice Bianchi - ma perché, in un mondo malato come pensavamo di restar sani nei nostri corpi?». E soprattutto, in un mondo del genere «ci sarà sempre più spazio per nuove patologie e nuove pandemie».
Il rapporto fra umanità e terra è stretto: «La crisi ci dice sempre qualcosa, anche di positivo. Siamo interdipendenti, non possiamo fare a meno gli uni degli altri. In un certo senso è vitale, un processo essenziale per crescere, cambiare, a patto di saperlo governare». Al contrario, se non si sa come ordinare i processi, contemperarli con i bisogni della società, questa diventa depressa (citando Baumann) e la malattia sociale non riguarda solo più gli individui. Bianchi elenca poi le crisi, economica, politica, culturale e così via. «Ogni comunità conosce crisi» afferma, e in molti il pensiero corre alle vicende di Bose.
Fino alla crisi etica, che alimenta l’illegalità e la corsa dell’ineguaglianza. Bianchi lancia un allarme per le nuove generazioni, in una situazione di grande fragilità per mancanza di fiducia e speranza, al punto di faticare nel trovare un senso, una ragione per cui valga la pena vivere, addirittura nel costruire la cosa più naturale di tutte, l’amore. E tra i sintomi peggiori del presente, Bianchi individua il rinchiudersi nel clan, che porta a una grande solitudine, il rifiuto di conoscere lo sconosciuto.
Arrivano poi i tre «compiti», tre punti su cui pensare invitando alla prassi, a un cambiamento di stile, soffermandosi su tre fratture.
Il primo riguarda l’integrazione, a partire dai grandi movimenti migratori, destinati a crescere. Poiché oggi tutto accade più velocemente, occorre imparare cos’è l’inclusione, la relazione con lo sconosciuto. In definitiva un apprendistato da entrambe le parti, per imparare a usare empatia e accettazione nella diversità.
Il secondo riguarda la frattura fra etiche, in particolare fra quella tradizionale basata su cristianesimo ed ebraismo, e la nuova istanza antropologica. Bianchi invita a fare un cammino di pluralità, senza disconoscere la propria identità: «Chi è diverso va accettato nella sua diversità. Io non devo diventare diverso come lui, ma non posso obbligarlo a essere secondo una verità che io costituisco come tale, o dico costituita da Dio, che è un’alterità, non ciò che cercano gli uomini». Altro invito: ricordare che siamo tutti fratelli e sorelle, accomunati dalla ricerca della felicità.
Il terzo è l’invito a ragionare sulla crisi del cristianesimo, «forse la più grave, che rende più difficile la nostra speranza». Occorre cambiare il modo di vivere la Chiesa, che deve cambiare come devono farlo i laici, anziché ripetere liturgie svuotate di senso. E conclude con la domanda che riassume tutto: «Ma si ha speranza nell’istituzione o nel Vangelo?».