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Sabino Chialà: «La profezia oltre la crisi»

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Credere 26 maggio 2022  

Il nuovo priore di Bose ha assunto la guida di una comunità messa alla prova da un doloroso conflitto interno: «Questa fragilità, però, ci aiuta a guardare al futuro. La vita monastica, d’altronde, è un grande laboratorio della diversità: una sfida per la Chiesa intera»


Occhi sorridenti ed eloquio pacato, Sabino Chialà è priore del monastero di Bose dal 30 gennaio scorso, quando ha raccolto la non facile eredità del predecessore, Luciano Manicardi. La comunità monastica piemontese, infatti, viene da tre anni turbolenti, in cui si è consumata una dolorosa crisi tra il fondatore, fratel Enzo Bianchi, e la gran parte dei fratelli e sorelle che vivono in questa valletta adagiata sulla Serra morenica di Ivrea. Le tensioni interne sono state tali da spingere il Vaticano a intervenire e, dopo un’approfondita visita apostolica, a decretare l’allontanamento di Bianchi e altri tre fratelli dalla comunità. In questo tempo difficile, tutti hanno pagato un prezzo all’esplodere del conflitto: alcuni monaci hanno lasciato la comunità, altri hanno concordato il trasferimento a Cellole (vicino San Gimignano), una delle fraternità di Bose che, però, ora è autonoma dalla casa madre.

Nonostante il peso delle responsabilità, fratel Sabino – originario di Locorotondo, in Puglia, dove è nato 54 anni fa – non sembra aver perso il suo aplomb da studioso (è esperto di lingua siriaca) e quel mezzo sorriso che gli illumina il volto, incorniciato dagli occhiali un po’ rétro.

FRATEL SABINO, QUAL È LO STATO DI SALUTE DELLA COMUNITÀ?

«Mi verrebbe da dire che, se per un verso misuriamo tutta la nostra fragilità, per l’altro viviamo una situazione di grazia, perché questa crisi profonda che ha scosso la comunità dalle fondamenta ci ha anche dato l’opportunità di un radicamento nuovo nelle intuizioni delle origini di Enzo Bianchi e dei primi fratelli e sorelle di Bose. Dunque, la comunità ha misurato tutta la sua fragilità ma anche tutta la sua determinazione a continuare: ha dovuto ridirsi le ragioni profonde di questo suo itinerario, anche passando attraverso il crogiuolo di una dolorosa purificazione. Tale purificazione richiede una rilettura del nostro passato, di questi più che 50 anni di vita comune, e anche una ridefinizione del cammino futuro che, senza rinnegare nulla delle intuizioni originarie, possa però guardare a questo tempo e ai volti delle persone concrete che sono qui oggi. Quanto alla frattura con Enzo, dire nettamente che essa non si possa ricomporre non sarebbe né umano né cristiano. Personalmente, sono aperto a quello che sarà. La stessa ragione per cui sono rimasto qui è che per me Bose non è solo un fatto di uomini e donne, ma è una realtà in cui lo Spirito ha giocato un ruolo fondamentale. E io credo che lo farà ancora. E lo Spirito – come si sa – è imprevedibile».

PASSIONE PER LA PAROLA DI DIO ED ECUMENISMO VISSUTO NEL QUOTIDIANO SONO DUE DEGLI “ELEMENTI” DI QUESTA INTUIZIONE ORIGINALE. COME SI CONCRETIZZANO OGGI?

«Sono due aspetti che, fin dall’inizio, più che descrivere una idea astratta, rappresentano una realtà vissuta. D’altronde, cos’è il carisma di Bose? È la vita vissuta in questi 50 anni da uomini e donne precisi in questo luogo. Anche l’ecumenismo di Bose non è un’idea astratta, ma è il fatto che uomini e donne di Chiese diverse vivono insieme e condividono preghiera, liturgia, lavoro, servizio e accoglienza. Se mi chiedessero dunque qual è il carisma di Bose, io guarderei i volti dei fratelli e delle sorelle che sono qui – e anche di quelli che non sono più qui – e direi: questo è il nostro carisma. D’altronde, quando mi alzo la mattina, la prima persona che vedo, mentre esce dalla stanza di fronte alla mia, è Daniel Attinger, pastore protestante. Il mio ecumenismo inizia ogni giorno da lì».

PARLARE DI VITA MONASTICA DI QUESTI TEMPI NELLA NOSTRA SOCIETÀ È COME PARLARE DI QUALCOSA DI ESOTICO. LEI COME È FINITO PER ABBRACCIARE QUESTA STRADA?

«Ho l’impressione che i monaci oggi non sono neanche più visti come qualcosa di esotico, semplicemente non sono più visti. Il monachesimo sta proprio uscendo di scena dalla vita delle persone, specialmente dei più giovani. Quando sono arrivato io qui, 33 anni fa, la situazione era diversa: appartengo ancora a una generazione che, pur avendo magari le idee un po’ confuse, era in una qualche connessione con la realtà monastica o religiosa, era ancora alla ricerca di una forma di vita evangelica, di una sequela Christi un po’ diversa da quella che si sperimentava nelle parrocchie: frequentavamo Spello, la Cittadella di Assisi o altre realtà nelle quali cercavamo qualcosa di più, di ulteriore, che magari non sapevamo bene cosa fosse. Perciò, quando sono arrivato a Bose, ho avuto la sensazione che – dopo vario peregrinare – fossi finalmente arrivato a casa. E così mi sono fermato».

NONOSTANTE IL FATTO CHE IL MONACHESIMO SIA SPARITO DALL’ORIZZONTE DELLE NUOVE GENERAZIONI, BOSE PERÒ OGNI ANNO OSPITA CENTINAIA DI GIOVANI. QUAL È IL FATTORE CHE FA DA CALAMITA?

«Credo che sia la capacità di offrire uno spazio franco di accoglienza, che risponde alla sete originaria di ogni essere umano. Un luogo di ascolto, dove poter avviare o approfondire un cammino di ricerca e di incontro con il Signore».

A PROPOSITO DI ASCOLTO, LA CHIESA ITALIANA HA AVVIATO LA FASE DI ASCOLTO DEL SUO SINODO NAZIONALE. CHE COSA PENSA DI QUESTA INIZIATIVA?

«Il Sinodo può essere una grande opportunità per la Chiesa, tenuto conto che attraversiamo una stagione estremamente critica in cui non è più possibile evitare una riflessione seria su ciò che sta succedendo intorno a noi e dentro la comunità cristiana. E non è più possibile lasciare che siano solo alcuni a riflettere e a decidere: serve il coinvolgimento di tutti. Il libro che dovremmo più meditare in questa fase sono gli Atti degli apostoli: una grande provocazione al discernimento di fronte alle sfide concrete che le prime comunità cristiane incontravano. Ed è anche un libro di grande creatività. Pensiamo ad esempio al cosiddetto Sinodo o Concilio di Gerusalemme dove un gruppo di ebrei decide che possono diventare discepoli di Gesù anche i pagani. Forse noi oggi non percepiamo bene l’enormità della scelta, il tipo di sconvolgimento che ha comportato. A Gerusalemme, insomma, si decide che era possibile un altro modo di appartenenza ecclesiale. Credo che oggi come allora dobbiamo aprirci a prospettive nuove. Non dobbiamo avere paura – ad esempio – della partecipazione delle donne alla vita ecclesiale, non dobbiamo avere paura di interrogarci sulle famiglie ferite o su altri temi che possono apparire scottanti».

LA SINODALITÀ PROPRIA DELLA VITA MONASTICA HA QUALCOSA DA INSEGNARE ALLA CHIESA NEL SUO COMPLESSO?

 «La vita monastica ha una sua vocazione sinodale, che esprime ad esempio nella capacità di riadattare il proprio quadro alle situazioni che, man mano, si avvicendano. In fondo la comunità monastica, dal punto di vista sociologico, è una struttura tra le più fragili e complesse, in cui vivono fianco a fianco persone che sono assai diverse quanto a origini, mentalità, età e, come nel nostro caso, anche confessione religiosa. È un grande laboratorio della diversità, con tutti i drammi che comporta, perché elaborare la diversità è molto faticoso. Ma o si accetta questa sfida oppure non è possibile una comunità che cresce: si diventa una comunità di simili, in cui per stare insieme bisogna standardizzarsi: una delle situazioni più mortifere che possiamo riprodurre».

LA RELAZIONE FRATERNA CON LE CHIESE ORTODOSSE È UNO DEGLI ELEMENTI CARATTERIZZANTI DI BOSE SIN DALLE ORIGINI. VOI CONOSCETE BENE IL PATRIARCA DI MOSCA, KIRILL, CHE IN PASSATO ERA CONSIDERATO UN UOMO APERTO ED ECUMENICO. LEGGERE I SUOI DISCORSI RECENTI SULLA GUERRA IN UCRAINA PERÒ È SCIOCCANTE. QUAL È LA SUA IMPRESSIONE?

«Anche io rimango interdetto e rattristato vedendo ciò che dichiara il patriarca Kirill. Si ha l’impressione di un asservimento al progetto politico del Cremlino. Siamo di fronte a una vecchia questione: la capacità delle Chiese di difendere la propria libertà dalle pretese dei poteri di questo mondo. Purtroppo è una lezione che come cristiani non abbiamo mai imparato del tutto. In questo contesto, fa venire la pelle d’oca rileggere la Lettera a Diogneto (un testo cristiano risalente al II secolo, ndr), quando dice che i cristiani non hanno patria, perché “ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera”. Sembra una visione utopica, eppure viene dalla radice della nostra tradizione cristiana. È a questa radice che dobbiamo tornare».

CHI É

 

Età 54 anni

Responsabilità Priore di Bose

Studi È esperto di lingua siriaca e studioso di Isacco di Ninive

Vocazione È entrato a Bose quando aveva 21 anni. «Qui mi sono sentito subito a casa» Responsabilità Studi

LA COMUNITÀ NATA CON IL CONCILIO

La comunità di Bose nasce l’8 dicembre del 1965, giorno in cui si chiude il Concilio, quando Enzo Bianchi, un giovane studente a Torino, va a vivere, solo, in una casa affittata presso le cascine abbandonate di Bose. I primi fratelli giungono tre anni dopo, e fra essi una donna e un pastore evangelico: prende vita una comunità monastica dalla forma inedita e profetica. Da allora, a Bose si celebra la liturgia delle Ore cantata, si lavora, si pratica l’accoglienza, si studia la Scrittura e la tradizione monastica. La regola era stata approvata dal cardinale Michele Pellegrino di Torino in occasione della professione dei primi sette fratelli nel 1973. La Comunità monastica è stata canonicamente approvata dal vescovo di Biella nel 2000. Nel frattempo sono nate altre fraternità a Cellole (ora autonoma), Ostuni, Assisi e Civitella San Paolo. Nel 2017 Bianchi ha lasciato l’incarico di priore ed è stato scelto quale suo successore Luciano Manicardi. A inizio 2022 gli è succeduto Sabino Chialà. Oggi la comunità è formata da una sessantina di persone: uomini e donne, alcuni dei quali evangelici e ortodossi, cinque preti cattolici e un pastore protestante.


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