Massimo Recalcati "Quando il lavoro si trasforma in divinità pagana"
La Stampa, 5 maggio 2022
Freud pensava che il compito di una psicoanalisi fosse quello di rendere possibile a un essere umano amare
e lavorare. L’amore e il lavoro gli apparivano come due facce di una sola medaglia. Nell’amore e nel lavoro
la vita umana realizza, infatti, in modo pieno la propria dignità. Nel corso delle più profonde crisi
economiche, non ultima quella legata alla pandemia, il suicidio di imprenditori e di persone che hanno
perduto il loro lavoro e si sono ritrovate senza avvenire, riflette drammaticamente questa semplice verità.
Nondimeno, il lavoro è stato ed è ancora luogo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, pena e fatica,
sottrazione e umiliazione della propria dignità. Quando accade? Quando il sacrificio di sé esclude ogni
possibile realizzazione personale, quando la necessità della sopravvivenza impone la sopportazione di un
lavoro retribuito senza alcuna equità. In questi casi il lavoro anziché dare senso alla vita la spoglia di ogni
senso possibile.
Non è più luogo elettivo della umanizzazione della vita, ma, come scriveva già il giovane Marx, espressione
della sua degradazione a vita animale, di una sua alienazione irreversibile. Nel nostro tempo, di fianco a
questa dimensione alienata del lavoro, troviamo però un’altra sua trasfigurazione inquietante. E’ quello che
accade quando il lavoro diviene una vera e propria idolatria, quando esso assume i caratteri di una passione
smodata finalizzata non tanto all’esercizio della sua attività, ma al profitto che essa permette di
raggiungere. Lavorare, in altri termini, non possiede più un valore in sé, ma solo per quello che consente di
realizzare in termini di profitto. In questi casi il lavoro può assumere la forma di una paradossale
dipendenza patologica. Non esiste, infatti, lavoro umano che non implichi la necessità della sosta, della
pausa, dell’intervallo.
Anche il Dio della Torah mostra la necessità di rinunciare alla propria potenza - alla propria forza creatrice -
dedicando un giorno intero al suo riposo. In questo modo intende avvisare l’uomo sulla tentazione di fare
del lavoro una sorta di divinità pagana, di trasformare la dedizione al proprio lavoro in una vera e propria
idolatria. Non c’è dubbio che questo sia un tratto rilevante del nostro tempo. Si tratta di una nuova
religione. Mentre storicamente l’etica del lavoro trovava la sua matrice – come ha indicato Weber - nella
cultura protestante (ascetismo, risparmio, rinuncia, dedizione, senso del dovere, vocazione), nel nostro
tempo questa dimensione etica del lavoro sembra avere subito una fondamentale deformazione. La
passione per il lavoro appare subordinata a quella del raggiungimento di un successo individuale rapido. Il
rigore protestante del lavoro come vocazione ha lasciato il posto all’avidità pulsionale del consumo. La
tendenza alla conservazione e alla ritenzione - al risparmio e all’accumulazione - si è ribaltata in una spinta
al godimento immediato. L’iperattivismo contemporaneo intossica il lavoro sottoponendolo allo stress di
una gara perpetua.
Ma, come sappiamo bene, la passione per il profitto non conosce limiti. La protervia che sospinge gli uomini
a farsi padroni della terra avvelena il mondo. E’ la nostra follia più grande. Non a caso nella sua
predicazione Gesù invita gli esseri umani ad assumere come propri maestri gli uccelli nei cieli e i gigli nel
campo. Cosa ci insegnano? A deporre l’attesa nei confronti del domani, a vivere nell’oggi, nell’adesso, a non
inseguire vanamente quello che ci manca, ad amare, come direbbe Agostino, quello che si ha. E’ uno degli
insegnamenti della pandemia che non dovremmo dimenticare troppo rapidamente: distinguere l’essenziale
per la nostra vita dall’inessenziale. E’ un fatto che non sfugge agli psicoanalisti: le vite immerse nella furia
produttivistica del nostro tempo lamentano tutte una perpetua insoddisfazione e una perdita verticale del
senso. Anche la Scuola è stata investita da questa cattiva ideologia iperattivistica: ha valore solo ciò che è
produttivo. L’egemonia del modello “impresa” ha deturpato la sua vocazione più profonda. Il linguaggio
dell’azienda ha imbastardito il suo lessico, stravolto le sue procedure, intossicato la vita della sua comunità.
Diventa sempre più difficile pensare alla Scuola come alla possibilità di un tempo non colonizzato dalla
necessità produttiva. Invece dovrebbe essere proprio la Scuola a preservare la possibilità di un tempo
fecondo a partire dalla sua improduttività. Dedicare un pomeriggio alla lettura di una poesia, considerato
dal punto di vista economicistico, appare uno spreco di tempo. E’ quello che un noto imprenditore
rimprovera continuamente ai nostri giovani: lo studio non è affatto necessario al lavoro. Eppure è proprio
da questo uso improduttivo del tempo - di cui la Scuola dovrebbe essere custode - che potremmo trarre
una lezione fondamentale: la formazione non deve essere una palestra piegata alla logica del successo
individuale, a una gara di tutti contro tutti, ma un tempo dove si impara collettivamente a dare un senso
singolare alla propria esistenza.