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Luciano Manicardi "Fare spazio all’astensione: celibato e sessualità"

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Anthropologica | 2018
Annuario di studi filosofici

ACCOGLIERE LA CARNE PER UNA VISIONE INTEGRALE DELLA SESSUALITÀ 
A CURA DI LUCA ALICI, SILVIA PIEROSARA

FARE SPAZIO ALL’ASTENSIONE: CELIBATO E SESSUALITÀ 


Si parla di celibato e di sessualità a partire da un corpo e da un’esperienza. Il mio corpo e la mia esperienza sono di un maschio. Dunque il mio discorso è parziale. Da un lato, perché procede da un’esperienza in cui il dato generale del celibato richiesto nella vita monastica in cui sono impegnato da decenni è personalizzato nella mia esistenza particolare e unica. E la biografia di ciascuno comprende anche la storia della sessualità di ciascuno. Dall’altro, perché sono un maschio. Il discorso, affrontato da una donna, suonerebbe diversamente e con ben altri accenti. 
La ricerca di fondamenti biblici al celibato religioso conduce a risultati davvero esigui. Ma significativi proprio nella loro scarsità. Il fondamento davvero solido è un rinvio alla persona di Gesù Cristo e al vangelo.

1 | L’ANTICO TESTAMENTO 

Nell’Antico Testamento non ci sono elementi a favore di un impegno religioso celibatario: se è apprezzata la verginità di una ragazza lo è in vista del suo matrimonio e della maternità, che rappresentavano i luoghi della vera realizzazione femminile. Verginità e celibato sono condizioni di menomazione e realtà da compiangere: la figlia di Iefte, costretta a morte prematura, piange il fatto di non aver potuto “conoscere uomo”, cioè di non aver potuto sposarsi, aver rapporti sessuali e fare figli (cf. Gdc 11,29-41). Non abbiamo attestazioni di vergini o celibi per motivi religiosi. Del resto, è la categoria sponsale il grande segno dell’alleanza e dell’amore di Dio per il suo popolo. Anzi, al cuore della Bibbia si trova quel Cantico dei Cantici che mostra la valenza pienamente positiva dell’esperienza erotica. Il Cantico celebra l’amore di un ragazzo e di una ragazza, un amore umano, sensuale. Questo amore è al centro del Cantico, un amore che solo quando è colto nella sua “letteralità” e “materialità” può anche rivelarci la sua valenza simbolica e la sua portata eminentemente spirituale. Ha scritto Franz Rosenzweig: «La metafora dell’amore attraversa, come metafora, l’intera rivelazione. Presso i profeti è la metafora sempre ricorrente. Ma dev’essere ben più che una metafora. E tale è solo quando compare senza un rinvio a ciò di cui dev’essere metafora. Non è sufficiente, dunque, che il rapporto di Dio con l’uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l’amante e l’amata; nella parola di Dio dev’esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senz’alcun rimando al significato. E così lo troviamo nel Cantico dei cantici. In questa metafora non è più possibile vedere “soltanto una metafora”. 
Qui il lettore è posto, a quanto pare, di fronte all’alternativa tra l’accogliere il senso “puramente umano”, puramente sensuale (e certo allora finirà col chiedersi per quale bizzarro errore queste pagine siano finite in mezzo alla parola di Dio) ed il riconoscere che qui, proprio in questo senso puramente sensibile, direttamente e non “solo” metaforicamente si cela il significato più profondo». 
L’ebraico biblico non conosce nemmeno un vocabolo per indicare l’uomo non coniugato. Si può forse dare il senso di “celibi” al termine yechidim (unica ricorrenza di yachid, “solo”, “unico”, al plurale nell’Antico Testamento) di Sal 68,7: il parallelismo con le categorie svantaggiate socialmente delle “vedove” e degli “orfani” (Sal 68,6) indica che questa interpretazione è almeno probabile. Il Dio che si presenta come “padre degli orfani” e “difensore delle vedove” (Sal 68,6) è anche il Dio che “fa abitare i solitari (yechidim) in una casa”, ovvero, che procura una famiglia (=casa) ai celibi (Sal 68,7). Dunque, se anche il termine indicasse realmente dei celibi, si tratterebbe di una condizione negativa a cui Dio pone rimedio facendola terminare: il celibato sarebbe una condizione disgraziata a cui Dio viene incontro donando una famiglia. 
Anche il celibato profetico di Geremia ha una chiara connotazione negativa: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: non prendere moglie, non avere figli né figlie in questo luogo perché…» (Ger 16,1-2). Il motivo del celibato chiesto da Dio a Geremia come segno profetico è di significare la deportazione e l’esilio che Dio farà vivere al popolo (Ger 16,10-13) e di visibilizzare la distanza che Dio prende rispetto al suo popolo: «Dice il Signore riguardo ai figli e alle figlie che nascono in questo luogo e riguardo alle madri che li partoriscono e ai padri che li generano in questo paese. Moriranno di malattie strazianti, non saranno rimpianti né sepolti, ma diverranno come letame sul suolo. Periranno di spada e di fame; i loro cadaveri saranno pasto agli uccelli del cielo e alle bestie della terra» (Ger 16,3-4). Il celibato di Geremia deve significare la catastrofe che incombe su Israele: con il suo celibato Geremia dice che Israele è privato di futuro. Si tratta sì di celibato profetico, ma la sua valenza è negativa. 
Le cose cambiano nel periodo postesilico: con il Terzo-Isaia (Is 56-66) e con la riflessione sapienziale (Siracide e Sapienza) emerge una critica all’assolutezza e al meccanicismo del rapporto sterilità-maledizione (sterilità-infelicità) da un lato e fecondità-benedizione (fecondità-felicità) dall’altro. Già il Deutero-Isaia aveva letto la vicenda di Gerusalemme nell’esilio e nella fine dell’esilio come vicenda di sterilità coperta da una sovrabbondante benedizione divina (Is 54,1-3). Per il Siracide a nulla vale avere molti figli, se questi si rivelano inetti o empi (cf. Sir 16,1-2): è meglio «morire senza figli che con figli empi» (Sir 16,3). 
Nel Terzo-Isaia si afferma che, agli eunuchi che sono fedeli all’alleanza, osservano il sabato e amano le cose gradite a Dio (Is 56,3b-5), il Signore concederà una fecondità spirituale, una capacità generativa preferibile a quella fisica che assicurerà loro un “nome”, cioè un futuro, un ricordo, migliori che se avessero avuto figli e figlie. «Non dica l’eunuco: ecco io sono un albero secco (cioè: non dica colui che è impotente a generare “io sono sterile, non servo a nulla”) poiché, così dice il Signore agli eunuchi che osservano i miei sabati, preferiscono le cose di mio gradimento, restano saldi nella mia alleanza, io concederò nella mia casa e nelle mie mura un posto e un nome migliore che figli e figlie» (Is 56,3- 5). Negli ambienti sapienziali si afferma l’idea che, più del dato materiale di avere figli, che possono rivelarsi ribelli e empi, è importante acquisire sapienza e timore del Signore. Il passo di Sap 3,14-4,6 contiene la paradossale beatitudine della sterile (Sap 3,13) e dell’eunuco («[Beato] anche l’eunuco che non ha operato misfatti con le mani»: Sap 3,14). Da luogo di maledizione, la situazione di mancanza diviene possibilità di benedizione: l’assenza di figli o l’impossibilità a generare non è una condanna all’infelicità. «È meglio restare senza figli e avere la virtù, poiché c’è immortalità nel suo ricordo: essa è riconosciuta da Dio e dagli uomini» (Sap 4,1). 
Per la Bibbia la sterilità è un segno di maledizione, di una privazione intollerabile, ma nel periodo postesilico si intravede la possibilità che anche l’eunuchia, la condizione di celibato, possa essere portatrice di benedizione.

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