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Enzo Bianchi, Fabio Rosini, Ludwig Monti "Commenti Vangelo 8 maggio 2022"

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Commento al Vangelo della domenica e delle feste 
di Enzo Bianchi fondatore di Bose

Come riconoscere un discepolo di Gesù?
8 Maggio 2022 
IV Domenica di Pasqua anno C

Gv 10,27-30

In quel tempo Gesù disse: «²⁷Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. ²⁸Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. ²⁹Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. ³⁰Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

“Nessuno strapperà le mie pecore dalla mia mano”: queste parole del Signore Gesù Cristo sono e restano, anche nella notte della fede, anche nelle difficoltà a camminare nella notte, ciò che ci basta per sentirci in relazione con lui. Se anche volessimo rompere questa relazione e se anche qualcuno o qualcosa tentasse di romperla, non potrà mai accadere di essere strappati dalla mano di Gesù Cristo. Niente o nessuno, infatti, ci potrà mai separare dall’amore di Cristo.

 

Il capitolo 10 del vangelo secondo Giovanni contiene una lunga discussione tra Gesù e alcuni farisei che egli dichiara in una situazione di peccato, perché credono e dicono di vedere mentre in realtà non vedono e non operano un discernimento circa l’identità di Gesù e la qualità della sua azione (cf. Gv 9,40-41).

 

Con una parabola Gesù cerca di rivelare loro come egli non sia un ladro ma sia il pastore che entra ed esce attraverso la porta dell’ovile, non in incognito, il pastore che cammina davanti a pecore le quali lo seguono perché riconoscono la sua voce. La parabola però non viene compresa e allora Gesù fa dichiarazioni esplicite su di sé e sulla propria missione: è lui la porta dell’ovile; è lui il pastore buono che, pur di custodire le pecore, è disposto a dare la sua vita, perché ha la capacità di dare la vita per le pecore e di riceverla di nuovo dal Padre (cf. Gv 10,17). Queste parole creano divisione tra quanti lo ascoltano: alcuni lo giudicano indemoniato, altri riconoscono il suo operare carico di salvezza (cf. Gv 10,19-21).

 

In quei giorni “ricorreva a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i capi dei giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: ‘Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente’” (Gv 10,22-24). Gesù è dunque costretto a riprendere la parola per denunciare che la situazione di non fede in lui è dovuta al fatto che quegli ascoltatori non sono sue pecore (cf. Gv 10,26), non sono disposti ad accogliere le sue parole.

 

A questo punto dobbiamo però fare un’osservazione di grande importanza. Nelle sante Scritture pastori e pecore sono molto presenti, perché facevano parte della società pastorale-agricola in cui la Bibbia è sorta. Essere pastore significava svolgere un mestiere che aveva grande rilevanza e tutti sentivano la figura del pastore come esemplare. Noi oggi siamo lontani da quella situazione, non conosciamo né vediamo, se non raramente, pastori che conducono il gregge; e soprattutto, le pecore non ci appaiono capaci di rappresentarci. Per questi motivi, le parole di Gesù al riguardo non sono più performative come lo erano ai suoi tempi in Palestina. Di conseguenza, non mi soffermo tanto sulle immagini del pastore e delle pecore, ma vorrei approfondire i verbi utilizzati, che nelle parole di Gesù vogliono comunicarci un messaggio su di lui: su Gesù, ovvero su un uomo che ha vissuto realmente tra di noi, che era umano come noi, che ha lasciato una traccia indelebile del suo comportamento nel cuore di quelli che “sono entrati e usciti con lui”.

 

Innanzitutto Gesù dice che quanti lo seguono, cioè sono suoi discepoli, “ascoltano la sua voce”. Questo è l’atteggiamento di chi crede: è credente perché ha ascoltato parole affidabili. È il primo passo che l’essere umano deve compiere per entrare in una relazione: ascoltare, che è molto più del semplice sentire. Ascoltare significa innanzitutto riconoscere colui che parla dalla sua voce, dal suo timbro particolare. Ci vogliono certamente impegno e fatica, ma solo facendo discernimento tra quelli che parlano è possibile ascoltare quella voce che ci raggiunge in verità e con amore. Tutta la fede ebraico-cristiana dipende dall’ascolto – “Shema‘ Jisra’el! Ascolta, Israele!” (Dt 6,5; Mc 12,29 e par.) – e sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento “la fede nasce dall’ascolto” (fides ex auditu: Rm 10,17). Per avere fede in Gesù occorre dunque ascoltarlo, con un’arte che permetta una comunicazione profonda, la quale giorno dopo giorno crea la comunione.

 

La seconda azione che Gesù presenta come propria delle sue pecore si riassume nel verbo seguire: “Esse mi seguono”. Materialmente ciò significa andare dietro a lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4), ma seguirlo anche conformando la nostra vita alla sua, il nostro camminare al modo in cui lui ci chiede di camminare (cf. 1Gv 2,6). Il pastore quasi sempre sta davanti al gregge per aprirgli la strada verso pascoli abbondanti, ma a volte sta anche in mezzo, quando le pecore riposano, e sa stare anche dietro, quando le pecore devono essere custodite affinché non si perdano. Gesù assume questo comportamento verso la sua comunità, verso di noi, e ci chiede solo di ascoltarlo e di seguirlo senza precederlo e senza attardarci, con il rischio di perdere il cammino e l’appartenenza alla comunità.

 

In questa condivisione di vita, in questo coinvolgimento tra pastore e pecore, tra Gesù e noi, ecco la possibilità della conoscenza: “Io conosco le mie pecore”. Certamente Gesù ci conosce prima che noi conosciamo lui, ci scruta anche là dove noi non sappiamo scrutarci; ma se guardiamo a lui fedelmente, se ascoltiamo e “ruminiamo” le sue parole, allora anche noi lo conosciamo. E da questa conoscenza dinamica, sempre più penetrante, ecco nascere l’amore, che si nutre soprattutto di conoscenza. Cor ad cor, presenza dell’uno accanto all’altro, possiamo quindi dire umilmente: “Io e Gesù viviamo insieme”. Gesù è “il pastore buono” (Gv 10,11.14), certo, ma anche l’amico e l’amante fedele, potremmo dire: sentendoci da lui amati, conosciuti, chiamati per nome, penetrati dal suo sguardo amante, allora possiamo decidere di amarlo a nostra volta.

 

Che cosa attendere dunque da Gesù Cristo? Il dono della vita per sempre e quella convinzione profonda che siamo nella sua mano e che da essa nessuno potrà mai strapparci via. La mano di Gesù è mano che ci tocca per guarirci; mano che ci rialza se cadiamo; mano che ci attira a sé quando, come Pietro affondiamo (cf. Mt 14,31); mano che ci offre il pane di vita; mano che si presenta a noi con i segni dell’aver sofferto per darci la vita (cf. Lc 24,39; Gv 20,20.27); mano che ci benedice (cf. Lc 24,50), tesa verso di noi per accarezzarci e consolarci. Ecco quella mano del Signore che più volte è stata dipinta tesa verso l’essere umano, perché ognuno di noi per camminare ha bisogno di mettere la propria mano in quella di un altro. Solo così non ci sentiamo soli e, anche se non siamo esenti da cadute o sventure, confidiamo di essere sempre sostenuti dal Signore, sempre in relazione con lui.

 

Queste parole del Kýrios risorto – “Nessuno strapperà le mie pecore dalla mia mano, perché sono il dono più grande che il Padre mi ha fatto, il dono più grande di tutte le cose” – sono e restano, anche nella notte della fede, anche nelle difficoltà a camminare nella notte, ciò che ci basta per sentirci in relazione con il Signore. Se anche volessimo rompere questa relazione e se anche qualcuno o qualcosa tentasse di romperla, non potrà mai accadere di essere strappati dalla mano di Gesù Cristo. L’Apostolo Paolo, significativamente, ha gridato: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Rm 8,35). No, niente e nessuno, “ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,37). E la mano di Gesù Cristo risorto è la mano di Dio, perché lui e il Padre sono uno.

 

Ma dobbiamo dirlo: una fede così, anche se povera e fragile, scatena l’avversione e la violenza di chi non può credere in Gesù. Ecco perché, al sentire queste sue parole, quei farisei che credevano di vedere bene raccolgono delle pietre per lapidarlo (cf. Gv 10,31). Dove c’è un’azione, un comportamento, una parola di amore, gli uomini religiosi vedono una bestemmia, un attentato al loro Dio, che vorrebbero fosse un Dio senza l’uomo, contro l’uomo! Amano infatti più la religione che l’umanità, più le idee e la loro dottrina che non l’umano, cioè i fratelli o le sorelle accanto a noi nella loro condizione di peccato, di fragilità: condizione, appunto, propria degli umani, che la mano di Dio deve salvare e rialzare.

 

Gesù ha detto: “Io sono il pastore buono”

                                    “Io sono uno con il Padre”,

ma attraverso lo stile con cui ha vissuto ha anche detto, non esplicitamente ma realmente, nei fatti: “Io sono l’uomo, l’umanità (“Ecce homo!”), perché anche in piena relazione con gli uomini e le donne che sono nel mondo. Sono l’uomo come Dio l’ha voluto, uno con l’umanità così come sono uno con il Padre”. Certamente le parole “Io e il Padre siamo uno” sono il vertice della rivelazione fatta da Gesù sul suo rapporto con Dio, sulla sua intimità, sulla sua comunione con il Padre. Saranno proprio queste parole a ispirare l’affermazione della divinità di Gesù nel concilio di Calcedonia. Parole che risultavano scandalose per i giudei, ma che sono fondamento della fede per noi discepoli di questo Dio fattosi uomo in Gesù di Nazaret, il nostro pastore.


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Don Fabio Rosini, direttore del Servizio per le Vocazioni della Diocesi di Roma, 

commenta il Vangelo dell'8 maggio 2022, IV domenica di Pasqua Anno C.



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IV Domenica di Pasqua Anno C

Gv 10, 27-30

 "Io e il Padre siamo una cosa sola"

Ludwig Monti, biblista

  

Dopo averci presentato per tre domeniche la resurrezione del Signore Gesù Cristo attraverso i racconti delle sue manifestazioni ai discepoli, oggi la liturgia ci invita a contemplarlo vivente quale Pastore della sua chiesa; lui che – come proclama la seconda lettura – è l’Agnello ritto sul trono, diventato Pastore, che ci guida alle fonti delle acque della vita (cf. Ap 7,17).

Il nostro breve brano evangelico va collocato all’interno del contesto più ampio del capitolo 10 del vangelo secondo Giovanni. All’interno di una polemica tra Gesù e le autorità religiose giudaiche, atmosfera tipica del quarto vangelo, Gesù fa tre affermazioni che si imprimono nei nostri cuori e li illuminano. Dopo essere stato criticato per il suo discorso sul “buon pastore” (cf. Gv 10,1-21), anzitutto precisa ancora una volta, per rendere chiare le sue intenzioni: “Io do alle mie pecore” – cioè a chi si affida a lui e si lascia guidare dal suo amore (v. 27: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”) – “la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Del resto lo aveva già detto: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Se solo ci ripetessimo più spesso questa affermazione di Gesù, se la lasciassimo risuonare in noi con maggior convinzione, come cambierebbe la prospettiva sulla nostra vita quotidiana…

Ma come comprendere e sperimentare la verità di queste parole? Fidandoci di Gesù, appunto, aderendo con tutto il nostro essere a ciò che egli dice subito dopo: “Credete alle mie azioni” (Gv 10,38), narrazione del Padre. Anche qui, non abbiamo che da leggere il vangelo con il vangelo: “Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le azioni stesse che io compio” (Gv 14,11). Certo che Gesù aveva una parola performante – “Mai un uomo ha parlato così!” (Gv 7,46), si è potuto dire di lui –, ma sarebbe stato sufficiente guardarlo, contemplare il suo agire. Perché le sue parole erano l’eloquenza verbale di ciò che già traspariva dal suo fare, dal suo camminare, guardare, ascoltare, condividere la tavola, riposare…

E cosa fa, in estrema sintesi, Gesù? Si decentra da sé per fare segno a Dio, il Padre, e si decentra donando la vita… Questo, paradossalmente, è il significato della terza affermazione chiave, che sigilla il nostro brano: Io e il Padre siamo una cosa sola”. Alta teologia? No, realtà di un rapporto stretto con quella Presenza silenziosa che Gesù sentiva quale fonte profonda del suo intero vivere. D’altronde, ormai lo sappiamo: “Dio, nessuno lo ha mai visto, ma il Figlio unigenito … lo ha raccontato” (Gv 1,18). Cosa possiamo sapere di Dio, in ultima analisi? Ciò che Gesù ha detto e fatto: quello che egli ha detto e fatto per raccontare Dio, possiamo dirlo, farlo e crederlo; quello che non ha detto o fatto, no. Occorre fermarsi prima, limitarsi a “tenere fisso lo sguardo su Gesù” (cf. Eb 12,2). Più avanti Gesù dirà a Filippo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Nessun prodigio abbagliante ma un “dare la vita” giorno dopo giorno. In quell’uomo ci è stato detto l’essenziale per andare a colui che continuiamo a chiamare “Dio”. Se è vero e giusto continuare a ripetere che Gesù è Dio, dovremmo iniziare anche a dire che Dio è Gesù!

Come è semplice il cristianesimo! Non ci è chiesto altro che di accogliere il dono che Gesù fa, anzi è, per imparare a nostra volta a donare noi stessi (cf. Gv 15,13). Si tratta di assumere quelli che un glorioso scritto delle origini cristiane, la Didaché, chiamava “i modi di Gesù”. Ma prima – lo ripeto – bisogna saperli conoscere e accogliere: bisogna saper ricevere da lui la vita per donarla a nostra volta, facendo nostri i suoi “modi”, il suo stile. È l’eloquenza della sua vita la parola definitiva di Dio all’umanità. Andare a Dio richiede ormai di passare attraverso l’umanità così intensa ed evangelica di Gesù. Egli è la buona notizia per eccellenza, è il volto ultimo del Padre: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio” (Gv 14,6-7).

Davvero noi cristiani non possiamo dire nulla di Dio se non ciò che vediamo e conosciamo in Gesù Cristo, lui che è la nostra vita eterna (cf. 1Gv 5,20). E lo possiamo narrare a nostra volta solo quando facciamo della sua vita la nostra vita, in modo che anche le nostre azioni siano credibili. Accogliere il suo pensare, sentire, parlare e agire è l’unica radice da cui può fiorire la pianta preziosa della vita cristiana: una vita umana che aderisce a Gesù Cristo e tenta, tra fatiche e cadute, di mostrare la misura sovrabbondante del suo amore. L’amore di Cristo, visibile nella sua vita, è fonte e senso dell’agire di chi aderisce a lui e rinnova ogni giorno la fiducia in lui, più forte della sfiducia (sempre potenzialmente omicida) che nasce da uno sguardo autocentrato.

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