Massimo Recalcati "Putin e la psicologia del dittatore"
La Repubblica, 25 aprile 2022
Ogni dittatore osserva la Storia dall’alto; anche lo scenario efferato della guerra viene sempre
percepito a distanza. I puntini anonimi che segnalano la morte di bambini e di civili inermi, come
quelli dei combattenti, appaiono ai suoi occhi solo come elementi secondari del quadro. Talvolta un
chiaro disturbo alla propria immagine. Allora la macchina della propaganda si mobilita per oscurare
la verità. Lo sguardo di ogni dittatore trapassa le vite umane come se queste non contassero niente.
Il culto della personalità non è infatti mai laterale alle dittature, ma rivela la loro essenza più
propria.
Ogni dittatore è prigioniero dello specchio: la sola immagine che conta è la propria. La potenza
militare o quella economica prolungano questa raffigurazione onnipotente di sé. Il dubbio,
l’incertezza, la critica non appartengono al lessico del dittatore. L’autocrazia della propria
enunciazione esige che la sua parola sia sempre nel giusto. Di qui l’intolleranza estrema verso la
dimensione plurale e necessariamente democratica della parola. Per questo quando il dittatore si
rivolge ai suoi collaboratori non lo fa mai per imbastire un dialogo, ma solo per imporre il suo
punto di vista. La sua parola non instaura una dialettica, ma un comando. La distruzione sistematica
del dissenso riflette questa logica: il dittatore non intende rappresentare la Legge perché è la Legge.
È il carattere profondamente religioso di ogni regime totalitario. È ciò che anima il consenso
popolare verso le dittature. La divinizzazione del leader offre, infatti, al suo popolo una protezione e
una identità inscalfibili. Per questa ragione la democrazia viene giudicata come un sistema politico
corrotto nelle sue fondamenta perché consegna il popolo allo scempio di un indebolimento, dalle
conseguenze sempre incerte e minacciose, della Verità. La democrazia che si istituisce
strutturalmente sul principio della instabilità — permutazione, pluralismo, negoziazione,
articolazione istituzionale — è, agli occhi del dittatore, l’incarnazione di una malattia mortale. La
sua corruzione è il cancro dal quale il proprio regime deve immunizzarsi. Nel caso di Putin questa
immunizzazione, non a caso, trova uno dei suoi alleati più potenti nel potere religioso della Chiesa
ortodossa di Mosca.
Il rifiuto della democrazia coincide così con il rifiuto della degenerazione morale che l’Occidente
inevitabilmente comporta. Per questa ragione la spinta alla conservazione definisce ogni dittatura in
quanto tale. Ma la conservazione è innanzitutto conservazione del proprio potere. La sola cosa che
conta è il compimento della missione alla quale ogni dittatore si sente votato dalla Storia. Nel caso
specifico di Putin l’affermazione della Russia come potenza imperiale.
Questa Idea sovrasta ogni altra realtà, compresa, ovviamente, quella dell’atrocità della guerra. La
sua fantasia di celebrare l’anniversario del 9 maggio nella città martire di Mariupol rivela in pieno
la mitologia personale di ogni dittatore. La città rasa al suolo verrà abilmente occultata dagli
sceneggiatori del regime o sarà sbandierata propagandisticamente come esempio della violenza
terrorista nazista del battaglione Azov finalmente neutralizzata dalle truppe di liberazione russe? La
guerra di ogni dittatore deve essere concepita dal suo popolo come una guerra giusta. E la vittoria
deve essere offerta al popolo come vittoria della Verità sulla menzogna. Mentre infatti nei sistemi
democratici la Verità dà luogo a infinite dispute interpretative, nei regimi dittatoriali la Verità è
sempre e solo Una: quella imposta dalla propaganda del regime.
Questa versione univoca della Verità è la metafisica implicita che accompagna ogni dittatura. Essa
trae la sua forza da una vocazione profondamente paranoica: il sentimento di accerchiamento e di
minaccia incombente sulla propria vita e sul proprio sistema di potere è prerogativa di ogni
dittatore.
La necessità di preservare la propria potenza comporta la spinta a leggere il pericolo di essere
detronizzato ovunque. Essere regista e primo attore nello stesso tempo implica che nella schiera
delle comparse, come in quella dei molteplici nemici, possa sempre celarsi un traditore pronto a
volere la morte del suo padrone.
Per questa ragione la sua violenza tende ad assumere le forme ideologiche di un atteggiamento
difensivo. Il verme della democrazia, se non viene stanato in tempo, può infatti generare
l’imputridimento del sistema.
Quello che più di ogni altra cosa il dittatore teme è che il sequestro della parola e della Verità
possano avere un termine.