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Enzo Bianchi "Tre urgenze di cui dibattere nella Chiesa”

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Aprile 2022
Tre urgenze di cui dibattere nella Chiesa
per gentile concessione dell'autore

Nel nostro tentativo di seguire il cammino sinodale, dopo aver riflettuto sulle tre parole chiave consegnate da papa Francesco alla Chiesa (comunione-partecipazione-missione), siamo giunti a indicare un'urgenza che deve precedere il confronto sinodale sui vari temi: l'urgenza dell'inculturazione del Vangelo nelle diverse terre del mondo. Se il Sinodo non assume la convinzione che è un diritto delle genti e delle culture incarnare il Vangelo ed esprimersi con una liturgia, una teologia, una spiritualità propria e specifica, sarà sterile tutto l'impegno investito nella trattazione dei differenti temi. 

La Chiesa cattolica — e ne comprendo il timore — deve riconoscere il diritto alla pluralità delle forme nelle quali confessare Gesù Cristo; deve dare spazio alla richiesta, da parte dei cristiani delle varie aree culturali del mondo, di percorrere vie proprie conservando la necessaria unità nella fede. La Chiesa, dunque, deve accogliere la diversità, la differenza, in tutto ciò che non è essenziale per essere discepoli di Gesù Cristo. Non è finita soltanto la cristianità, è finita l'era di una Chiesa uniforme, di una Chiesa che non riconosce di essere "Chiesa di Chiese". 

Negli ultimi due decenni, avremmo dovuto imparare dai Sinodi celebrati che non si può giungere a posizioni universali, quelle espresse dalla sede petrina, ma che dovremmo piuttosto, obbedienti alla ricerca e alla fatica fatta dai padri sinodali, giungere a decisioni che riguardano alcune Chiese, alcune regioni, senza coinvolgere la Chiesa intera. 

Non mi riferisco certo a una Chiesa delle nazioni, ma a una "Chiesa di Chiese" che sappia accogliere e ordinare liturgie diverse, teologie diverse, discipline ecclesiali diverse. Occorre interrompere, quanto prima, questo modo di procedere, quello di sempre, per il quale nel Sinodo prevale solo l'universale deliberato e normato dalla cattedra romana. Le Chiese locali devono essere riconosciute soggetto di diritto di iniziative ecclesiali, non solo circoscrizioni amministrative. E al Sinodo devono potersi esprimere e chiedere e ottenere ciò che per la loro missione giudicano necessario, ricevendo l'approvazione delle altre Chiese. Io resto convinto che senza questa soggettività delle Chiese locali il Sinodo della Chiesa universale potrà camminare ben poco. 

In ogni caso, in questi mesi sono apparsi abbastanza numerosi i contributi teologici sul cammino sinodale, o meglio sulla sinodalità, che insistono in modo martellante sull'ascolto come necessità, soprattutto nella prima fase del Sinodo. Solo la vita monastica e religiosa è rimasta silente come se non avesse nulla da dire, come se non credesse al Sinodo o come se il Sinodo non la riguardasse. Ma i tentativi di delineare dei temi da porre al confronto, al discernimento e alle eventuali deliberazioni sinodali sono scarsissimi, forse anche a causa di interventi episcopali che, soprattutto, in Italia hanno gelato sul nascere il dibattito. 

Si è detto subito che non si doveva seguire la strada del Sinodo della Germania, con i temi che là vengono dibattuti, perché quei temi non ci appartengono; si è detto che il Sinodo non deve essere un luogo di rivendicazioni ecclesiali e che i temi urgenti sono: il primato della parola di Dio nella Chiesa, i poveri, i migranti, i disoccupati, la condizione giovanile, l'ecologia... certamente temi che oggi sentiamo decisivi per la vita cristiana nel mondo in solidarietà con l'umanità. Ma vorrei far notare che questi temi o sono già stati trattati in un Sinodo (parola di Dio, evangelizzazione, i giovani), o sono temi che sono stati assunti con responsabilità da tutte le Chiese. A me sembra che ci siano, invece, urgenze che non possono essere rimandate a un futuro. 

Sono certamente molte queste urgenze, ma ne evidenzio soltanto tre: la presenza della donna nella Chiesa, l'ammissione di persone sposate al sacramento dell'ordine, la riforma liturgica. 

Quanto alla presenza delle donne nella Chiesa, da tempo è in atto una loro fuga silenziosa dagli spazi ecclesiali (cf A. Matteo, La fuga delle quarantenni), perché convinte che la loro dignità non è riconosciuta, che restano delle "ausiliarie" per i chierici, e non si richiede mai il loro parere quando si prendono decisioni... Negli ultimi decenni, a cominciare da Giovanni Paolo II, la donna è evocata spesso nello spazio ecclesiale, la si osanna, la si loda, si canta della donna l'immagine ideale della sposa e della madre, ma questo risulta una beffa per le donne. Più le si canta, meno le si riconosce concretamente nella vita quotidiana ecclesiale. Si è addirittura inventato nell'immaginario maschile clericale il principio "mariano-petrino": inconsistente parabola di una polarità maschile-femminile, perché Maria e Pietro non sono sullo stesso piano. Maria è sul piano simbolico la figlia di Sion, figura di Israele e della Chiesa, mentre Pietro non è figura, è un ministero tra altri ministeri voluti nella Chiesa da Gesù il Signore. Perché ricorrere a tale mostruosa immagine? Maria può essere definita madre della Chiesa, ma Pietro non può essere definito padre della Chiesa! Dunque, nessuna lettura simbolica — sarebbe impossibile — perché il simbolo collega, unisce realtà simili, non diverse. Proprio per questo risulta anche incongruo mettere a confronto Pietro e Maria per individuare chi dei due è più importante: realtà diverse, non paragonabili! E poi oggi non mi sembra il caso di fissarsi sulla polarità maschile-femminile, sapendo come su di essa le scienze umane stanno discutendo nel tentativo di liberare da tante gabbie e schiavitù quelli che ne sono imprigionati. 

Diciamo la verità: oggi la Chiesa cattolica, come tutte le Chiese ortodosse, non si sente disponibile a conferire il sacramento dell'ordine alle donne. La dichiarazione di Giovanni Paolo II, Ordinatio sacerdotalis, è stata confermata da Benedetto XVI e anche da Francesco. Neanche il diaconato, che era parsa una possibilità, figura come tema da affrontare nel Sinodo. Solo la Chiesa di Germania ha avanzato una proposta, verso la quale si è dichiarata con forza l'indisponibilità. E allora? Io credo sia, comunque, necessario che ci si confronti sulla presenza delle donne nella Chiesa, che si abbia il coraggio di scelte profetiche, che si possa, come nella Chiesa nascente, creare ministeri nei quali le donne trovino un riconoscimento di dignità, di vocazione e di missione come gli uomini. Certamente occorrerà comprendere che la forma attuale dei ministeri ordinati è frutto delle scelte della Chiesa nascente e della tradizione, dunque può essere mutata dalla Chiesa stessa. 

Un altro tema sinodale riguarda l'ammissione di persone sposate al sacramento dell'ordine. E qui c'è poco da dire, perché si tratta solo di mutare una disciplina della Chiesa latina, mentre le Chiese cattoliche di oriente conoscono già un ministero uxorato. Il celibato è un dono, una grazia preziosa che il Signore fa alla Chiesa, ma non deve essere imposto come legge a quanti la Chiesa può chiamare come pastori del gregge. La possibilità di far accedere persone sposate al sacerdozio ministeriale deve essere offerta non perché mancano i presbiteri, ma per affermare la libertà del dono dello Spirito anche su chi è chiamato a governare il popolo di Dio senza aver ricevuto il carisma del celibato per il Regno! 

Quanto all'urgenza di una riforma liturgica, o per meglio dire di una ripresa della riforma iniziata con il Vaticano II, si aprano i cantieri, non si viva nella paura di divisioni e scismi, ma si impari a vivere la pluralità delle espressioni liturgiche.

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