Lilia Sebastiani "Oltre il clericalismo e oltre il sacro"
L’intervista a papa Francesco domenica 6 febbraio, nel programma Che tempo che fa, condotto su
Rai 3 da Fabio Fazio, ha suscitato
commenti molto diversi anche e
soprattutto prima che avesse luogo. Moltissimi l’hanno apprezzata
(tra questi anche qualcuno che, prima,
non la riteneva una buona idea) per il tono
semplice, profondo, umanissimo del papa,
per il rispetto e l’attenzione mostrate anche dal giornalista intervistatore. C’è chi
si è sdegnato, non proprio per le cose dette
– in realtà non nuove –, ma proprio per
l’uso del mezzo televisivo e del ‘genere letterario’, mi si passi il termine, del
talkshow. Anche se in effetti si trattava di
un caso atipico: il Papa non si è recato negli
studi televisivi, parlava da Casa Santa
Marta e l’intervista è stata trasmessa in
differita, il che limita forse la spettacolarizzazione dell’evento, ma è opportuno
sotto molti aspetti.
C’è chi ha rilevato (sì, anche io) la latitanza, probabilmente concordata in anticipo,
dei cosiddetti temi ‘caldi’: gli scandali sessuali e finanziari che toccano i membri del
clero, i nemici ‘interni’ che contrastano
papa Francesco, le richieste sempre più
pressanti e autorevoli di abolire il celibato dei preti e di ammettere le donne al
ministero ordinato. Ma è un’assenza che
si capisce, e in fondo giusta: il discorso
televisivo, sempre rapido e molteplice anche quando ha un taglio ‘pensoso’ come in
questo caso, non si presta ad approfondire, e le quaestiones disputatae, su cui non
vi è nessun accordo nemmeno tra i cattolici, in questo momento sarebbero forse
più danneggiate che aiutate da un approccio troppo rapido. Ma ora vorremmo soffermarci su un punto in cui possono sfiorarsi, senza pensarci, quelli che si sdegnano e quelli che si commuovono.
Il punto è il sacro, anzi la sacralità come
attributo: la distanza, l’irraggiungibilità (fino
all’incomunicabilità), che molti anche sinceramente credenti considerano tuttora, per memoria atavica, un fatto non solo positivo ma irrinunciabile, il cui venir meno
porta con sé il venir meno della fede.
Così, per fare un esempio qualunque, un
giornalista dell’Huffington Post è arrivato ad
affermare che papa Francesco intervistato
da Fabio Fazio è «emblema di un pontificato
che si desacralizza tra ospitate e social».
«Oggi il male più grande della Chiesa è la
mondanità spirituale», ha detto papa Francesco nell’intervista, ripetendo un’osservazione severa avanzata più volte, «che fa
nascere la perversione del clericalismo».
a monte del clericalismo
Del clericalismo papa Francesco ha parlato più volte sin dagli inizi del pontificato; sembra che qui si trovi veramente uno
dei pilastri del suo pensiero, anche se è
possibile che la parola susciti in lui, per la
sua esperienza di vita e di ambiente sudamericano, risonanze un po’ diverse da
quelle che suscita nei nostri ambienti.
I suoi rilievi sincerissimi e anche accorati
sul clericalismo, legato alla mondanizzazione della chiesa – che abbiano sentito e letto molte volte in questi anni –, non sembrano ancora promuovere un vero superamento, in parte a causa delle resistenze fortissime di certi ambienti ecclesiastici, ma
forse anche perché papa Francesco, pur
guardando con attenzione, da vicino, e denunciando con efficacia i guasti del clericalismo (sia quelli ‘storici’ sia quelli del
momento presente), non sembra dedicare
un’attenzione altrettanto profonda alle cause: come se non riconoscesse chiaramente
o non volesse esplicitare il profondo legame tra clericalismo e regime del sacro.
Il tema del sacro affrontato in relazione al
clericalismo e alle sue conseguenze appare ancora piuttosto marginale in Italia,
mentre la riflessione è assai più avanzata
in Francia e in Germania. Di recente è stato affrontato dalla sociologa Danièle Hervieu-Léger, esperta in particolare nei cambiamenti del vissuto religioso nelle società secolarizzate, intervenuta l’11 dicembre
2021 in un incontro organizzato dalla Ccbf
(Conférence Catholique des Baptisé-e-s de
France) sul tema «Verso una nuova governance della Chiesa: Andare oltre il clericalismo» (1). Il tema risulta di speciale attualità in Francia in questo momento, perché
è ancora storia recentissima la pubblicazione del rapporto della Ciase, Commission
Indépendant sur les abus sexuels dans l’Église (meglio conosciuta come «Commission
Sauvé», dal nome del presidente), costituita nel 2018 per indagare sugli abusi compiuti in Francia da membri del clero negli
ultimi settant’anni, 1950-2020 (2). La Commissione, voluta dalla Conferenza episcopale francese ma da questa in nessun modo
condizionata nel suo lavoro, formata da
professionisti di varia specializzazione,
nelle conclusioni sottolineava l’eccesso di
sacralità riversata sulla figura del prete (se
questo succede nella laica Francia, che cosa
risulterebbe in Italia?), presentando questa sacralizzazione come il ‘sistema’ che ha
favorito l’instaurarsi di una vera e propria
cultura dell’abuso.
Il sistema romano si fonda su tre pilastri
che l’epoca moderna e il Concilio Vaticano
II hanno notevolmente scosso, ma non abolito: 1) il monopolio della verità, 2) una visione territorializzata e imperiale della
missione, 3) la costruzione gerarchica e
sacrale dell’autorità dei ministri ordinati.
Quest’ultimo appare come il vero ‘muro
portante’ del sistema romano: il prete visto
come dispensatore esclusivo dei beni della
salvezza, contrapposto a un popolo completamente privo di potere. Perciò deve
essere ben marcata la distanza del clero
dai fedeli ordinari. Qui si trova la chiave
della sacralizzazione: il sacro è ‘separato’.
Le riforme attuate da papa Francesco in
questi primi otto anni di pontificato possono sembrare non dirompenti; osservate in
una prospettiva diversa, danno un’altra
impressione. La sua capacità di aprire al
futuro è legata all’idea per cui è necessario
avviare processi e metterli in opera, secondo una visione in cui il tempo supera lo
spazio, che in un certo senso ha accompagnato questi otto anni, non tanto per la
quantità di riforme approvate, ma piuttosto attraverso i gesti che hanno accelerato
la desacralizzazione del papato, lo stile sinodale nella Chiesa, le scelte pastorali.
La portata riformatrice dell’attuale pontificato deve essere analizzata alla luce dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium,
in particolare al n. 222 (il tempo superiore allo spazio) (3), e nel paragrafo seguente: «Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi» (n. 223).
Il primo processo messo in atto da Francesco riguarda la figura stessa del Papa e
possiamo dire che è cominciato già la sera
del 13 marzo 2013 quando, affacciatosi per
la prima volta su piazza San Pietro, salutò
la gente radunata con il semplice «Buona
sera» che, non senza ragione, è entrato
subito nella sua leggenda.
La sera del 6 febbraio ha concluso la sua
intervista televisiva chiedendo, come sempre di pregare per lui, ma con una variazione sorridente: «‘100 lire, 100 preghiere’. Grazie». E con un’aggiunta-apertura
finale che fa pensare: «…Chi non prega può
mandarmi ondate positive, ne ho bisogno».
la tentazione di dividere
La dicotomia sacro-profano appartiene alla
logica ‘religiosa’ precristiana, e anche a
quella esoterica; ma l’esempio di Gesù ci
ha insegnato che è necessario andare oltre. La Parola di Dio e l’autentica esperienza spirituale cristiana non solo superano la
distinzione tradizionale tra sacro e profano ma la delegittimano per sempre.
Sacer si riferisce a persone, luoghi, oggetti associati al divino, che consentono di
entrare in rapporto con esso, ma per mezzo di personale autorizzato e rispettando
regole severe e barriere inviolabili. Invece pro-fanum è ciò che sta davanti al tempio o allo spazio sacro, come realtà ‘altra’.
Ogni comunità religiosa che la storia ci
presenta ha avuto prima o poi la tendenza
a stabilire una separazione tra sacro e profano, a dichiarare qualcosa intoccabile
perché assolutamente riservato alla divinità e quindi oggetto di timore e venerazione. «Sacro e profano» dice Mircea Eliade nel suo libro omonimo, «sono – nelle
religioni – le due dimensioni del mondo».
Certo però non sono le coordinate di un
mondo redento.
Una certa concezione religiosa – non cristiana in sé, ma fatta propria da varie correnti di pensiero cristiano – tende a vedere la realtà esterna al fatto religioso in senso stretto come profana, estranea, potenzialmente peccaminosa o pericolosa: parte dall’idea che alcuni ambiti del mondo
(persone, cose, luoghi) potrebbero temporaneamente o stabilmente venire isolati
dalla profanità per rendere possibile una
relazione con Dio. Di qui la visione del clero
come categoria separata dagli altri esseri
umani e, per definizione, più vicina a Dio,
ma protetta per mezzo di varie esclusioni; di qui anche la concezione gerarchico-sacrale della chiesa, la cui persistenza rende di fatto così difficile aprirsi nel profondo e nei fatti a una concezione comunionale.
Sappiamo che il Concilio Vaticano II ha
scalzato alla base questa logica: molto seriamente e tuttavia parzialmente, senza
abolirla (nei documenti del Concilio come
in tutta la storia non solo del suo svolgimento, ma anche della sua ricezione, si
trovano due ecclesiologie conviventi e incompatibili), ma il vero superamento della logica del sacro-profano opera alla fonte, cioè nello stesso evento di Gesù narrato dai Vangeli.
Il cristianesimo si fonda sull’incarnazione
del divino nell’umano, e anche quella che
chiamiamo Resurrezione, vittoria della vita
sulla morte, è irruzione del divino nell’umano: perciò dovrebbe segnare la fine
della separazione, di ogni separazione.
Gesù abbatte le barriere:
dal sacro al santo
Gesù, più che con le categorie del sacroprofano, nella sua vita terrena si misura
con quelle del puro e dell’impuro, in un
certo senso equivalenti (anche se l’impurità nel suo ambiente era concepita come
un dato quasi fisico e contagioso). Spesso
infrange quasi programmaticamente i vari
tabù cultuali. Il buon Samaritano, personaggio indubbiamente ‘laico’, e inoltre
impuro ed eretico per definizione, viene
contrapposto al sacerdote e al levita, uomini del sacro, in un confronto vincente:
da Gesù è assunto come figura dello stile
e dell’agire di Dio. Gesù sconcerta i suoi
contemporanei soprattutto perché non
presenta le caratteristiche esemplari dell’uomo ‘religioso’. Dal suo messaggio emerge l’idea che per essere in rapporto con
Dio occorre aprirsi al suo amore e metterlo in circolo per la vita del mondo; il suo
esempio mostra che per vivere totalmente la fede occorre diventare sempre più
liberi dalla religione.
Nelle religioni tradizionali il credente è
colui che obbedisce a Dio, osservando le
sue leggi; ma l’obbedienza ribadisce una
distanza. Nella nuova realtà il discepolo è
quello che, attraverso Gesù, assomiglia al
Padre, mettendo in pratica un amore simile al suo. Ben diversa dall’obbedienza,
la somiglianza fondata sull’immagine realizza una prossimità di Dio – prossimità ai
fratelli, crescente e trasformativa.
Mentre le religioni antiche presentavano
divinità gelose delle proprie prerogative (che
peraltro sembrano richiamare un universo di valori spiccatamente terreno: bellezza,
felicità, immortalità…), il Dio portato all’umanità da/in Gesù di Nazaret ama uomini e
donne nella loro concretezza singolare e
vuole dare loro una vita sovrabbondante e
senza limiti. La pienezza della divinità e la
pienezza dell’umanità sono in stretto rapporto: quanto più la persona umana realizza se stessa, tanto più realizza il progetto di
Dio e quindi entra nella stessa vita divina.
Quanto più l’essere umano sarà umano, tanto più Dio potrà essere presente nel mondo
attraverso il suo Spirito.
Dopo l’evento di Gesù non vi è più bisogno
di sacerdoti, né di tutto l’apparato sacro:
tempio, culto, legge intesa come insieme
di precetti, e relative esclusioni. Il rapporto
con Dio è im-mediato, è vicino, è totale;
ed è stato Gesù a sancire questa vicinanza
con il suo messaggio e la sua persona.
Una certa teologia che appariva avanzata ai
tempi del Concilio poiché intendeva rivalutare il ruolo ecclesiale dei laici, ma che oggi
sempre più si avverte inadeguata, attribuiva al clero il compito della santificazione,
ovvero del culto, e ai laici il compito dell’animazione delle realtà temporali. Se si
dovesse attribuire un ‘ruolo’ anche a Dio,
forse il suo sarebbe più vicino a quello dei
laici che a quello del clero…, finché questi
due termini hanno ancora un significato,
puramente storico e immanente. Non ci
sono un mondo sacro e un mondo profano,
non ci sono persone sacre (e perciò riservate, ‘ontologicamente’ diverse), perché la
persona, ogni persona è sacra, nella sua alterità e nel suo mistero. L’essere umano, con
il suo corpo e non ‘nonostante’, è tempio
dello Spirito santo e ha accesso alla sfera
del divino. L’amore di Dio ‘elegge’, non però
nel senso della separazione, bensì della chiamata: vuole tutti «santi e immacolati al suo
cospetto nell’amore» (cfr Ef 1,4). Per questo nella Gerusalemme celeste, dice l’autore dell’Apocalisse, «non vidi alcun tempio
(…), perché il Signore Dio onnipotente e
l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21,22). Dio
è in ogni luogo ma, ma se dev’essergli attribuito un luogo proprio, è il ‘fuori del tempio’: l’essere umano è il vero santuario di
Dio.
Note
(1) Ne dà notizia un articolo di Anne René-Bazin,
in «saintmerry-hors-les-murs.com» del 20.I.22.
(2) Su questo argomento mi sono soffermata in
un articolo su Rocca dell’ottobre 2021.
(3) Cfr. Gennaro Ferrara, Papa Francesco, un pontificato che genera futuro, «Dialoghi» 2/ 2021 p. 9
ss.