Il mio dialogo incessante con l’invisibile: intervista a Paolo Ricca
Il mio dialogo incessante con l’invisibile: intervista a Paolo Ricca
a cura di Antonio Gnoli
in “Robinson” – la Repubblica del 12 giugno 2021
Nel teatro di una vita ultraterrena Paolo Ricca – teologo, ministro della Chiesa valdese e curatore
delle opere di Lutero – rappresenta il dubbio costruttivo. Nel non avere certezze risiede la sua forza.
Vive a Roma e non è molto cambiato dall’ultima volta che ci siamo visti. Sono trascorsi alcuni anni.
È solo un po’ più vecchio e ha faticato un po’ di più nel mettere insieme gli scritti di Lutero sulla
guerra dei contadini. L’intransigente Martino menava duro su quella classe di poveri che, agli inizi
del Cinquecento, i prìncipi espropriarono di quasi tutti i loro beni. Ho letto un paio di libri recenti di
Ricca: i Sermoni (pubblicato da EDB) predicazioni, alcune molto belle, come quella dedicata a
Giobbe e Domande di vita (edito da Claudiana), un testo nel quale affronta questioni teologiche
sotto forma di dialogo. Sul tavolino che separa le due poltrone sulle quali sediamo un libro su
Dietrich Bonhoeffer, il teologo torturato e fucilato dai nazisti. L’argomento tornerà nella nostra
conversazione.
Davanti a un teologo è giusto partire con una domanda su Dio.
«Il rischio è che l’imponenza dell’argomento si scontri con la pochezza della risposta».
Mi ha colpito un commento a Giobbe, che lei fa a proposito di una delle pagine più buie della
Bibbia, dove si nota l’accanimento, perfino la cattiveria, del Signore nei riguardi del
malcapitato Giobbe.
«Ho presente quei passi, intrisi di autentica drammaticità. Furono scritti più di duemila anni fa e
sembrano un manifesto dell’Europa moderna e secolarizzata. Da uomo probo e puro Giobbe si
ribella alle ingiustizie e alle sofferenze che gli tocca patire senza che Dio muova un dito per
aiutarlo. È convinto che Dio lo abbia abbandonato. Ma Giobbe non abbandona Dio. Questo è il
punto».
È la fede nonostante tutto?
«Certo, ma non una fede cieca e insulsa. Giobbe è come Gesù che Dio abbandona sulla croce, ma
Gesù non abbandona Dio. Giobbe e Gesù sono come il popolo ebraico che non ha abbandonato Dio
neppure dopo la tragedia di Auschwitz. Ecco il miracolo, nonostante tutto».
Qualcosa che l’Europa, lei ci ricorda, ha perso.
«Dopo essere stata per secoli la patria del cristianesimo, l’Europa ha perso la forza di indignarsi, di
insorgere contro i soprusi, le prepotenze, le violenze e le ingiustizie. Ha smarrito la decisione di
Giobbe di ribellarsi per non rassegnarsi al conformismo e allo scetticismo. Nessuno meglio di
Kierkegaard ha saputo esprimere questa condizione, quando in Timore e tremore, parlando di
Giobbe scrive: "Ho bisogno di te, ho bisogno di un uomo che sappia lamentarsi con Dio"».
Lei è un valdese che ha sempre accettato il confronto con le altre confessioni.
«Le distinzioni non possono farci dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca che affonda.
Dietrich Bonhoeffer previde, in largo anticipo, la fine delle religioni. Il campanile e la chiesa sono
stati soppiantati da Internet e dalla banca. La secolarizzazione sarà sempre più la cifra del futuro. La
domanda che mi porrei è in che modo si potrà convivere con questa sconfitta».
Lei chiama sconfitta ciò che per altri è solo progresso.
«So bene che esistono altre versioni della vita. Mi resta la fedeltà per quella che ho vissuto».
Perché ha scelto la Chiesa valdese?
«Forse perché tutto il mio piccolo mondo è ruotato attorno a questa esperienza. Mi affascinava la
storia del movimento valdese, trovavo aberranti le persecuzioni subite. E poi sono nato a Torre
Pellice, dove i valdesi stabilirono il loro centro. La mia famiglia è lì dal 1600. Mio nonno, semplice
impiegato d’albergo, fece studiare mio padre da pastore e io ho seguito quella strada».
Come si diventa pastori?
«Maturità classica, quattro anni di studi teologici che ho fatto in parte a Firenze e a Roma e poi un
periodo all’estero, dove presi un dottorato con Oscar Cullmann e seguii le lezioni di Karl Barth.
Finiti gli studi fui ordinato pastore in una cerimonia pubblica che si svolge durante il culto
inaugurale del sinodo che ogni anno riunisce le varie chiese valdesi. L’assemblea impone le mani
sul futuro pastore. Ho svolto la mia pratica per alcuni anni nell’alta Sabina, vicino Rieti, e poi a
Torino».
Che ricordo ha delle lezioni di Karl Barth, considerato uno dei grandi teologi del ‘900?
«Sapeva essere un uomo spiritoso, ma era anche rigorosissimo. Oltre alle lezioni universitarie,
teneva a Basilea tre seminari: uno in lingua tedesca e gli altri due in francese e inglese. In qualche
caso si svolgevano nel salone di un ristorante e in alternativa ospitava a casa sua una dozzina di
allievi, per leggere la Dogmatica. Ricordo che uno studente tedesco fece delle osservazioni
impertinenti e lui molto seccamente gli disse: faccia attenzione, Dio non è un giocattolo con cui ci si
può divertire».
Però cambiò più volte idea su Dio.
«Nel primo Barth, Dio era il "totalmente altro", alla fine della seconda guerra lo ripensò
accostandolo all’umano, per poi arrivare alla conclusione che Dio è come noi. Tutta la Dogmatica,
nelle sue otto-novemila pagine, descrive questo passaggio fondamentale. Il Barth degli anni Trenta
combatteva il Dio nazista del Gott mit uns: Dio non poteva essere con loro».
In che modo i nazisti se ne appropriarono?
«Poterono contare sulla pavidità della chiesa tedesca e sulla connivenza dottrinale di una parte
importante della teologia, la quale rilesse secondo la dottrina hitleriana gli ordini naturali di
Lutero».
Si spieghi meglio.
«Per Lutero Dio fonda il mondo principalmente su tre istituzioni: lo Stato, la Chiesa e la Famiglia.
Il nazismo estese quei concetti sostenendo che tra gli ordini della creazione andassero compresi
anche il popolo, la nazione e la razza. Per il passaggio al famigerato Blut und Boden, ossia "sangue
e terra", ci volle un attimo. Dio divenne così lo strumento della dottrina razzista, per cui se le razze
dipendono dalla sua volontà, allora può anche stabilire che esiste una razza superiore e una
inferiore. Karl Barth, insieme a Paul Tillich, fu tra i pochi a opporsi a quel disegno. Tillich fu
cacciato dall’università e Barth espulso».
Quella di Barth restò un’opposizione solo teologica?
«In qualche modo fu anche politica. Per un decennio fu pastore nel borgo operaio della Svizzera
tedesca di Safenwil, in Argovia. Verso la metà degli anni Dieci si iscrisse al partito socialista,
provocando grande scandalo nella comunità protestante. Negli stessi anni scrisse il celebre
commento alla Lettera ai Romani, un testo da combattimento pensato più dal pulpito che
dall’università. Il commento, tra le tante cose, era anche una risposta a quella teologia che aveva
inneggiato e santificato la guerra del 1915-18».
Barth non fu il solo a commentare la "Lettera ai Romani". Perché lo scritto di Paolo è così
importante?
«È il documento principe della fede cristiana, in cui si parla della morte che entra nella vita
dell’uomo, della legge e poi della grazia. Vi sono contenuti tutti i grandi temi della rivoluzione
cristiana. Dopo i Vangeli è lo scritto più importante che abbiamo. Anche se Lutero sembrava
preferire di Paolo la Lettera ai Galati, una specie di riassunto della Lettera ai Romani, ma dove era
detto più chiaramente che la fede si collega direttamente a Cristo, senza l’intermediazione del papa
o della chiesa».
Non si sente un po’ fuori posto?
«Che cosa intende?»
Prima parlava di sconfitta. Se i testi che ha letto e approfondito fossero, alla fine, serviti solo
per fornire una bella illusione culturale o un alibi, come si sentirebbe?
«Potrei risponderle che ogni libro letto e studiato ha inciso sulla mia formazione, aiutandomi a
guardare il mondo in una maniera non prevedibile. Perfino nella sconfitta il buon cristiano sa aprire
un varco per la parola fede. Lo pensava, ad esempio, Bonhoeffer che interpretò il cristianesimo
come essere per gli altri. Nel tempo della secolarizzazione vide la predicazione realizzarsi nei posti
meno prevedibili, ovunque, ma non necessariamente in chiesa. Fu impiccato dai nazisti, reo di aver
cospirato contro Hitler, il 9 aprile 1945. La guerra era già persa. Ma l’ordine di giustiziarlo partì da
Hitler in persona. Era un lunedì. Il giorno prima, sulla strada di Flossenbürg, esercitò il culto con
altri 4 o 5 prigionieri. In quella meditazione, disse che la fine cui era stato destinato era per lui
l’inizio della vita».
Che cos’è per lei la resurrezione?
«È il fondamento della vita. Un evento che viene prima della vita».
Somiglia a un paradosso.
«Lo so, e so anche che non basta tutta la vita per apprendere che è l’invisibile a fondare il visibile e
non viceversa».
Che cosa esattamente dovremmo apprendere?
«A vedere ciò che non si vede. Non è un gioco di prestigio o di parole quello che le dico. Ma un
modo di stare al mondo. Si parla tanto di verità. Ma qualcuno l’ha mai vista? Io no. Come non ho
mai visto la Libertà, l’Amore. La Resurrezione, appunto. Ma ne vedo i segni e i frutti».
Si risorge nel nome di un Giudizio e di un aldilà cui forse si è destinati. Lei ci crede?
«Su ciò che succede quando moriamo ci sono diverse teorie, a cominciare da quella che ci vorrebbe
avvolti da un lungo sonno, in attesa del risveglio. Francamente non penso che esista una dimensione
che ritroveremo oltre Dio. È lui l’oltre e non c’è un sonno da cui qualcuno ci risveglierà, come
credeva Lutero. Karl Barth disse che la vita è un’occasione unica, proprio perché non è infinita, non
è eterna. Perciò non va sprecata. La vita eterna è qualcosa che non possiamo immaginare, possiamo
solo affermarla. Quanto all’aldilà che prefiguriamo nella nostra testa, proviene dalla tradizione
cristiana. È stato Dante a inventare in larga parte l’aldilà. In tal senso la Bibbia non offre molti
spunti».
Quando dice che Dio è l’oltre che cosa intende?
«Nella Torah c’è scritto che il popolo di Dio non pronuncia il suo nome. Il che è sorprendente».
Perché?
«Per un motivo che può stupire: lo conosce troppo bene per poterlo dire. Dio è oltre le parole. Etty
Hillesum – l’ebrea che morì ad Auschwitz - conosceva meglio dei cristiani Dio e per questo non
poteva dirne il nome. Poteva solo disseppellirlo dalle orride macerie in cui erano entrambi finiti.
Dio non poteva aiutarla, ma lei poteva aiutare Dio. Questa era la conoscenza. Ricordo le mie
lontane lezioni di ebraico con il professor Alberto Piattelli, quando nelle lettere che ne
componevano il nome veniva fuori la combinazione del verbo essere come passato, presente e
futuro. Ma nella grammatica ebraica non si può dire simultaneamente io sono stato, io sono, io sarò.
Dio è appunto l’impronunciabile. L’essere Dio per sua natura è ineffabile, indicibile. Quando Lutero
definì la Chiesa un’assemblea di cuori, pronunciò una verità che c’è e che nessuno vede».
Paradossalmente si potrebbe estendere una tale affermazione a questo tempo della pandemia.
«Che è un tempo della sofferenza. Ma il virus che ci ha aggredito ha una "invisibilità" diversa da
quella di cui si è parlato fin qui. La scienza dice, o ipotizza, come è giunto a noi. Sono i suoi segni
che ci parlano di esso. Le tracce che ha lasciato e da cui lentamente stiamo riprendendoci. Anche
questa è una maniera per risorgere. Ma starei attento a non confondere la fede con il contagio».